Una città nella città. Il Cottolengo di Italo Calvino

  1. I fallimenti della razionalità utopica

La giornata d’uno scrutatore è, nelle parole di Italo Calvino, un racconto «più di riflessioni che di fatti»[1]. È il rendiconto di una giornata elettorale in un seggio posto all’interno del grande ospizio torinese del Cottolengo al tempo delle elezioni del 1953; ma il rendiconto «si risolve in un esame di coscienza», è il rendiconto di un dibattito interiore del protagonista, in cui «il contraddittore è lo stesso proponitore dei vari quesiti», e che si snoda «attraverso continui andirivieni, perplessità e illuminazioni»[2]. Si tratta dunque del racconto di una complessa serie di riflessioni, nutrita dell’esperienza diretta di fatti ma da essa volutamente distaccata; Calvino si è fatto nominare scrutatore al Cottolengo durante le elezioni amministrative del 1961, proprio per poter nutrire di immagini l’idea del racconto, ma ha evitato di scrivere immediatamente dopo questa esperienza, per il rischio che ne risultasse «un pamphlet violentissimo, un manifesto antidemocristiano»; ha scelto, invece, di «far maturare sempre più le riflessioni, i significati che da esse si irradiano, come un seguito di onde o cerchi concentrici»[3] (il libro è stato pubblicato nel 1963).

Nell’ambito di queste riflessioni, ci soffermeremo su tre nuclei problematici. Il primo è evidente: nelle parole di Calvino, il libro è (anche) «una meditazione filosofica su cosa significa il far votare i deficienti e i paralitici»[4]. Ma su un piano più generale il libro solleva una seconda questione, che riguarda la natura stessa del voto politico, e il livello di consapevolezza e libertà che è necessario affinché esso non sia snaturato. Il terzo tema è quello che potremmo chiamare della «città nella città»: così viene esplicitamente qualificato il Cottolengo, «quasi una città nella città, cinta da mura e soggetta ad altre regole»[5]; ed è nel quadro di questa particolare realtà politica che diventa interessante ripensare anche le prime due questioni.

Si è scritto che il libro di Calvino è «una riflessione esplicita sui fallimenti della razionalità utopica»[6]. Certamente il protagonista si considera un «ultimo anonimo erede del razionalismo settecentesco»[7], prima ancora che un comunista; e teme che «il sogno illuminista» dell’eguaglianza dei diritti civili di tutti gli uomini sia «messo in scacco quando pareva che vincesse»[8]. La tradizione di cui è erede ha messo al centro dell’attenzione «l’uomo dotato di tutte le sue facoltà», non certo «l’uomo del Cottolengo»[9]; l’ha immaginato come cittadino cosciente, che esercita in modo consapevole scelte politiche, come individuo capace di giudicare da se stesso. Il libro può essere visto allora come la riflessione di un razionalista sulle incrinature del «sogno illuminista», di fronte ad un mondo fatto di individui imperfetti, di scelte lontane da ogni modello di razionalità, ma anche di ingombranti corpi intermedi.

  1. «L’illusione, per un momento e basta, d’esserci»

«Si potrebbe partire dalla domanda: si ha diritto di usare come uno strumento passivo, a scopo elettorale, esseri non pensanti?»[10]. Guido Piovene, in una recensione apprezzata dallo stesso Calvino[11], sottolineava che se «la prima risposta, immediata e politica, è: no», sotto di essa si aprono dubbi che sono suscitati dallo stesso incontro con la realtà delle cose. «A che punto si è uomini, a che punto si cessa d’esserlo? (…) Da quale punto si può dire: questa miseria adesso non è più nostra, non ha il diritto di contribuire a decidere?».

Anche nella realtà descritta dal libro, è bene distinguere. Ci sono i casi dei paralitici evidentemente e totalmente incapaci di intendere e di volere, e per i quali si pretende che votino le suore. Proprio di fronte ad uno di questi casi il protagonista si oppone, con successo, a che sia raccolto il voto. Ma più problematici sono i casi dei ricoverati «bravi» che sfilano nella prima parte del libro, i minorati per cui «l’atto del voto occupava un posto minimo nella coscienza», costretti a concentrare «i loro sforzi nell’esecuzione pratica, già di per sé tale (…) da impegnarli interamente»[12]. La vera domanda riguarda questi soggetti.

