Il federalismo e i limiti della politica di Flavio Felice

  • Introduzione

 

Il brano di Jean-Jacques Rousseau riportato in esergo esprime il tratto più evidente di una riflessione sul sociale che identifica la sfera della politica («il Politico») gerarchicamente sovraordinata rispetto alle altre sfere storico-esistenziali. Una primazia che, per dirla con le parole di Sergio Cotta, si risolve nel cosiddetto «primato della politica», in quanto unica possibile risposta coerente ai problemi di ordine teoretico e pratico posti da una certa concezione dell’uomo e dell’esistenza. Un brano così commentato dallo stesso Cotta: «in luogo dell’individualità e dell’indipendenza, la nuova società dovrà imporre, con vincoli indissolubili, l’unità del corpo sociale e la sottomissione integrale alla legge; dovrà subordinare la volontà del singolo a una volontà generale che non ammette né eccezioni né varietà di opinioni e di valutazioni».

Un’idea monistica dell’ordinamento sociale che si oppone ad una visione poliarchica dello stesso. La poliarchia, in tal senso, sebbene incorpori alcuni aspetti formali dell’analisi di Robert Dahl, rimanda a un più ampio contesto di differenziazione della società, in cui accanto alla sfera del politico vi sono tante altre sfere di eguale dignità: quella economica, religiosa, artistica, e ugualmente produttrici di un particolare tipo di bene comune; una nozione di bene comune che «[Non] nega la diversità delle opinioni e la loro libera, dialettica ricerca di un bene comune storico e relativo, per imporre loro un bene comune assoluto ed astratto, scoperto quasi per mistica intuizione». In tal senso, con poliarchia-plurarchia possiamo intendere un contesto sociale retto da un ordine prodotto e mantenuto dal continuo interferire e competere di molteplici e reciprocamente irriducibili principi regolativi; scrive Luigi Sturzo: «la forma politica non si confonde con l’autorità, e che l’autorità politica non è tutta l’autorità, ma semplicemente l’autorità politica, cioè quella che ha cura dell’ordine e della difesa della società» e gli fa eco il Sheldon S. Wolin: «l’autorità politica non è solamente una delle numerose autorità della società, ma si trova in competizione con esse su determinate questioni». Il primato o l’egemonia della politica, conclude Cotta, interpreta la società come il «gran tutto», nei cui gorghi annegano autonomia, creatività e responsabilità dell’individuo e lo Stato è Stato etico, prende il posto di Dio, «e perciò necessariamente totalitario nella sua essenza».

In una prospettiva poliarchica, accanto alla sfera politica, a cui spetta il compito di garantire i diritti civili e politici, la regolamentazione del commercio internazionale e della concorrenza interna, c’è il sistema economico. C’è inoltre, il sistema etico-culturale costituito dalla stampa, dalle università, dalle chiese e dalle associazioni culturali, che svolgono un ruolo fondamentale ed indispensabile alla vita tanto del sistema economico quanto di quello politico, in quanto esprimono il loro presupposto e il loro limite,  fornendo i valori e le basi etiche che da soli tali sistemi non possiedono né tanto meno sono in grado di produrre: l’autocontrollo, l’impegno nel lavoro, la disciplina e il sacrificio in vista del futuro. Ed ancora, spetta alle istituzioni che si riconoscono nella sfera etico-culturale il compito di diffondere le virtù della generosità, della compassione, dell’integrità e dell’interesse per il bene comune. Alla base di quanto detto c’è la convinzione che nessun soggetto sia tanto saggio o buono da poter ricevere un potere indiviso e unitario, di conseguenza, la divisione delle maggiori sfere della vita in tre sistemi si propone di proteggere tutti contro gli abusi e le degenerazioni del potere unitario.

È in questo contesto problematico, teso, nell’omaggio al prof. Cotta, a rimarcare i limiti della politica, evidenziandone i confini rispetto a ciò che politica non è: economia, diritto, religione, morale, che vorremmo proporre la lettura di un saggio di Friedrich August von Hayek dedicato al tema del federalismo e, in particolare, agli aspetti politici, economici e culturali che potrebbero favorirlo.

