Dal diritto naturale al diritto secondo natura antropologica. Elementi per un’ipotesi di lavoro di Lorenzo Scillitani

In un biglietto scritto di suo pugno, e datato 7 settembre 1998, pochi mesi prima del mio incontro con Claude Lévi-Strauss , Sergio Cotta attirava l’attenzione su di un passaggio dell’opera del grande antropologo francese che gli sembrava particolarmente decisivo ai fini dell’esplorazione di «una via filosoficamente nuova» al ripensamento dello schema ermeneutico del «diritto di natura» ereditato dalla nobile, eppur almeno in parte decaduta tradizione del giusnaturalismo, classico e poi moderno . Seguendo una traccia che già era emersa in un capitolo dell’ultimo suo libro, Soggetto umano. Soggetto giuridico , intitolato significativamente Dall’antropologia strutturale al diritto, l’ultimo autorevole esponente della Scuola romana di filosofia del diritto indicava la direzione nella quale sviluppare un’ipotesi di lavoro che, riferita a Lévi-Strauss, era peraltro rimasta soltanto prefigurata in un lavoro di ricerca pubblicato qualche anno prima , e, questa volta riferita espressamente a Cotta, sarebbe stata di nuovo accennata in epoca più recente .
Il luogo dell’opera levistraussiana sul quale Cotta richiamava l’attenzione era tratto dal testo su La famiglia, pubblicato per la prima volta in inglese nel 1956, e tradotto in italiano da Paolo Caruso nel 1967; ripubblicato con qualche revisione in francese nel 1971, e tradotto, con riferimento a questa versione, in italiano da Primo Levi nel 1984. Per dare un’idea della non perfetta sovrapponibilità dei due testi se ne ripropone qui in sequenza entrambe le traduzioni: «la società appartiene all’ambito della cultura mentre la famiglia è l’emanazione, a livello sociale, di quei requisiti naturali senza i quali non ci potrebbe essere la società, né, in fondo, il genere umano» ; «se la società è di tipo culturale, la famiglia è, in seno alla vita sociale, l’emanazione delle esigenze naturali con cui bisogna pure venire ad un accordo; altrimenti, nessuna società potrebbe sussistere, e neppure l’umanità stessa» .
Sia pure con sfumature lessicali diverse, ambedue i testi propongono un messaggio del medesimo, sostanziale tenore: la società non è soltanto cultura, perché racchiude al suo interno un elemento di natura imprescindibile per l’esistenza stessa della vita sociale, e della vita umana in generale . È come se Lévi-Strauss suggerisse l’ipotesi di una natura da intendersi in senso antropologico, in base alla quale pensare e configurare la famiglia come l’ambito, naturale-e-culturale, nel quale si origina e prende forma un diritto: un diritto che, in quanto essenzialmente diritto-di-famiglia, si annuncia a sua volta in duplice valenza, naturale e culturale; un diritto secondo natura in senso non metafisico, o ideale lato sensu, ma antropologico-strutturale. Stando a quanto enunciato dallo stesso Lévi-Strauss, ne Le strutture elementari della parentela si tratta di null’altro che di questo: la normatività fondamentalmente giuridica di queste strutture socio-culturali è radicata in una base offerta dalla stessa natura della famiglia, in una maniera tale che ce qu’il faut, il dover essere che informa i sistemi di nominazioni e di atteggiamenti elementari, attesta di innestarsi direttamente su di un livello che interessa i rapporti di parentela e di filiazione quale format, ontologicamente primario, di strutturazione delle reti di relazioni che costituiscono la trama della socialità umana .