«C’era dunque in questa finzione di libertà che era stata loro imposta», si domanda il protagonista, «un barlume, un presagio di libertà vera? O era solo l’illusione, per un momento e basta, d’esserci, di mostrarsi, d’avere un nome?»[13].

Da un lato, esiste «il diritto della persona più indifesa a non essere usata come strumento, come oggetto»[14]. Dall’altro, concedere spazi, sia pure rischiosi, di autonomia è un modo per riconoscere la dignità del soggetto debole, e forse la premessa necessaria per una emancipazione vera.

Ed è proprio a proposito di questi casi che il protagonista si interroga sul confine tra gli uomini del Cottolengo e i sani; «questo suo implicito considerare il proprio voto come superiore a quello dell’idiota, non era già un riconoscere che la vecchia polemica antiegualitaria aveva la sua parte di ragione? [15]».

È interessante registrare che qualche anno dopo la legge Basaglia avrebbe segnato una scelta netta rispetto al dilemma evocato dal libro di Calvino. Essa infatti ha abrogato la disposizione (art. 2, n. 1, d.p.r. 223/1967) che escludeva la capacità elettorale degli interdetti e degli inabilitati per infermità di mente. Nonostante la limitata rilevanza pratica della disposizione (perché di fatto, in Italia, l’istituto dell’interdizione ha riguardato una percentuale minima delle persone a cui pure avrebbe potuto in astratto applicarsi, come è testimoniato dallo stesso romanzo di Calvino, in cui mai si pone il problema), si tratta sul piano dei principi di una scelta inequivocabile. Il diritto di voto spetta anche a chi è stato riconosciuto, ai fini dell’interdizione, come soggetto abitualmente infermo di mente e incapace di provvedere ai propri interessi.

La scelta del legislatore italiano non è certamente imposta dalla Costituzione (che all’art. 48 ammette la limitazione del diritto di voto «per incapacità civile»), non corrisponde a quella di altri paesi europei[16], e ha suscitato pareri contrastanti fra i commentatori, oltre a lasciare dubbi intorno alla soluzione da applicare di fronte a casi di evidente e completa incapacità di intendere e di volere. Non interessa ora entrare nel merito del dibattito, ma solo registrare che l’esigenza di mettere, formalmente, tutti gli uomini sullo stesso piano, di dare a tutti la possibilità teorica di partecipare alle decisioni politiche prevale sulla considerazione che, di fatto, in tal modo si estende la platea degli elettori fino a soggetti che non sono in grado di compiere scelte consapevoli. A quello stesso soggetto a cui si nega la possibilità di amministrare il proprio patrimonio o di sposarsi si consente di prendere parte, magari con consapevolezza nulla o minima, alle decisioni politiche. Si può proteggere un uomo da sé stesso, ma, nelle parole di Piovene, è molto più difficile stabilire che non fa più parte della nostra storia, che non ha più diritto di contribuire a decidere.

  1. «Ce l’hanno la volontà di votare!»

Il problema del voto degli infermi di mente è parte di un problema più ampio e complesso, che chiama in causa la natura stessa del voto, e i limiti in cui è possibile sindacarne i motivi.

Di fronte alle contestazioni degli scrutatori comunisti e socialisti, il presidente del seggio lamenta che non si voglia lasciare che gli abitanti del Cottolengo possano dimostrare la loro gratitudine, la «gratitudine a chi gli ha fatto del bene»[17]:

«- Nessuno vuole impedire la gratitudine, presidente (…) Qui stiamo facendo le elezioni politiche. Si tratta di controllare che ognuno sia libero di votare secondo la sua idea. Che c’entra la gratitudine?

  • E che idea vuole che ci abbiano più che la gratitudine? Povere creature che nessuno le vuole! Qui hanno chi gli vuol bene, li tiene qui, gli insegna! Ce l’hanno la volontà di votare! Più loro che tutti quelli che son fuori!».

Il voto è una mera manifestazione di volontà, o presuppone un’attività cognitiva? Fuori da un minimo di capacità di discernimento, di elaborazione critica delle informazioni, ha ancora senso parlare di partecipazione alle decisioni politiche?