Il contributo è articolato in sei parti, una prima che descrive la genesi dell’opera e le restanti cinque che tratteggiano gli aspetti che l’economista austriaco individua come caratteristici di una struttura di tipo federale. Il primo aspetto individuato da Hayek è il problema di valore che starebbe alla base della teoria dello stato federale: la pace. Il secondo riguarda i vantaggi economici del federalismo; Hayek intende mostrare come la federazione potrebbe neutralizzare il potenziale distruttivo della nozione di sovranità nazionale. Il terzo aspetto evidenzia i vantaggi politici del federalismo e il suo intrinseco maggiore tasso di liberalismo. Il quarto aspetto riguarda la qualità della politica economica in un’unione federale: in una federazione non sarà così semplice esercitare la discrezionalità in ambito economico che tipicamente esercitano gli Stati nazione. Il quinto ed ultimo aspetto riguarda la relazione tra liberalismo e federalismo. In breve, la fine delle sovranità nazionali esprimerebbe un «complemento necessario» per la realizzazione del «programma liberale».

 

  • La genesi dell’opera

 

Il saggio è stato pubblicato per la prima volta nel settembre del 1939 e ripubblicato nel 1948 dallo stesso autore nel volume Individualism and Economic Order. Pur non essendo tra i saggi più noti, esso ha il merito di evidenziare un tratto storico e biografico del nostro Autore di estrema importanza. Tra il 1931 e il 1932 Hayek lascerà Vienna, per trasferirsi a Londra, dove rimarrà fino al 1949, prima di trasferirsi negli Stati Uniti. Dunque, il lasso di tempo che va dal 1932 al 1949 coincide con il periodo londinese di Hayek, con l’esperienza presso la London School of Economics, con l’incontro-scontro con John Maynard Keynes, ma, soprattutto, coincide con sodalizio intellettuale con Lionel Robbins.

L’importanza di quegli anni sono stati descritti dallo stesso Hayek. Il Nostro riconosce che fu quasi per coincidenza che, nel 1935, mentre lavorava su alcuni saggi aventi come oggetto la pianificazione socialista, si ritrovò a scriverne altri e ad interessarsi sempre più alle questioni filosofiche e metodologiche, avendo compreso quanto fossero rilevanti ai fini di comprendere le ragioni che stavano alla base delle controversie politiche del tempo. È a questo punto che Hayek, sono le sue parole, compie il «passo decisivo» e scriverà il saggio Economics and Knowledge, che presentò nel 1936 al London Economic Club. Economics and Knowledge, insieme ad altri saggi, compreso il nostro The Economic Conditions of Interstate Federalism, venne in seguito pubblicato nel già citato volume Individualism and Economic Order del 1948.

Il saggio di Hayek sulle condizioni economiche del federalismo è abbastanza breve, ma esprime in forma sintetica le ragioni del federalismo, in relazione alla teoria economica liberale evidenziata da Robbins, alla nozione di Civitas humana di Wilhelm Röpke e tutta la critica all’idea sovranista fatta propria e esplicitata da Einaudi.

 

  • Il problema: la pace

 

Hayek introduce il saggio, evidenziando immediatamente il problema di valore che starebbe alla base della teoria dello stato federale: la pace. Egli constata come sia opinione generale e condivisibile considerare l’eliminazione del «ostacoli alla circolazione» degli uomini, dei beni e dei capitali come uno dei grandi vantaggi della federazione tra stati; oltretutto, ciò favorirebbe anche la creazione di comuni regole giuridiche, un «sistema monetario uniforme e un controllo comune dei mezzi di comunicazione». Di qui, per Hayek, la ragione per la quale «indiscutibilmente», «lo scopo più importante» che si prefigge una federazione tra stati è garantire la pace: «Indiscutibilmente, lo scopo più importante di una federazione tra stati è assicurare la pace: impedire guerre tra le parti federate eliminando motivi di attrito tra di esse e offrendo un’organizzazione efficace per la composizione dei conflitti che possono insorgere tra di esse, oltre che impedire guerre tra la federazione e qualsivoglia stato indipendente rendendo la prima tanto forte da eliminare ogni pericolo di attacco dall’esterno».

Il problema che Hayek individua: la pace, impone la riflessione sul rapporto tra unione politica e unione economica e la constatazione che l’unione economica rappresenta un obiettivo principale e indispensabile ai fini di una politica estera e di una difesa comuni. Invero, ragiona Hayek, se reputiamo l’Unione, e non i singoli Stati, l’istituzione responsabile per il mantenimento della pace, spetterà dunque all’Unione, e non alle parti che la compongono, assumersi la responsabilità di tutte le decisione che potrebbero favorire ovvero danneggiare l’obiettivo principale. Per questa ragione, mostrando tutta l’affinità di pensiero con il collega ed amico Robbins, Hayek giunge ad affermare che ogni «barriera» alla libera circolazione dei beni tra gli Stati rappresenterebbe un ostacolo alla «ottimale utilizzazione delle risorse disponibili» e un indebolimento dell’Unione, dal momento che gli interessi regionali finirebbero per promuovere soluzioni protezionistiche che minerebbero un’efficace politica di difesa, mettendo a repentaglio la pace.

