Scacchi e diritto. Critica di una metafora

  1. Introduzione. Per una esemplarità senza esempi

La filosofia del diritto contemporanea è più volte tornata – almeno a partire dall’affermarsi della games analogy[1] – ad interrogarsi sulle relazioni, le corrispondenze, le «affinità», tra gioco e diritto. Ma in cosa e perché sarebbero somiglianti il diritto ed il gioco? In che senso funzionerebbe, tra essi, un’economia metaforica, tale da rendere possibili analogie, paragoni, similitudini?

Nelle pagine che seguono, si tenterà di ripensare tale relazione attraverso il rapporto tra il diritto ed un determinato gioco, gli scacchi, spostando l’attenzione sulla funzione costitutiva e creatrice della metafora. Occorrerà, pertanto, rideterminare il paragone tra diritto e scacchi a partire non da somiglianze che sarebbero già date anteriormente alla metafora, bensì mostrando come la definizione dei concetti giuridici dipenda essenzialmente dal fatto di paragonare il diritto a quello specifico gioco rappresentato dagli scacchi.

Da qui la necessità di porre le seguenti domande: davvero diritto e scacchi si somigliano? Sarebbe questa somiglianza a giustificare il ricorrere della metafora degli scacchi soprattutto nella definizione di alcune proprietà fondamentali delle norme giuridiche? O non è forse, al contrario, proprio una particolare economia metaforica che rende disponibili una serie di operazioni di comparabilità, traducibilità tra il gioco ed il diritto? La metafora, in altri termini, presuppone o costituisce le somiglianze? E ancora: se è la metafora a creare le somiglianze, quali conseguenze derivano, per il concetto che abbiamo del diritto, dal paragone tra norma giuridica e regole degli scacchi?

Occorre, però, anzitutto, chiedersi: perché proprio gli scacchi?

Gli scacchi ricorrono costantemente come esempio di gioco paragonabile al diritto. Ma – ed è questa la domanda che ci interessa, la domanda che guiderà le pagine che seguono –: se essi fossero il solo esempio (o, quantomeno, il solo esempio che serve da esempio, il solo modello, paradigma[2], come invece non sono gli sporadici riferimenti allo Skat[3] o al croquet[4])?

Ossia: non è soltanto attraverso la metafora degli scacchi che possono definirsi come «costitutive» quelle regole che vengono successivamente paragonate alle regole degli scacchi? Il paragone tra diritto e scacchi costituisce semplicemente un esempio tra gli altri, come sembra presupporre il discorso giuridico, quando afferma di ricorrere ad esso soltanto per meglio chiarire i propri concetti (in espressioni del tipo: «mi limiterò agli esempi più significativi»[5], «l’esempio classico di regole costitutive sono le regole degli scacchi»[6])?

O si tratta, piuttosto, di un esempio esemplare, ossia di un esempio che crea il concetto che esemplifica, che lo costituisce, all’interno di una logica metaforica dalla quale il diritto – come ogni linguaggio – non ha modo di uscire?

Gli scacchi, diremmo, sono esemplari proprio perché sono più che un esempio (ossia «un caso indifferente nella serie»): sono un «modello pre-formatore» (passaggio BeispielVorbild[7]). Il che indica che essi non sono affatto un esempio, ma ciò che rende possibile l’esempio, ed ogni esempio possibile (ma c’è davvero qualcosa come un esempio? O gli scacchi costituiscono un’esemplarità che esime da ulteriori esempi, un’esemplarità senza esempi?[8]). Per questo, se il diritto può certamente essere paragonato ad un gioco qualsiasi, è tuttavia solo il riferimento agli scacchi che consente di definire il diritto come «ordinamento», a partire dal concetto di regola costitutiva (vedremo, più avanti, come scegliendo un diverso gioco, l’analogia determini profondo modificazioni nel concetto di diritto).

 Questa esemplarità indica come non vi sia già rassomiglianza, comparabilità, traducibilità tra diritto e gioco. L’esemplare è tale perché non rassomiglia: «Il faut un patron mais sans imitation. Telle est la logique de l’exemplaire, de l’auto-production de l’exemplaire»[9].

Se si dà analogia, è solo perché essa è costituita dalla metafora degli scacchi: «it would be more illuminating […] to say that the metaphor creates the similarity than to say that it formulates some similarity antecedently existing»[10]. La somiglianza o la similitudine non sono le condizioni della metafora, ma sono ciò che la metafora costituisce. La metafora del gioco è, qui, il gioco della metafora.

Tale è l’ipotesi delle pagine che seguono: la scelta del gioco degli scacchi non è affatto una scelta tra le altre, ma l’unica scelta possibile per poter definire alcune caratteristiche del diritto, per poter costituire in un certo modo alcuni particolari concetti giuridici. È l’esemplarità senza esempi degli scacchi che crea la somiglianza tra diritto e gioco, ossia che impone una certa concezione del diritto.

Nei termini più semplici: se diciamo che il diritto è analogo, somiglia, si paragona agli scacchi, è solo perché ha già-da-sempre operato un’economia metaforica che fa sì che il nostro concetto di diritto sia ricavato dall’immagine degli scacchi. Abbiamo, cioè, già costruito il concetto di diritto a partire dalla metafora del gioco degli scacchi.

Con ciò, non si vuole in alcun modo sostenere che il termine ultimo del diritto sia il gioco, che il diritto sia gioco. Al contrario: il nostro tentativo dovrebbe, infatti, mostrare come la stessa metafora del gioco non sia che l’effetto del gioco della metafora.

Mostrare, cioè, l’impossibilità di pensare un diritto al di là del mobile esercito di metafore, per servirsi di un’espressione di Nietzsche, che, più che «spiegarlo», lo costituisce. Il fatto che i concetti del diritto non siano pensabili al di là ed indipendentemente dalle metafore del gioco, dimostra non che il diritto sia «analogo» ad un gioco, ma che esso non è dato se non attraverso il gioco delle metafore (e non le metafore del gioco) che lo costituisce.

L’economia degli scacchi, del gioco lecito[11], del resto, attraversa costantemente i discorsi della società occidentale moderna, le sue rappresentazioni, le sue legittimazioni (dalla politica alla guerra, dalla filosofia alla letteratura[12]). Si potrebbe anche dire che è la concezione occidentale del linguaggio ad essere già-da-sempre «presa» e definita dal linguaggio degli scacchi[13]. Ciò non implica che quest’ultimo sia in qualche modo originario («come gli scacchi descrivono la guerra così pure si può supporre che il linguaggio degli scacchi si sia costituito sotto l’influenza di un altro linguaggio»[14]). Piuttosto, indica l’impossibilità di un linguaggio originario, che non sia a sua volta metaforico[15] (citando Borges, la parola metafora è una metafora).