Non si può dire che le ragioni del voto siano completamente indifferenti per l’ordinamento giuridico. Certo ci sono forme estreme di coazione psicologica che si vogliono evitare, e per questo è vietata ogni coartazione della libertà del voto attraverso minacce o raggiri. È vietato altresì promettere o ricevere denaro o altre utilità in cambio del voto[18], e così almeno una possibile ragione per la propria scelta elettorale è messa al bando.

D’altra parte, esistono regole volte a garantire agli elettori la possibilità di ottenere informazioni sui programmi delle forze politiche, ed insieme a porre alcuni limiti di modo e di tempo alla propaganda.

In buona sostanza, però, se l’ordinamento può sforzarsi di creare le condizioni perché l’elettore possa, se vuole, informarsi, e se prima ancora può proteggerlo dai più grossolani fra i tentativi di condizionamento, resta invece pacifico che non ha alcuna importanza se l’elettore di fatto si informi, o ancor prima sia in grado di farlo. Qualunque voto ha lo stesso valore, che si basi sulla conoscenza e comprensione dei programmi o su un senso di identità o sulla simpatia istintiva ispirata dal candidato o sulle insistenze di una persona cara o sul semplice gradimento estetico del simbolo.

Indubbiamente, su un piano normativo e non descrittivo del reale, il voto dovrebbe partire da una conoscenza, sia pure sommaria, delle opzioni in campo (dei partiti, dei candidati, delle alternative referendarie), da una qualche previsione degli esiti possibili, da una comparazione fra questi esiti e le proprie opinioni e aspirazioni; così come qualsiasi decisione di acquisto di un prodotto dovrebbe essere preceduta da una qualche conoscenza di ciò che si sta acquistando e da un confronto con le proprie esigenze e preferenze. Questi modelli di comportamento razionale indubbiamente sono sullo sfondo quando si tratta di giustificare il diritto di voto così come la libertà contrattuale; eppure sul piano concreto è del tutto indifferente che le decisioni vengano effettivamente assunte in modo conforme ad essi, ed allora è valido il voto espresso in maniera del tutto disinformata esattamente come l’acquisto di impulso di un prodotto completamente inutile. Anzi, per ragioni facilmente comprensibili l’ordinamento giuridico interviene più facilmente per prevenire o correggere gli scostamenti troppo evidenti da questo modello di agire razionale nel campo patrimoniale piuttosto che non in quello del voto politico.

Realisticamente, la gratitudine e la fiducia in un benefattore sono ragioni sufficienti per votare; perfino se non c’è nessun’altra idea, perfino se non si capisce neppure fino in fondo il senso di ciò che si sta facendo.

  1. «Quasi un città nella città»

L’idea che il Cottolengo sia una città nella città è evocata più volte, nel libro di Calvino.

L’istituto si estende «per la superficie d’un intero quartiere, comprendendo un insieme d’asili e ospedali e ospizi e scuole e conventi, quasi una città nella città, cinta da mura e soggetta ad altre regole»[19].

L’idea della città autosufficiente torna poi nelle ultime pagine del romanzo, nelle parole di un «omone col berretto», privo di mani fin dalla nascita, che si ferma a parlare con gli scrutatori alla fine della giornata: «– lo so fare tutti i lavori da me, – diceva l’omone col berretto. – Sono le suore che mi hanno insegnato. Qui al “Cottolengo” facciamo tutti i lavori da noi. Le officine e tutto. Siamo come una città. Io ho sempre vissuto dentro il “Cottolengo”. Non ci manca niente. Le suore non ci fanno mancare niente»[20].

Ed infine, è proprio con l’immagine del Cottolengo come Città che si chiude il libro. Il protagonista guarda il tramonto tra gli edifici, e con le ultime luci del giorno si aprono «nei cortili le prospettive di una città mai vista». Donne nane, ed altre enormi, si affaccendano nei cortili, spazzando e spingendo carriole, e ridendo fra loro. «Anche l’ultima città dell’imperfezione ha la sua ora perfetta, pensò lo scrutatore, l’ora, l’attimo, in cui in ogni città c’è la Città[21]».