Il problema delle frontiere economiche, secondo l’economista austriaco, risiederebbe nel fatto che esse darebbero vita a «comunità d’interesse su base regionale», con una forte cifra di litigiosità, dovuta a millenni di guerre che hanno prodotto relazioni interstatuali condite da una dose altissima di risentimento nazionalistico. I conflitti che nascono da interessi nazionalistici sono molto pericolosi, scrive Hayek, in quanto tendono a diventare conflitti costanti tra gruppi omogenei di persone. Dunque, invece di trovarci di fronte a conflitti d’interessi tra persone che, probabilmente, oggi sono alleate di un gruppo e domani potrebbero esserlo di un altro, a seconda della prevalenza di un particolare interesse presente nell’Unione, in caso di presenza di barriere economiche, i conflitti d’interesse, coinvolgendo gli Stati, finirebbero per compattare le persone di ogni singola entità nazionale, favorendo conflitti perpetui. È a questo livello della discussione, e per queste ragioni, che Hayek afferma l’impossibilità, se non sarà accompagnata dall’unione economica, che un’unione politica sopravviva alle spinte nazionalistiche, le quali si manifesteranno dapprima attraverso l’armamentario economico protezionistico e, in seguito, attraverso la guerra tra Stati.

 

 

  • I vantaggi economici del federalismo

 

Se il problema della pace esprime metodologicamente il primo punto sensibile del saggio del nostro Autore, il secondo riguarda i vantaggi economici del federalismo. Qui Hayek mostra in modo cristallino quale sarebbe l’essenza dell’unione economica e come essa potrebbe neutralizzare il potenziale distruttivo della nozione di sovranità nazionale. Sarà proprio in forza dell’assenza di «muri tariffari» e dell’esercizio della libera circolazione di uomini e capitali che l’ambito d’intervento degli stati nel campo della politica economica sarà fortemente limitato. Il fatto stesso che uomini e capitali si possano muovere liberamente nell’unione renderà impossibile l’intervento statale teso ad influenzare i prezzi e quest’ultimi varierebbero solo in ragione del diverso costo di trasporto. In definitiva, si anestetizzerebbe il tentativo di quelle particolari organizzazioni, favorite dai singoli governi, quali ad esempio i marketing board, tese a orientare il gioco della domanda e dell’offerta in modo tale per cui il prezzo risulti quello di un mercato di monopolio o di oligopolio.

Un ulteriore vantaggio, sul fronte economico, il Nostro lo individuerebbe nella politica monetaria. La nascita dell’unione economica comporterebbe anche la comparsa di un’unione monetaria e la conseguente sterilizzazione della discrezionalità delle singole banche centrali nazionali. Una situazione che, secondo Hayek, avrebbe il merito di riprodurre una condizione simile, se non ancora più virtuosa, di quella in vigore in regime di gold standard. È evidente come, per Hayek, una politica monetaria nazionale condurrebbe alla disgregazione dell’unione monetaria; di qui l’imperativo che «tutta la politica monetaria dovrebbe essere materia federale e non statale».

In altre parole, i vantaggi economici della federazione sono quelli della concorrenza. Qualora un singolo stato pretendesse di esercitare un’azione di controllo sulla produzione di beni che possono essere acquistati al di fuori di esso, e nel caso in cui tale controllo rappresentasse un onere per l’industria che li produce, esso si renderebbe, alla luce del sole, responsabile dello svantaggio competitivo al quale sottomette una propria industria rispetto a quelle presenti in altre regioni dell’Unione. Per questa ragione, Hayek è convinto che lo smantellamento delle frontiere e la libera circolazione di uomini e capitali segnerà anche la fine di tutte quelle organizzazioni nazionali la cui funzione è di garantire a determinati gruppi industriali posizioni di monopolio, mediante «il potere di controllo dell’offerta dei loro beni e servizi».

  • I vantaggi politici del federalismo

 

Il terzo punto che vorremmo evidenziare del saggio in questione sono i vantaggi politici del federalismo. In realtà, Hayek rimane ancorato alla dimensione economica; tuttavia, nel considerare le difficoltà che avrebbe l’Unione nell’esercitare una qualsiasi forma di pianificazione, rispetto alla facilità con la quale lo Stato nazionale da sempre si dedica alla medesima attività, finisce per evidenziare un vantaggio politico della federazione che risiederebbe nel suo intrinseco maggiore tasso di liberalismo: «la federazione sembra implicare che né l’uno né l’altro livello di governo potrebbe avere i poteri per la pianificazione socialista della vita economica».