Non si tratta, pertanto, di ritrovare un linguaggio prima della metafora, perché la metafora è ciò che sempre resta, si ritrae. È necessario, piuttosto, rileggere la «stabilità totalizzante»[16] diritto/scacchi propria del processo metaforico, e di pensare come la metafora degli scacchi sia costitutiva (e non semplicemente esemplificativa) di alcune nozioni giuridiche fondamentali.

Nel corso del presente lavoro si tratterà, pertanto, di analizzare come il riferimento, il ricorso alla metafora degli scacchi determini la possibilità di pensare alcuni concetti-chiave del diritto occidentale moderno.

In particolare, si procederà dapprima all’analisi del rapporto tra gli scacchi ed il carattere di costitutività dell’«ordinamento giuridico» – attraverso principalmente le analisi di Carcaterra e Conte (§2), adottando il punto di vista interno al metodo teorico-giuridico. Si tenterà, a quel punto, di mostrare come tale carattere dipenda in ultima istanza dal funzionamento della metafora scacchistica, e come, cambiando «gioco» e metafore di riferimento – mediante l’esempio del weich’i o weiqi –, la nozione di ordinamento giuridico subisca una serie di profonde trasformazioni (§3). Per farlo, adotteremo gli spunti di riflessioni interni alla filosofia politica di Deleuze-Guattari, i quali contrappongono alla metafora «giuridica» (gli scacchi) un diverso modo di pensare il diritto. Attraverso il riferimento al weich’i, si cercherà infatti mettere in discussione la concezione del diritto come nomos, per come esso è stato tradizionalmente pensato all’interno della modernità giuridica (§4). Da ciò, conseguirà anche una ridefinizione della concezione giuridica della guerra elaborata dallo jus publicum Europaeum (§5), mostrando come anch’essa dipenda, in ultima istanza, dal ricorso alla metafora degli scacchi. A conclusione di tale percorso, verrà così in luce la particolare funzione che il «gioco» esercita nella definizione dei concetti giuridici.

  1. Ordinamento e regole costitutive

L’esemplarità degli scacchi consente di definire una serie di caratteri che sarebbero propri del diritto, dell’ordinamento giuridico – così come già intuito da Santi Romano (in un passo a sua volta preso a prestito, citato e re-inscritto da Carl Schmitt all’interno dell’opposizione normativismo/ordinamento concreto[17]):

In altri termini, l’ordinamento giuridico, così comprensivamente inteso, è un’entità che si muove in parte secondo le norme, ma, soprattutto, muove, quasi come pedine in uno scacchiere, le norme medesime, che così rappresentano piuttosto l’oggetto e anche il mezzo della sua attività, che non un elemento della sua struttura[18].

Al di là delle pur rilevanti differenze tra quanti hanno insistito sul paragone regole degli scacchi-regole del diritto, è soprattutto all’analisi delle regole costitutive che si può qui, anzitutto, far riferimento. Secondo alcuni autori, infatti, il concetto di diritto (ed  il diritto come ordinamento) non sarebbe pensabile – perlomeno all’interno delle discorsività proprie dell’ordine giuridico moderno –, se non a partire dalla costitutività (più che dalla prescrittività):

[…] dovunque registriamo il fenomeno dell’efficacia giuridica, lì dobbiamo presupporre una norma costitutiva. Se si riflette, ciò finisce per suggerire un ulteriore allargamento della portata della costitutività nell’esperienza giuridica. […] Norme che non producano alcun effetto giuridico, che non incidano su quella realtà che è la realtà specificamente giuridica, non possono che essere norme estranee al mondo del diritto. Ma allora, se le norme giuridiche, in quanto tali, hanno efficacia giuridica e se l’avere efficacia giuridica è caratteristico delle norme costitutive, segue che tutte le norme giuridiche, in quanto tali, sono costitutive: la costitutività viene ad estendersi nel diritto tanto quanto la stessa normazione[19].

Nella rilettura data da Carcaterra, la costitutività – ancor prima che proprietà essenziale di alcune norme giuridiche – è la condizione di possibilità e pensabilità dell’ordinamento giuridico[20]. Come scrive Guastini, rispetto all’ordinamento, diremo, l’attività nomothetica è costitutiva, e senza di essa non sarebbero pensabili né la legislazione né la giurisdizione:

[…] “legiferare” non sarebbe legiferare in assenza di quelle norme che conferiscono ad un certo comportamento umano il senso (il valore) di “legislazione”. Senza tali norme, forse, lo stesso vocabolo “legiferare” non avrebbe alcun senso. Lo stesso può dirsi per “giudicare (in sede giurisdizionale)”, “promettere” o “giocare a scacchi”[21].

Non è, tuttavia, compito di queste pagine ripercorrere il dibattito interno, le differenti formulazioni e le critiche al concetto di regole costitutive che sono state proposte dalla filosofia del diritto[22].     Ci interessa, piuttosto, il funzionamento della metafora degli scacchi nella definizione del giuridico. Osserva ancora Carcaterra:

Questa accentuazione dell’importanza delle norme costitutive e di struttura si è già profilata attraverso l’analogia con le regole dei giochi, per cui quelle si sono rivelate basilari per i singoli sistemi giuridici. Tali norme non costituiscono soltanto particolari entità e determinazioni all’interno di un ordinamento già formato, ma giungono a costituire – esse nella loro totalità o comunque alcune di esse – l’ordinamento medesimo come insieme, diventando le condizioni della sua possibilità e pensabilità, allo stesso modo che un gioco non sarebbe possibile né pensabile se non fosse definito e stabilito dalle sue regole costitutive.[23]

Il concetto di ordinamento giuridico, in altri termini, sembra rimandare ad una certa esemplarità, ad un modello di «costitutività» (così Conte: ad essere eidetico-costitutive sono non singole regole, ma totalità di regole) che è reso possibile soltanto dal gioco degli scacchi. Se possiamo pensare qualcosa come la costitutività giuridica, diremo, è soltanto attraverso una certa economia metaforica il cui funzionamento dipende, essenzialmente, dall’esemplarità degli scacchi, dalla costitutività che è loro propria.

Nelle analisi sul concetto di regola costitutiva, il discorso gius-filosofico riconosce il gioco degli scacchi come esemplare. Esemplare – lo si ripete – nel senso che somiglia ad un esempio, ma che, «come il migliore degli esempi, organizza, orientandola, la totalità finalizzata del processo semiotico»[24].

Così, in Conte, il concetto di regola eidetico-costitutiva (che definisce «le regole le quali sono condizione necessaria di ciò su cui esse vertono»[25]) ha per «caso paradigmatico» le regole del gioco degli scacchi, nel senso che è solo attraverso questo paradigma che si delineano forme, caratteri e proprietà di una teoria della costitutività giuridica.