Il Cottolengo come città nella città, separata ed autosufficiente, è quasi inevitabilmente un «produttore di voti»[22]. E forse anche questo spiega l’amara riflessione del protagonista dopo che ha impedito il voto di un paralitico: «era meglio lasciarlo passare anche quel voto, era meglio che quella parte di potere guadagnata così restasse incancellabile, inscindibile dalla loro autorità, che se la portassero su di loro per sempre»[23]. Il potere del Cottolengo (potere anche di fare del bene ai suoi abitanti) è anche nella sua capacità di produrre voti. Solo attraverso il Cottolengo possono essere soddisfatti i bisogni, le aspirazioni dei suoi abitanti.

D’altra parte, per molte delle persone descritte nel libro di Calvino tutta la vita si è svolta all’interno delle mura, senza significativi rapporti con il resto della società. È naturale che le loro opinioni politiche siano plasmate dall’unica città che conoscono.

Si è scritto che il finale della Giornata è «un compendio e un’anticipazione» dell’«utopia pulviscolare» che Calvino avrebbe poi sviluppato nelle Città invisibili e nei saggi su Fourier[24]. Calvino avrebbe poi affermato di cercare la sua utopia, di aspettarsi «il meglio» «nelle pieghe, nei versanti in ombra, nel gran numero d’effetti involontari che il sistema più calcolato porta con sé senza sapere che forse là più che altrove è la sua verità»[25]. L’accostamento con l’ora perfetta, che si lascia cogliere anche nell’ultima città dell’imperfezione, è suggestivo.

Certamente, agli occhi dello scrutatore si apre «una città mai vista». Poco importa, ora, soffermarsi sulla sua natura utopica o distopica; ciò che conta è che è un luogo altro, «soggetto ad altre regole», e per questo irriducibile a una concezione politica che veda l’individuo interagire con un’indistinta collettività.

Raffaele Caterina

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Bocelli Arnaldo, 2012, «L’ultimo Calvino». In L’illuminista, n. speciale su «Italo Calvino negli Anni Sessanta», 471-474 (già apparso in Il Mondo, 23 aprile 1963).

Calvino Italo, 1991, I libri degli altri. Einaudi, Torino.

Calvino Italo, 1994, La giornata di uno scrutatore. Mondadori, Milano.

Calvino Italo, 1995, Per Fourier. 3. Commiato. L’utopia pulviscolare. In Id, Una pietra sopra, 301-308. Mondadori, Milano.

Milanini Claudio, 2012, «La letteratura come sforzo conoscitivo». In L’illuminista, n. speciale su «Italo Calvino negli Anni Sessanta», 369-383 (già pubblicato come Introduzione a Calvino, Romanzi e racconti. Mondadori, Milano, 1991).

Piovene Guido, 1994, Postfazione a Calvino, La giornata di uno scrutatore, Mondadori, Milano (già apparso col titolo «La giornata d’uno scrutatore di Calvino è lo specchio dell’incertezza in cui viviamo». In La Stampa, 13 marzo 1963).

[1] I. Calvino, 1994, nota dell’autore.

[2] A. Bocelli, 2012, 472-473.

[3] I. Calvino, 1994, VIII della Presentazione.

[4] I. Calvino, 1994, VI-VII della Presentazione.

[5] I. Calvino, 1994, 6.

[6] C. Milanini, 2012, 375.

[7] I. Calvino, 1994, 7-8.

[8] I. Calvino, 1994, 20.

[9] I. Calvino, 1994, 40.

[10] G. Piovene, 1994, 82-83.

[11] Si veda, ad esempio, la lettera a Gerda Niedeck, in I. Calvino, 1991, 443.

[12] I. Calvino, 1994, 30.

[13] I. Calvino, 1994, 18.

[14] I. Calvino, 1994, 28.

[15] I. Calvino, 1994, 20.

[16] Ad esempio in Francia si ammette che il giudice possa stabilire il mantenimento o la soppressione del diritto di voto della persona sottoposta a una misura di protezione. Cfr. Code électoral, articolo L5.

[17] I. Calvino, 1994, 37.

[18] Vedi, ad esempio, l’art. 96, d.p.r. 361/1957.

[19] I. Calvino, 1994, 6.

[20] I. Calvino, 1994, 76.

[21] I. Calvino, 1994, 77.

[22] I. Calvino, 1994, 15.

[23] I. Calvino, 1994, 65.

[24] C. Milanini, 2012, 376.

[25] I. Calvino, 1995, 308.

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