L’argomento di Hayek è il seguente: se la federazione limiterà il potere discrezionale dei singoli Stati, qualora dovesse assumere un orientamento pianificatore, sarà costretta ad avocare a sé l’autorità di una simile guida. Tuttavia, sarà proprio in forza di tale assunzione di responsabilità che sorgeranno i problemi maggiori per la federazione. Hayek rileva come la protezione di una singola industria, «nella sua interezza», in un contesto federale, risulterebbe pressoché impossibile, dunque, di «scarsa utilità», «poiché i produttori contro la cui concorrenza essi desidereranno protezione saranno allora all’interno dell’Unione». Il sussidio ad una determinata industria imporrebbe un sacrificio alle altre industrie e ai consumatori, per di più, afferma Hayek, alla federazione mancherebbero il collante dell’orgoglio nazionale e dei valori omogenei altamente condivisi tali per cui produttori e consumatori sarebbero disponibili a rinunce e perdite economiche e, infine, la ragione-pretesto della difesa di interessi consolidati nei secoli non avrebbe lo stesso peso e significato in una federazione.

 

 

  • La qualità della politica economica in un’unione federale

 

Il quarto punto esprime una sorta di corollario del terzo e riguarda la qualità della politica economica in un’unione federale. La costatazione che in una federazione non sia possibile esercitare la discrezionalità in ambito economico che tipicamente esercitano gli Stati nazione, comporta, secondo Hayek, una presenza meno invadente del governo a tutti i livelli: «meno governo a tutto tondo perché la federazione sia praticabile». A questo punto, Hayek sottolinea un aspetto di grande importanza e di estrema attualità. Il fatto che l’Unione possa esercitare determinati poteri, non dipenderà solo dall’eventualità che la stessa trovi un accordo sul «se» certi poteri possano essere utilizzati, ma anche sul «modo in cui» essi debbano essere utilizzati. Qualora non si raggiungesse un accordo su entrambi gli aspetti, afferma Hayek, dovremmo «rassegnarci» a non avere alcuna legislazione, piuttosto che una che «frantumerebbe» l’unione economica e, con essa, la federazione. Hayek giunge a proporre una simile condizione come la cifra di una maturità intellettuale favorevole alla creazione di un’unione federale: «In verità, questa disponibilità a non avere, su certi temi, alcuna legislazione piuttosto che una legislazione statale sarà l’amara prova per verificare se siamo intellettualmente maturi per la creazione di un’organizzazione sopra-statale».

Nella prospettiva hayekiana, dunque, da un lato gli Stati nazione dovrebbero subire un progressivo indebolimento, fino a scomparire in quanto enti sovrani. D’altro canto, la federazione non assumerebbe tutti i poteri che gli Stati nel frattempo vanno perdendo, in quanto una mentalità federalista matura vorrebbe che si accettasse l’idea che esistano spazi liberi dal controllo legislativo. Infine, Hayek riconosce che, il combinato disposto tra perdita di poteri sovrani da un lato e assunzione parziale di poteri dall’altro, comporterà anche un trasferimento di poteri verso il basso, ossia, nella direzione di quelle realtà territoriali più piccole e qualitativamente intermedie tra le istituzioni politiche e la società civile.

Dunque, eccoci giunti al tema centrale di questo punto: Hayek, al pari di Robbins, riconosce il fatto che anche in una federazione ci sarà sempre bisogno di una politica economica e nega che nella federazione sia indispensabile un «estremo lassezfairismo». Per Hayek la pianificazione economica è incompatibile con la federazione nella misura in cui per pianificazione si intenda la forma di controllo dei processi economici, così come il Nostro la osservava nei giorni in cui maturava il saggio. In pratica, Hayek indica incompatibile con la federazione «l’interferenza quotidiana» e la «regolamentazione» di tutte le forze del mercato, a favore di uno «sviluppo nazionale attraverso monopoli controllati»: «In una federazione, la politica economica dovrà consistere nel fornire un quadro razionale permanente all’interno del quale l’iniziativa individuale avrà il più ampio spazio possibile e le si permetterà di operare nel modo più benefico possibile; ed essa dovrà integrare il funzionamento del processo competitivo nei casi in cui, date le circostanze, alcuni servizi non possono essere offerti e regolati dal sistema dei prezzi». La qualità della politica economica in una federazione dovrà essere orientata al lungo periodo e non perde occasione per polemizzare con l’amico-avversario Keynes, prendendo in prestito il suo noto aforisma secondo il quale «nel lungo periodo saremmo tutti morti», dal quale discenderebbe il principio deresponsabilizzante «après nous le déluge». Ebbene, scrive Hayek, proprio questa ovvia considerazione dovrebbe rappresentare un vantaggio, dal momento che il lungo periodo non ci consente di calcolare l’impatto che avranno gli effetti dell’azione di politica economica su determinati gruppi di persone; dunque, possiamo evitare o ridurre al minimo i rischi che la politica economica si risolva in uno scontro tra «interessi più potenti».