È sempre a partire dal «gioco par excellence: il gioco degli scacchi»[26] che è possibile definire, secondo Conte, il concetto di regole costitutive, intese come quelle regole che sono condizione necessaria di una praxis e dei suoi praxemi. Tale concetto implica, infatti, una serie di passaggi, di distinzioni, di proprietà che soltanto l’esempio degli scacchi consente di individuare.

Anzitutto, il concetto di regola costitutiva presuppone una particolare definizione dell’identità. Non c’è gioco senza l’identità dei pezzi, senza che i pezzi rimangano identici a se stessi, ma, al contempo, non c’è identità se non all’interno del gioco, se non in quanto costituita e determinata dalle regole. Ma – ci si dovrebbe già chiedere – forse tutti i giochi presuppongono questa identità? È negli scacchi che l’identità dei pezzi-praxemi è determinata dalle regole: «un pezzo non ha, ma è l’insieme delle sue regole. In un sintagma come “le regole dell’alfiere”, “dell’alfiere” è non complemento di specificazione, ma complemento di denominazione. Nel caso delle regole eidetico-costitutive […] vale non la tesi Forma dat esse rei, ma la tesi Norma dat esse rei»[27].

Le regole degli scacchi sono costitutive dei pezzi: «il pedone è la somma delle regole sulle sue mosse», per riprendere Wittgenstein. Si tratta di una costitutività dell’identità che passa sempre per il riferimento agli scacchi. Così, con riferimento a Ernst Mally, Conte osserva:

Sono le regole del gioco a fare di un pezzo degli scacchi ciò che esso è. Un pezzo è determinato nella sua essenza, è “essenzialmente determinato” [wesentlich bestimmt], dal suo “significato funzionale” [funktionale Bedeutung], significato funzionale che gli deriva dalle regole[28].

La costitutività, inoltre, presuppone anche una determinata concezione dello spazio. Negli scacchi, i pezzi non si distribuiscono all’interno dello spazio: «un pezzo degli scacchi non ha un luogo, ma è un luogo (luogo deontico)». Una mossa nello spazio, del resto, è tale solo se già qualificata come tale dalle regole: «nessun movimento nello spazio è in se stesso una mossa degli scacchi»[29]. Ciò che si distribuisce nello spazio allora sono i tokens d’un pezzo, le loro «ricorrenze», i «comportamenti» del pezzo, non il pezzo quale type.

La distinzione type/token, ripresa da Pierce, consente a Conte di determinare ulteriormente il rapporto tra costitutività e identità: «se, ad esempio, un alfiere è mosso difformemente da una sua regola eidetico-costitutiva deontica, per ciò stesso esso perde la propria costitutiva identità, cessa d’essere un token del type: alfiere»[30] (ossia: la regola è costitutiva del type e la difformità alla regola è destitutiva del token).

Questa distinzione, ancora, è ciò che permette a Conte di sostenere l’inviolabilità delle regole costitutive. Non c’è mai violazione, trasgressione possibile, in quanto «se uno non segue le regole degli scacchi, egli non gioca a scacchi»:

E’ come quando qualcuno sposta un alfiere difformemente da una regola eidetico-costitutiva deontica sull’alfiere stesso (ad esempio, se qualcuno sposta un alfiere non in diagonale, ma in linea retta). Poiché egli non agisce conformemente alla regola […] ciò che egli muove sulla scacchiera perde la sua qualità di token del type: alfiere, ed il suo movimento non acquista il senso specifico di mossa. […] Paradossalmente, dunque, l’agire non conformemente ad un regola eidetico-costitutiva deontica (in quanto agire destitutivo dei tokens di quei types dei quali la regola è costitutiva) non solo non è violazione della regola, ma addirittura preclude la possibilità di essere violazione di essa[31].

Non è qui necessario dar conto della tipologia delle regole costitutive elaborata da Conte[32]. Piuttosto occorre insistere sull’economia metaforica che permette a Conte le operazioni di traduzione, passaggio, comparazione tra scacchi e diritto. È scegliendo quale esempio (paradigma, esempio esemplare, esempio par excellence) il gioco degli scacchi che diventa possibile definire un particolare concetto di costitutività in termini di identità dei pezzi, separazione type/token ed inviolabilità delle regole.

Quel concetto non è, però, funzionale a descrivere il gioco degli scacchi, bensì a delineare le condizioni di senso di una serie di nozioni giuridiche: da quella di ordinamento al concetto di validità[33], dall’abrogazione[34] alla «norma fondamentale»[35].

Pure, si potrebbe osservare come ciò che mette in gioco l’analogia tra scacchi e diritto sia non tanto la possibilità di delineare alcuni particolari concetti interni a quest’ultimo, quanto piuttosto la definizione stessa del diritto. L’analogia, allora, non metterebbe in relazione due termini, ma, diversamente, funzionerebbe come l’economia metaforica che costituisce un termine attraverso l’altro. Dovremo, per dar conto di tutto questo, spostare ancora la metafora, attraverso un nuovo paragone.

  1. Contro gli scacchi: il weich’i

Attraverso il ricorso al gioco del go (o weich’i o weiqi), Deleuze e Guattari[36] hanno tentato una messa in discussione della metafora degli scacchi nei suoi rapporti con la costruzione dei concetti giuridici, del diritto come organizzazione del potere che si costituisce come ordinamento giuridico. Secondo tale prospettiva, il discorso giuridico sarebbe reso possibile soltanto da una certa concezione del gioco, i cui caratteri sono, essenzialmente: a) la costitutività delle regole (norma dat esse rei); b) la produzione di soggetti d’enunciato e d’enunciazione (il potere è assoggettamento in quanto è soggettivazione); c) i processi di codificazione (che assegnano ai «pezzi» del gioco proprietà intrinseche, fissano tra essi rapporti biunivoci strutturali e, soprattutto, implicano la necessità di una semiologia, di una interpretazione) e d) di territorializzazione (chiusura degli spazi, fissazione «giuridica» di confini).

Il weich’i è ciò che spezza questo regime di discorso, questo regime di segni che è dato negli scacchi. Si possono così sintetizzare le principali opposizioni tra scacchi e go, secondo il modello di Deleuze-Guattari:

  1. a) soggettivazione e codificazione/de-soggettivazione e de-codificazione. «I pezzi degli scacchi sono codificati, hanno una natura interna o proprietà intrinseche, da cui derivano i loro movimenti, le loro situazioni». «Un cavallo resta un cavallo, un alfiere un alfiere». Ciascun pezzo degli scacchi «è come un soggetto d’enunciato, dotato di un potere relativo; e questi poteri relativi si combinano in un soggetto d’enunciazione, il giocatore stesso o la forma d’interiorità del gioco». Le pedine del go, invece, «sono grani, pasticche, semplici unità aritmetiche, non hanno funzione se non anonima, collettiva o alla terza persona: “Egli” avanza, può trattarsi di un uomo, di una donna, di una pulce, di un elefante». «Le pedine del go sono gli elementi di un concatenamento macchinico non soggettivo, senza proprietà intrinseche, ma solamente di situazione».