Un diritto rappresentabile, in chiave antropologica, come insieme naturale e culturale, in quanto diritto famigliare, si rende filosoficamente pensabile in una prospettiva che lo sottrae alle aporie dei vetero- e dei neo-giusnaturalismi di qualunque conio, come per converso agli schematismi giuspositivistici, per restituirlo a una dimensione più aderente alla realtà di ciò che è empiricamente osservabile, e quindi suscettibile di un’ermeneutica capace di accostarsi alla vera natura del diritto. Che la natura venga letta da Lévi-Strauss nei termini di un biologismo materialistico non toglie nulla al valore del significato ultimo di una ricerca impegnata a smantellare l’idea per la quale le forme culturali sono il mero risultato di «costruzioni» storiche. Affermare, come fa Lévi-Strauss, che senza i requisiti naturali socialmente emergenti nella famiglia, e nei suoi aspetti giuridici, semplicemente non potrebbe darsi qualcosa come la società umana equivale ad assumere il giuridico – a pieno titolo normativo, benché non ancora formalizzato in regole codificate – come pre-condizione di possibilità, se non proprio di pensabilità filosofica, dell’organizzazione umana in quanto sin dal suo primo apparire istituzionalmente strutturata.
Nella seconda stesura del suo saggio sulla famiglia, Lévi-Strauss non mancava di rilevare che le culture che si trovano al più alto grado di sviluppo tecnologico ed economico, «istruite (o almeno così ci si augura) dai loro errori passati, sanno che la miglior politica è ancora quella che accetta di tener conto della natura e delle sue leggi» (ibidem). Ad onta di questa lezione, le società tecnologicamente ed economicamente avanzate, almeno in Occidente, sembrano aver imboccato, in questi ultimi tempi, una strada opposta, col reinterpretare la natura in senso piattamente naturalistico, a prescindere da riferimenti a un qualsivoglia ordine regolativo, e col pretendere di «reinventare» arbitrariamente su nuove basi le dimensioni e le modalità famigliari della vita in società. Questa svolta è stata presentata come un’innovazione «progressista», capace di valorizzare la «libertà» degli individui di crearsi un mondo nel quale sia possibile comporre e scomporre, stabilizzare e destabilizzare a piacimento legami affettivi pubblicamente riconosciuti, obliterando le identità sessuate in omaggio a teorie del «genere» spacciate come verità scientifiche. Ne ha fatto le spese qualunque concezione della «natura umana», bollata come idea astratta ereditata da una mentalità ancorata alla fissità di categorie ormai desuete. I sostenitori del «diritto d’amore» considerano storicamente superate dall’evoluzione dei costumi diffusi, e dall’affacciarsi di una pluralità di unioni più o meno sociologicamente riconoscibili come famigliari, formule giuridico-matrimoniali ad alta intensità «istituzionale»; i detrattori del «nuovo corso», dal canto loro, spesso si limitano a riproporre una lettura tradizionale (quando non addirittura tradizionalistica) di «valori» politicamente non negoziabili che garantirebbero la «tenuta» etica di un ordinamento giuridico-familiare peraltro già notevolmente destrutturato, a livello legislativo nonché giurisprudenziale. Nell’un caso come nell’altro il diritto della famiglia viene adoperato strumentalmente per scopi ideologici, più o meno dichiarati.
Solo in un mondo idealizzato (o fantasticato) come post-giuridico non avrebbe più senso nemmeno parlare di famiglia. Un mondo interamente consegnato all’arbitrio della tecnica potrebbe anche coronare questo sogno, ma forse ci troveremmo di fronte all’emancipazione dell’uomo da sé stesso, come fase terminale dell’emancipazione umana. Finché tuttavia abbiamo (ancora) a che fare con i prodotti e con i reperti tipici dell’esperienza umana, così come tramandati da millenni, prima di ricorrere ad ardite elaborazioni, molto spesso (pseudo)fantastiche, dobbiamo poter acquisire tutta la portata del fenomeno giuridico, da una parte senza dare per scontata l’assimilazione formalistica che lo risolve in mera sovrastruttura di processi economici, o in genere culturali, dall’altra senza incorrere in un riduzionismo eticistico altrettanto pernicioso, che nega in ultima analisi la specificità ontologica e fenomenologica del diritto. Questo compito può restare inevaso soltanto se si decide, a priori, di scartare come filosoficamente inadeguata, o addirittura improponibile, l’ipotesi di ricostruire elementi di leggibilità antropologica della natura stessa del diritto a partire dalla fenomenologia antropologico-culturale della famiglia.