 

 

  • Liberalismo e federalismo

 

Il quinto ed ultimo punto crediamo possa delineare la relazione tra liberalismo e federalismo. Se è vero che un regime economico chiaramente liberale sia da considerare condizione necessaria per il successo di qualsiasi progetto federalista, allora, chiosa Hayek, dovremmo ritenere altrettanto plausibile che «l’abrogazione delle sovranità nazionali e la creazione di un ordine giuridico internazionale efficace è un complemento necessario nonché il logico compimento del programma liberale». Il punto sollevato da Hayek è ripreso direttamente dall’opera di Robbins e lo stesso Hayek ne riconosce la paternità, citando il saggio e, in particolare, l’affermazione dell’amico-collega: «né StaatenbundEinheitsstaat ma Bundesstaat».

Se in passato il liberalismo si è alleato con il nazionalismo, afferma Hayek, è solo per ragioni di contingenza storica: nel diciannovesimo secolo il nazionalismo e il liberalismo individuarono un comune nemico: l’imperialismo. Quando, in seguito, il liberalismo si è alleato con il socialismo è stato perché con quest’ultimo ha condiviso alcuni obiettivi, quali la giustizia e la libertà, e tale condivisione avrebbe oscurato le macroscopiche e «totali»  divergenze di metodo: «Ma ora che il nazionalismo e il socialismo si sono combinati – non solo nel nome – in una potente organizzazione che minaccia le democrazie liberali e quando, persino all’interno di queste democrazie, i socialisti stanno diventando sempre più nazionalisti e i nazionalisti sempre più socialisti, è troppo sperare in una rinascita del vero liberalismo, fedele al suo ideale di libertà e internazionalismo e rientrato dai suoi temporanei sviamenti nei campi nazionalisti e socialisti?».

 

 

  • Conclusioni

 

Appare evidente che Hayek, nel richiamare l’attenzione verso la rinascita dei principi liberali, non ha in mente un partito politico, ma una prospettiva civile capace di tenere insieme l’ambito dell’economia, con tutte le sue istituzioni che manifestano il dinamismo della domanda e dell’offerta; l’ambito della politica, le cui istituzioni hanno il gravoso compito di stabilire con metodo democratico e cooperativo le comuni regole del gioco; e l’ambito della cultura che esprime tutto quel complesso di istituzioni che attestano o meno il pluralismo all’interno della società civile.

Questi erano i problemi che dalla fini degli anni Venti alcuni intellettuali, in varie parti d’Europa, credettero di dover affrontare a partire da una visione plurale dell’ordinamento sociale, rifiutando alla radice ogni ipotesi di «primato della politica», intesa come «fonte e regola della vita morale», non volendosi arrendere al populismo autarchico, al totalitarismo aggressivo e al protezionismo liberticida, amando la libertà propria e altrui più di ogni altra cosa e la patria altrui almeno quanto la propria. Tutto ciò nella consapevolezza che nessun ordinamento burocratico – pubblico o privato che sia – possa non considerare che esiste sempre qualcosa, come recita il testamento spirituale di Röpke, che vada «oltre l’offerta e la domanda». Questo qualcosa è la dignità della persona umana; un ordine etico, quello della dignità umana, che chiede ancor oggi, e a maggior ragione oggi, di essere affrontato e compreso con la massima urgenza per evitare il rischio di sacrificare il dinamismo economico al ristagno degli accordi collettivi ovvero all’anarchismo degli interessi individuali, rispettivamente, figli di una logica neocorporativa ovvero di un ottimistico disinteresse per le ragioni dell’ordine sociale e della civitas humana, e finire, comunque, per sacrificare le libere scelte individuali sull’altare della «presunzione fatale» di qualche grande pianificatore di turno: del «grande tutto».

 

 

 

  • RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

 

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