La metafora degli scacchi lavora, allora, costituendo una certa logica dell’ identità, come si è visto già nelle analisi di Conte sulle regole costitutive. Il gioco degli scacchi presuppone e determina i pezzi come identici, assegnando a ciascuno di essi un’identità fissa (un cavallo resta un cavallo): i pezzi degli scacchi sono tali solo attraverso le regole del gioco, che assegnano ad essi il loro significato ludico (Spielbedeutung). Questa identità non dipende in alcun modo dalla materialità dei pezzi, ma unicamente dal valore che le regole del gioco – il sistema simbolico[37] che esse articolano – assegnano ad essi. Come osserva Saussure:

Un nuovo paragone con il gioco degli scacchi ce lo farà comprendere. Prendiamo il cavallo: da solo è forse un elemento del gioco? Certo no, poiché nella sua materialità pura, fuori dalla sua casella e dalle altre condizioni del gioco, non rappresenta niente per il giocatore e diventa elemento reale e concreto solo quando sia rivestito del suo valore e faccia corpo con esso. Supponiamo che durante una partita questo pezzo sia per caso distrutto o smarrito : lo si può sostituire con un altro equivalente? Certo: non soltanto un altro cavallo, ma anche una figura priva di qualsiasi rassomiglianza con quello sarà dichiarata identica, purché ad essa si attribuisca lo stesso valore[38].

La costruzione del «soggetto di diritto», nella modernità giuridica, passa attraverso questa economia metaforica. Non è questa la sede per ripercorrere le procedure di soggettivazione/assoggettamento attraverso le quali è avvenuta la codificazione del soggetto. Importa, piuttosto, insistere sul fatto che essa rimanda sempre-già ad una esemplarità, ad un paradigma – gli scacchi – che consente di significarla, di fissarla, di spiegarla. La costituzione della persona, del soggetto quale centro di imputazione e riferimento di rapporti giuridici (o, per dirla con Kelsen, la «personificazione, cioè l’espressione unitaria personificata, delle norme che regolano il comportamento di un uomo») rinvia immediatamente allo statuto concettuale dei «pezzi» degli scacchi:

[…] le sujet de droit n’est donc pas «quelque chose» que l’on puisse trouver dans la réalité physique, il n’existe qu’en tant que manière de voir juridiquement cette réalité. Il a le même statut conceptuel qu’une figure d’un jeu (par exemple, le roi aux éches): sa seule définition passe par un ensemble de postulats précisant son fonctionnement au sein de ce jeu même, en dehors duquel il n’est que morceau de matière[39].

  1. b) guerra come semiologia/guerra come strategia: «Gli scacchi sono certamente una guerra, ma una guerra istituzionalizzata, codificata, con un fronte, delle retrovie, delle battaglie. Una guerra senza linea di combattimento, senza affrontamento e retrovie, al limite senza battaglia, è invece la caratteristica del go: pura strategia, mentre gli scacchi sono una semiologia»;
  2. c) spazio chiuso (polis)/spazio aperto (nomos): «Negli scacchi, bisogna distribuirsi uno spazio chiuso, dunque andare da un punto ad un altro, occupare un massimo di posti con un minimo di pezzi». Diversamente, «nel go il problema è distribuirsi su uno spazio aperto, tenere lo spazio, conservare la possibilità di apparire in qualsiasi punto; il movimento non va più da un punto ad un altro, ma diventa perpetuo, senza scopo e senza meta, senza partenza e senza arrivo».

 

scacchi

 

L’opposizione scacchi/weich’i riscrive i diversi temi che Deleuze e Guattari articolano in Millepiani. Ma il «rovesciamento» che il weich’i consente di pensare rispetto agli scacchi una serie di spostamenti che mettono in discussione direttamente la discorsività giuridica moderna ed alcuni dei suoi «concetti classici», a partire, anzitutto, dal concetto di «ordinamento giuridico», di nomos.

  1. Rileggere il nomos

La contrapposizione scacchi/weich’i consente a Deleuze di rovesciare il concetto di nomos inteso quale ordinamento concreto. L’opposizione, qui, è evidentemente a Carl Schmitt. Nell’opera del giurista tedesco, il «significato originario» del termine nomos  viene determinato a partire dal fare, dall’azione del nemein, inteso come Nehem (prendere/conquistare), Teilen (spartire/dividere) e Weiden (coltivare/produrre). Ciascuno di questi tre processi, scrive Schmitt, «appartiene completamente all’essenza di ciò che finora, nella storia umana, è apparso come ordinamento giuridico e sociale»[40]. Occupazione, divisione e distribuzione costituiscono gli atti originari del diritto e di ogni ordinamento giuridico concreto («la prima occupazione di terra, con relativa divisione e ripartizione dello spazio; la suddivisione e distribuzione originaria, è nomos»[41]).

 Il concetto di nomos funziona in tal modo in contrapposizione a quello di legge (Gesetz), alla «concezione del diritto come «sistema di norme»[42], alle ideologie legalistiche (normativismo, positivismo, identificazione di legittimità e legalità). È in questione, qui, la storia della tradizione del concetto di legge, della sua ridefinizione nel corso del XIX secolo – che è sempre e soprattutto la storia di una «cattiva» traduzione, della disgrazia, come la chiama Schmitt, di uno scambio tra lex e nomos e poi tra nomos e norm[43] –,  rispetto alla quale il testo schmittiano oppone una filologia dell’origine della parola nomos che mostri la «connessione originaria» di ordinamento e localizzazione nello spazio (OrdnungOrtung), che dia conto di quell’«evento storico costitutivo, un atto della legittimità che solo conferisce senso alla legalità della mera legge».

L’ordinamento giuridico implica, in altri termini, l’occupazione e la chiusura dello spazio, la recinzione, la fissazione dei confini. Il diritto poggia «originariamente su delimitazioni in senso spaziale»:

Le ricerche di Jost Trier sono […] riuscite a rendere nuovamente il carattere di localizzazione spaziale contenuto in alcuni termini originari. Ciò vale soprattutto per termini come «sommità» e «frontone» [First, Giebel] e per le famiglie di parole indicanti «casa», «recinto» e «recinzione» [Haus, Zaun, Hegung]. […] Quanto all’etimologia di nomos, è importante notare con J. Trier che questo termine è esso stesso etimologicamente un «termine di recinzione» [Zaunwort]: «Ciò che ogni nomos è, lo è all’interno della propria cerchia recintata». Nomos significa luogo di dimora, distretto, luogo di pascolo[44].