Si può, certamente, ignorare Lévi-Strauss e la sua antropologia della famiglia, della parentela, dell’alliance , allo stesso modo in cui si potrebbe studiare il fenomeno politico indipendentemente dal pensiero di Machiavelli, Hobbes, Locke o Rousseau. Si dà il caso che, se il nostro tempo è segnato da nomi come quelli di Marx, Nietzsche, Freud, non si può evitare di fare i conti con loro, ma a maggior ragione se a questi aggiungiamo il nome di Lévi-Strauss, al quale si deve probabilmente l’unica opera significativa che, nel ’900, abbia osato mettere in discussione i presupposti del pensiero giuridico, e politico, ereditato dall’Illuminismo, e filtrato attraverso l’idealismo classico tedesco. Lévi-Strauss ha dimostrato che non solo non si dà una società senza diritto, perché una società senza la famiglia, e senza il suo diritto, sarebbe, antropo-logicamente, una contraddizione in termini, ma pure che il pensiero allo stato selvaggio pensa già – in quanto pensiero di natura intesa in senso antropologico – secondo elaborate categorie morali, giuridiche, politiche, evidenziate dall’ontologia levistraussiana dei miti dei popoli senza scrittura con dovizia di esposizioni in modelli e in dettagli.
Non si tratta di rieditare la dottrina del diritto naturale in un formato scientificamente accettabile per una sensibilità moderna. Si tratta, invece, di ricercare il diritto lì dove questo non è ancora qualificato espressamente come tale: soccorre questa ricerca un’ipotesi di lavoro che punta a superare le rigidità della dicotomia natura/cultura, oltre tutto incisivamente presente nello stesso Lévi-Strauss; il «naturale» rivisitato in chiave antropologica si presenta difatti come arricchito di un «bagaglio» culturale piuttosto consistente, come se con l’apparire dell’umano di base coincidesse il darsi di strutture già impregnate di simbolismi tali da esprimere significati culturali. L’emergere delle prime forme di un diritto «umano» consente pertanto di qualificarlo come naturale-e-culturale, dando luogo a un abbozzo di «giusculturalismo» pensato e praticato nell’ordine di una sorta di giusnaturalismo. Si capisce come questi termini vadano un po’ forzati sul piano teoretico, se si vuole intendere la questione filosofica sottesa: la civiltà umana si lascia rappresentare come civiltà di famiglie, identificate da nomenclature di parentela che fissano regole di condotta, in quanto parla sin dall’origine il linguaggio del diritto, declinato in termini costitutivi e prescrittivo-sanzionatori. Dimensioni genericamente definibili come naturali – attinenti alle differenze sessuali, alle relazioni uomo-donna, alla procreazione – e dimensioni più specificamente identificabili come culturali – tra le quali si afferma in primo luogo la proibizione dell’incesto, con l’articolazione delle prescrizioni endogamiche ed esogamiche – si ritrovano compresenti sin dai primi passi della civilizzazione della vita umana, mostrando così un nómos antropologicamente declinabile sia come legge di natura sia come legge umana: come legge di natura umana.
La declinazione antropologica di questa legislazione non scritta, ma cionondimeno strutturante la complessa intelaiatura delle relazioni interumane pre-ordinamentali (da intendersi come precedenti e preliminari a qualsiasi ordinamento costruito su basi prestatuali o statuali), è suscettibile di tradursi filosoficamente nell’acquisizione del seguente assunto: un codice universale di principi nominativi e attributivi di posizioni sociali, comune a tutte le culture umane, anche se impostato sulla base di sistemi diversi , istituisce, in forza di fattori naturali, e sostiene, grazie a fattori culturali, un regime giuridico che disegna il nucleo della socialità umana come una rete di nessi di giuridicità.
Una filosofia del diritto alimentata da una antropologia giuridica filosoficamente consapevole di questa tesi di fondo è autorizzata a indagare le possibilità ermeneutiche di un diritto ipotizzabile secondo natura antropologica sulla base delle risultanze delle ricerche in materia antropologico-sociale e antropologico-familiare, a dimostrazione della plausibilità e della fondatezza, sia pure postume, dell’intuizione di Cotta. Una antropologia filosofica del diritto che sviluppi i suoi interrogativi nella prospettiva dell’antropologia strutturale di Lévi-Strauss ne viene a sua volta corroborata, e incoraggiata ad approfondire postulati e metodi d’indagine.

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