Non si dà diritto, ordinamento giuridico, se non attraverso gli atti primordiali di occupazione, suddivisione, recinzione, delimitazione dello spazio, della terra, nella separazione interno/esterno, dentro/fuori: l’occupazione è, infatti, al contempo, atto verso l’interno («vale a dire internamente al gruppo occupante, viene creato con la prima divisione e ripartizione del suolo il primo ordinamento di tutti i rapporti di possesso e di proprietà») ed atto verso l’esterno («il gruppo occupante si trova posto di fronte ad altri gruppi e potenze che occupano la terra o ne prendono possesso»[45]).

È ancora a partire dalla traduzione, dalla storia della traduzione della parola originaria, che Deleuze rovescia la posizione schmittiana. Il lavoro di Laroche, Histoire de la racine «Nem» en grec ancien[46], mostrerebbe infatti come la radice nem, anziché la divisione, indichi la distribuzione, distribuzione in uno spazio non limitato, in uno spazio non chiuso dai confini, spazio nomadico, deterritorializzato:

Ora, si tratta di una distribuzione molto particolare, senza divisione, in uno spazio senza frontiere e senza chiusura. Il nomos è la consistenza di un insieme vago: in questo senso si oppone alla legge o alla polis, come un retroterra, un fianco di montagna o la distesa vaga attorno a una città («o nomos, o polis»). […] Il nomade si distribuisce in uno spazio liscio, occupa, abita, tiene tale spazio, ed è questo il suo principio territoriale[47].

Distribuzione non implica, come in Schmitt, una logica del giudizio (Ur-teil) e della giustizia come suum cuique (Hobbes, Leviathan, XXIV: «And this they well knew of old, who called that Nomos (that is to say, distribution), which we call law; and defined justice by distributing to every man his own»), una logica del nemein come spartizione, azione del dividere e distribuire. Diversamente, essa rimanda ad una distribuzione senza proprietà, senza divisione, distribuzione di movimento. Non ripartizione dello spazio, ma ripartizione nello spazio:

Occorre innanzitutto distinguere una distribuzione che implica una partizione del distribuito, quando si tratti di ripartire il distribuito come tale. E qui le regole di analogia nel giudizio si rivelano onnipotenti. […] Un siffatto tipo di distribuzione procede per determinazioni fisse e proporzionali, assimilabili a «proprietà» o territori limitati nella rappresentazione. È possibile che la questione agraria abbia avuto una grande importanza in questa organizzazione del giudizio come facoltà di distinguere delle parti («da una parte e dall’altra parte»). […]. Ben diversa è la distribuzione da denominare nomadica, un nomos nomade, senza proprietà, confini o misura, ove non c’è più partizione di un distribuito, ma piuttosto ripartizione di quanti si distribuiscono in uno spazio aperto illimitato, o perlomeno senza limiti precisi. Niente torna né appartiene ad alcuno, ma tutti gli individui sono disposti in modo sparso, si da coprire il maggiore spazio possibile. Anche quando si tratta della vita, nei suoi aspetti più gravi, lo si direbbe spazio di gioco, regola di gioco, in opposizione allo spazio, per contrasto al nomos sedentario. Riempire uno spazio, ripartirsi in esso, è cosa molto diversa dal ripartire lo spazio[48].

Il testo di Laroche permette dunque a Deleuze di sottolineare le radici nomadi del termine, in contrapposizione al senso schmittiano del nomos come occupazione/divisione/produzione della terra (e della produzione del radical title della proprietà). Per Laroche, il verbo νέμω – nel periodo omerico – significherebbe infatti a partire da una netta separazione e distinzione tra distribuer e partager. Esso rimanderebbe alla distribuzione senza divisione – che, per Laroche, si ritrova soprattutto nel concetto di νέμεσις[49] –, laddove «le partage et le découpage s’expriment par les verbes τάμνω, δαίω, δατέομαι, διαμοιράομαι»[50].

Tale distinzione è, tuttavia, persa già a partire dal V secolo a.C., durante il quale i due sensi tendono a confondersi e sovrapporsi. Occorrerebbe seguire le trasformazioni semantiche (secondo le tre direzioni indicate da Laroche: multiplication des sens, extension de l’usage, tendance vers l’abstraction) subìte da νέμω, attraverso le quali l’idea di distribuzione, della distribuzione tende ad essere messa in relazione con quella di ordine, di misura – dispensare, assegnare, fissare la «giusta misura» – di proporzione, di corretta ripartizione. Come precisa Laroche: «c’est seulement à partir du 5e sièle, et sous l’effet d’analyses intellectuelles, que le sens pastoral a été réinterpreté et rapproché secondairement de νέμω “partager”»[51].

Al contempo, alla sua voce media, νέμω indica, secondo Laroche, anche l’idea dell’abitare, ma in un senso differente rispetto a quello schmittiano dell’occupazione della terra, del circoscrivere, recintare, delimitare, fissare i titoli, la proprietà. Laroche insiste, qui, sulla distinzione rispetto al gruppo di termini espresso da οἰκῶ: «Νέομαι semble désigner […] un habitat sans limites précises, comme chez Homère ἀμφινέομαι. On pourrai alors être tenté d’y voir le terme spécifique de la vie nomad, les sédentaires ayant pour eux le groupe de οἰκῶ. Sans doute était-ce vrai à l’origine»[52].

L’opposizione vita nomade/vita sedentaria, dunque, attraverserebbe il senso originario di νέμω (senso che è già assente in Platone[53]). All’origine, nomos non indicherebbe dunque mai l’economia, l’oiko-nomia, il nomos dell’oikos, «legge della casa», della recinzione, quanto piuttosto il movimento della vita nomade, il distribuirsi su uno spazio illimitato: «Les traductions proposées “terre découpeé, lopin, morceau” ne convent pas en tout cas aux poèmes homériques et supposent un ancien νέμω “je partage” que nous devons rejeter. Le pâturage des temps archaïques est en général un espace illimité; ce peut être une forêt, des prés de rivières, un flanc de montagne»[54].

Secondo questa linea di lettura, si dà il pensiero di un nomos che non è più Zaunwort, ma termine che indica una via nomade al diritto, una diversa concezione del rapporto con lo spazio, una distribuzione che non implica divisioni, confini, recinzioni, ma che si articola lungo la rilettura di Deleuze e Guattari spazio liscio/spazio striato, spazio nomade/spazio sedentario, apparato di Stato/macchina da guerra.

Eppure non si tratta, qui, di una questione filologica: non è realmente la traduzione ad essere in gioco. Schmitt lo scrive esplicitamente: «resta però da osservare che le nostre conoscenze di teoria giuridica e costituzionale non sono legate ai casi alterni delle polemiche filologiche»[55]. Quanto a Deleuze, è evidente che il tentativo di una rilettura del nomos non passi, di per sé, per il testo di Laroche – il quale, peraltro, è stato ritenuto compatibile anche con il filone interpretativo schmittiano (il nem- indicherebbe, qui, la distribuzione all’interno, la divisione che precede l’appropriazione, ma che resta interna alla partizione del distribuito[56]).

Sembra difficile, inoltre, poter separare concettualmente – al di là delle differenti etimologie – la partizione/distribuzione da una certa economia, dalla divisione in parti, come se il funzionamento di questi termini fosse, come osserva Derrida, implicato già-da-sempre in una tautologia: «Nomos ne signifie pas seulement la loi en général, mais aussi la loi de distribution (nemein), la loi du partage, la loi comme partage (moira), la part donnée ou assignée, la participation. Une autre sorte de tautologie implique déjà l’économique dans le nomique comme tel. Dès qu’il y a loi, il y a partage: dès qu’il y a nomie, il y a économie»[57].

È possibile che, in realtà, il rovesciamento deleuziano passi, più che attraverso un problema di traduzione, proprio per la forza della metafora del weich’i, per una metafora dello spazio di gioco che si possa opporre a quella degli scacchi (così si potrebbe leggere il riferimento al nomos nomadico come «spazio di gioco, regola di gioco, in opposizione allo spazio, per contrasto al nomos sedentario»). È dunque ancora sul funzionamento della metafora del gioco che occorrerà tornare.

  1. Il concetto di guerra: dagli scacchi al weich’i

12 luglio. Ieri, dopo la partita a scacchi, Brecht ha detto: «Dunque, se viene [Karl] Korsch, dovremmo escogitare con lui un nuovo gioco. Un gioco in cui le posizioni non restano sempre le stesse; in cui la funzione delle figure cambia, quando sono state per un certo tempo nella stessa posizione: esse diventano allora più forti, o anche più deboli. Le cose non si sviluppano, in questo modo; restano per troppo tempo identiche»[58].

Come avviene per il nomos, anche la concezione della guerra come «strategia» implica, in Deleuze, un lavoro di decodificazione dell’opposizione tra guerra regolare/guerra irregolare presente all’interno della filosofia giuridica e, in particolare, nel discorso schmittiano.

La coppia scacchi/weich’i funziona, qui, nuovamente, come metafora che tenta di scardinare il nesso concettuale tra Stato moderno ed istituzionalizzazione e limitazione della guerra. Il processo di costituzione dello Stato moderno avrebbe, secondo Schmitt, condotto alla realizzazione di un ordinamento spaziale concreto a carattere interstatale ed eurocentrico, fondato sull’equilibrio tra gli Stati territoriali del continente europeo e l’impero marittimo britannico (terra/mare[59]), il cui «reale progresso» sarebbe stato quello di «circoscrivere e di limitare la guerra europea»[60].

La formazione dello Stato moderno, infatti, coincide con la neutralizzazione delle guerre civili di religione e con la fine della dottrina medievale della justa causa, della «guerra giusta». La guerra, ora, diviene un conflitto limitato e regolato tra Stati sovrani, che si riconoscono reciprocamente come tali nella loro qualità istituzionale e strutturale di entità politiche (justi hostes):

Ad entrambe, alla guerra di religione e alla guerra civile, si contrappone la guerra puramente statale del nuovo diritto internazionale europeo, al fine di neutralizzare e quindi di superare i conflitti tra i partiti. La guerra diventa ora una «guerra in forma», une guerre en forme, e ciò solo per il fatto che essa diventa guerra tra Stati europei chiaramente delimitati sul piano territoriale, ovvero su un confronto tra entità spaziali raffigurate come persone publicae, le quali costruiscono sul suolo comune d’Europa la «famiglia» europea e possono quindi considerarsi reciprocamente come justi hostes.[61]

La limitazione-circoscrizione della guerra (Hegung des Krieges) è resa possibile dalle categorie giuridico-formali proprie dell’ordine politico statale, tra cui, in particolare, la personificazione, ossia la rappresentazione dello Stato come persona, come soggetto: «Questo Stato è […] essenzialmente uno spazio unitario, territorialmente chiuso, di suolo europeo, che viene contemporaneamente rappresentato come un magnus homo»[62].

Territorio chiuso, unità politica e sovranità interna ed esterna costituiscono le strutture che rendono possibile concepire la guerra come una relazione tra Stati (Rousseau: la guerre est une relation d’État à État), tra personae publicae.  È sempre il riferimento allo Stato, alla connessione tra nomos ed ordine statale, a definire, in Schmitt, il concetto non discriminatorio di guerra – di una guerra, cioè, che «permette di trattare gli Stati belligeranti come equiparati sul piano del diritto internazionale, ovvero come justi hostes posti sul medesimo piano giuridico e morale»[63]. Come è stato correttamente osservato, c’è una isomorfia concettuale tra «monopolizzazione del ‛politico’ da parte dello Stato in funzione della neutralizzazione e della spoliticizzazione e la Hegung, moderazione della guerra grazie alla costruzione del sistema degli Stati europei»[64].

Non appare necessario ripercorrere, qui, i passaggi attraverso i quali Schmitt riflette sul crollo dello jus publicum Europaeum, sullo «scuotimento» dei concetti specifici elaborati nel plurisecolare processo della modernità da parte delle nazioni europee (Stato e sovranità, costituzione e legge) e sul mutamento del significato di guerra a partire perlomeno dal 1914 (attraverso, in particolare, la criminalizzazione dell’hostis)[65]. Occorre, piuttosto insistere su come Schmitt, anche quando «integrerà» il concetto di politico alla luce degli sviluppi, nel corso del XX secolo, della guerra partigiana, continuerà comunque – sebbene con molte incertezze – a definire quest’ultima secondo la logica propria dell’ordine giuridico e politico statale.

Vero è che Schmitt, fin dall’introduzione alla Teoria del partigiano, insiste sul carattere di novità delle guerre partigiane rispetto alla logica statale della contrapposizione guerre en forme/guerra civile (novità teorica: «nuove teorie intorno alla guerra e alla politica»[66]). Eppure, essa è tale proprio e soltanto in quanto «dipende da una precisa definizione del regolare», in quanto l’irregolarità del partigiano – ciò che consente di definire, significare il partigiano come «irregolare» – dipende «dall’importanza e dal significato attribuiti al regolare che la lotta partigiana mette in discussione»[67].

Schmitt, lo si ripete, torna più volte sul rapporto tra i concetti «classici» del politico e della guerra ed il problema dello statuto teorico del partigiano – perché di questo si tratta, si tratta di una teoria del partigiano, come precisa Schmitt, «noi parliamo della teoria del partigiano» (di una «teoria del partigiano di tipo politico, che vada oltre le classificazioni tecnico-militari»)[68]. Rapporto che, come è stato notato, viene descritto «qui come una «dissoluzione» (Begriffsauflösung), là come uno «sconvolgimento (eine umstürzende Wendung)» del concetto di politico[69]. Ciò sembra, tuttavia, richiamare due movimenti differenti.

Da una parte, Schmitt sembra incline a sostenere che una teoria del partigiano debba farsi, non possa che essere pensata a partire dalla dissoluzione del concetto «tradizionale» del politico, delle distinzioni e classificazioni proprie della guerre en forme, della «logica del diritto di guerra europeo classico»[70]: più che irregolare, il partigiano sarebbe, qui, al di là di ogni tassonomia costruita su regolarità/irregolarità, legalità/illegalità, stato di guerra/stato di pace etc., sarebbe «al di fuori» (außerhalb) di ogni limitazione («diventa anzi insito nella sua natura e nella sua esistenza il collocarsi al di fuori di qualsiasi limitazione»[71]). All’interno del testo schmittiano si possono seguire una serie di passaggi che paiono andare in questa direzione.

A proposito della distinzione regolare/irregolare e legale/illegale, Schmitt nota come nel partigiano «queste opposizioni si confondono e si intrecciano» (il partigiano è regolare e irregolare, è legale e illegale), ma anche che, al contempo «si dissolvono» (e quindi: il partigiano non è regolare irregolare, legale illegale). Se così fosse, la guerra partigiana sarebbe davvero ciò che è eterogenea alla guerre en forme: non semplicemente opposta, ma eccedente ed irriducibile ad essa, al riferimento ad essa. Non si tratterebbe più di uno sconvolgimento, ma di uno scarto, di un’irriducibilità, di una nuova politica, una nuova storia per la quale i riferimenti ai concetti propri dello jus publicum Europaeum non potrebbero che funzionare tutt’al più «come metafora», «in senso traslato»[72].

Dall’altra parte, però, Schmitt reinserisce immediatamente l’irregolarità come uno dei criteri che definirebbero il partigiano. Come Schmitt precisa, «l’irregolarità di per sé non costituisce nulla»[73]. Senza «quel riferimento al regolare», essa è insufficiente ad assicurare legittimazione alla guerra partigiana:

In casi simili l’irregolarità non è politica, e diviene puramente criminale, perché perde la relazione positiva con una regolarità presente da qualche parte. Per questo il partigiano si distingue dal capobandito, nobile o vile che sia quest’ultimo[74].

Legittimazione, qui, indica non solo la giustificazione interna, ma anche il titolo, la possibilità di ottenere uno statuto teorico (che è sempre quaestio juris: a quale titolo, con quale diritto si dà una teoria del partigiano?): senza la regolarità (e con, essa, senza il riferimento alla legalità), non c’è partigiano, ma criminale; non c’è politico, ma non politico:

[…] Ma l’irregolarità di per sé non costituisce nulla. Diventa semplicemente illegalità. È vero che una crisi della legge e perciò della legalità è oggi incontestabile. […] Il caso Salan dimostra però che anche una legalità messa in discussione resta più forte, in uno Stato moderno, di ogni altro genere di giustizia[75];

[…] Il partigiano ha bisogno di una legittimazione se vuole restare nella sfera del politico e non sprofondare in quella del criminale comune[76].

Se il partigiano «rimette in discussione» una serie di concetti che Schmitt definisce classici, lo fa proprio in quanto codificato con riferimento ad essi.  Non c’è un’altra logica della guerra partigiana. Si tratta, piuttosto, solo di un rovesciamento, ed è per questo che si resta all’interno della stessa problematica, dello stesso sistema di domande[77]. La «guerra partigiana», per Schmitt non realizza uno spostamento, una rottura epistemologica rispetto a quella classica, ma si limita a «rovesciarne» i termini. Tutta la teoria del partigiano di Schmitt è, in questo senso, fondata sullo stesso sistema di opposizioni proprio della teoria dello Stato: regolare/irregolare; soldato in uniforme/combattente[78]; Stato/partito[79]; legale/illegale; nemico/criminale.

Ci si dovrebbe chiedere, però, se davvero le caratteristiche del partigiano (assenza di uniforme, mobilità e flessibilità, impegno politico, carattere tellurico) si definiscono per opposizione alla guerra regolare o se, diversamente, esse sono l’indice di un’altra guerra, di un’altra logica della guerra, che è irriducibile all’altra – come lo stesso Schmitt, per certi versi, sembra talora prendere in considerazione.

Diremo, intanto, che appare estremamente significativo il fatto che Schmitt veda in Mao non solo «il più grande esperto nella pratica della guerra rivoluzionaria contemporanea», ma anche colui che ha portato a compimento anche dal punto di vista teorico la guerra partigiana anche «al di là» di Lenin[80]. Significativo in quanto è proprio attraverso una riscrittura di Mao, della sua metafora del weich’i, che Deleuze e Guattari spostano il senso del concetto di guerra. La metafora del weich’i, in altre parole, è ciò che determina non il «rovesciamento», ma la «rottura» teorica compiuta da Mao rispetto al concetto «classico» (eurocentrico, occidentale, moderno) di guerra.

In Mao non si tratta, infatti, di opporre legalità/illegalità, esercito regolare/partigiani combattenti, hostis/inimicizia assoluta, quanto, piuttosto, di pensare una nuova concezione della guerra, intraducibile. Ora, questa intraducibilità, questa eterogeneità, è, per definizione, ciò che non si può esprimere, spiegare, significare all’interno della logica rispetto a cui è alternativa. Non può, cioè, essere espressa attraverso l’economia metaforica degli scacchi. Occorre, piuttosto, mettere in gioco la metafora, perché solo il gioco della metafora sposta radicalmente il «campo», produce una nuova concezione dello spazio, del movimento, del conflitto:

Ciò è pressappoco uguale a una partita di weich’i: le campagne e le battaglie tra il nemico e noi sono paragonabili alla reciproca cattura dei pezzi e la costituzione delle nostre basi d’appoggio partigiane sono paragonabili alle mosse per dominare gli spazi bianchi della scacchiera. È nel problema di “dominare gli spazi bianchi” che si rivela la grande funzione strategica delle basi d’appoggio della guerra partigiana nelle retrovie del nemico[81].

Non è semplicemente un paragone, una similitudine tra la guerra partigiana e il gioco: «combattere il nemico non è un gioco»[82]. Soprattutto nel discorso marxista, potremmo dire, c’è sempre un gioco della metafora attraverso il quale si definisce, trova spazio, si scrive la tesi che la guerra non è un gioco.

Per il «partigiano», diremo, cessa ogni analogia, ogni paragone tra guerra e gioco (ed in questo, proprio in questo gioco metaforico, l’economia del partigiano è eterogenea, intraducibile, irriducibile a quella della guerre en forme, la quale, invece, non fa che modellarsi sul «paragone» con gli scacchi).  Schmitt, ancora una volta, sembra intuire – salvo poi non pensarla a fondo – la posta in gioco di questo spostamento:

Solo la guerra rivoluzionaria è, per Lenin, vera guerra, perché nasce dall’inimicizia assoluta. Tutto il resto è gioco convenzionale. La distinzione fra guerra (Vojna) e gioco (Igra) è sottolineata dallo stesso Lenin in una nota a margine di un passo tratto dal cap. XXIII del secondo libro [di Clausewitz] (“Chiave del paese”). È questa logica che presiede al passo decisivo, che abbatte tutte le delimitazioni a cui era arrivato il diritto internazionale europeo nel XVIII secolo, restaurate dal Congresso di Vienna del 1814-1815 con tanto successo da rimanere valide fino a tutta la prima guerra mondiale, e alla cui eliminazione nemmeno Clausewitz certamente aveva ancora pensato. A paragone di una guerra dove l’inimicizia è totale, la guerra circoscritta del diritto internazionale europeo, che procede secondo regole riconosciute, non è molto di più di un duello fra due cavalieri in grado di darsi soddisfazione. A un comunista […] un simile tipo di guerra doveva apparire come un semplice gioco […] che in fin dei conti disprezzava e trovava ridicolo»[83].

Il weich’i è, da questo punto di vista, l’asse metaforico attraverso il quale Mao teorizza una nuova guerra, la guerra di lunga durata. Mao pensa, infatti, ad una «guerra ad incastro», «unica nella storia delle guerre dell’umanità»[84] in quanto segna una rottura rispetto alla concezione «classica», una guerra i cui princìpi strategici e tattici si sottraggono, diremo, alla stessa logica della guerra, e non si espongono altrimenti che in quella metafora. Le categorie schmittiane non possono codificare gli scarti prodotti dal weich’i.

Anzitutto, il weich’i determina l’impossibilità di distinguere, di separare, di significare l’opposizione interno/esterno:  «Per quanto riguarda le linee di operazione, il nemico opera per linee esterne mentre noi operiamo per linee interne. Questo è un aspetto della situazione. Ma ne esiste anche un altro che è esattamente l’inverso di questo»[85] (la resistenza funziona conducendo campagne e battaglie per linee esterne in operazioni che strategicamente sono per linee interne). Come scriverà Lawrence: «la virtù degli irregolari forse stava nella profondità, non nella linea»[86] (in depth, not in face). Per questo i movimenti sono sempre di accerchiamento, di continuo passaggio interno/esterno, ma un passaggio che rende impossibile distinguere l’accerchiante dall’accerchiato[87] e che trasforma continuamente le linee esterne in interne e viceversa[88].

In secondo luogo, occorre evidenziare come nella guerra di lunga durata non si tratti né di difendere né di conquistare un territorio. È una guerra di retrovie senza retrovie («operare senza retrovie è una caratteristica della guerra partigiana condotta nelle retrovie del nemico»[89]), il cui scopo non è occupare territori, ma lo spostamento tra le linee (trasferimento di basi d’appoggio da un luogo all’altro-trasformazione delle zone partigiane in basi d’appoggio[90]), la distribuzione nello spazio aperto[91].

Ancora, la guerra di Mao non può definirsi «irregolare», in quanto – secondo i termini schmittiani – non sarebbe combattuta da un esercito regolare. In realtà, è proprio nella pratica della guerra di lunga durata che il popolo diventa esercito, e l’esercito popolo («mobilitazione politica dell’esercito e del popolo»[92]). Non è una guerra di «fuorilegge»: «La mentalità da “fuorilegge” esiste ancora tra i contadini rovinati. […] Perciò la lotta ideologica contro la mentalità da “fuorilegge” è un processo indispensabile»[93].

Infine, la guerra di lunga durata implica, come scrive Deleuze (che qui si ispira, principalmente, alla guerriglia di Lawrence), la non-battaglia: il principio fondamentale, in essa, è «sforzarsi al massimo di conservare le proprie forze», è il controllo degli spazi bianchi, è evitare di impegnarsi in uno scontro decisivo se non quando la vittoria è certa. Come scrive Mao: «non c’è alcun dubbio che il rifiuto di impegnarci in battaglie decisive significa abbandono di territorio, ma quando ciò diventa assolutamente inevitabile (e solo allora), noi dobbiamo avere il coraggio di farlo»[94]. La metafora degli scacchi non è in grado di spiegare la politica di «barattare spazio con tempo», di fare resistenza attraverso la «non-resistenza»[95].

La guerra partigiana, in altri termini, si produce come una nuova forma di lotta, e non come un semplice «rovesciamento» del paradigma che costituiva la guerre en forme. Non sono le «risposte» a cambiare, le soluzioni tattiche, ma le domande (come far saltare la distinzione linee interne/esterne, come conservare le proprie forze, come creare un esercito attraverso la lotta, come creare nuovi doveri, nuovi rapporti con la popolazione, etc.).

La guerra partigiana è, anzitutto, una nuova forma di vita. La «vita nomade del guerrigliero» è un nuovo modo di muoversi (notturno, con «passo felpato»[96]), di nutrirsi, di dormire, di vestire[97]; implica una nuova organizzazione civile (si veda, in Guevara, il ruolo del tribunale, del servizio sanitario, delle strutture ospedaliere, della scuola[98]); sviluppa nuove forme di rapporto tra uomo e donna, combattenti e popolazione civile, amici e nemici, feriti e prigionieri.

Leggere questa lotta attraverso la metafora degli scacchi vuol dire, allora, ri-codificarla come un semplice «rovesciamento» della guerre en forme, laddove essa, per contro, si produce e significa secondo un’altra logica metaforica, che è quella del weich’i. Con Kissinger, diremo che occorre sempre insistere sul diverso intellectual game alla base delle strategie rispettivamente cinesi ed occidentali:

Se gli scacchi inscenano una battaglia decisiva, il weiqi rappresenta una campagna prolungata. Il giocatore di scacchi mira alla vittoria totale, mentre il giocatore di weiqi cerca il vantaggio relativo. Il giocatore di scacchi si trova di fronte l’intera forza offensiva dell’avversario: sono sempre dispiegati tutti i pezzi di cui dispongono i giocatori. Il giocatore di weiqi, invece, deve essere in grado di valutare non soltanto i pezzi schierati ma anche i rinforzi che l’avversario è in grado di mettere in campo. Gli scacchi illustrano e insegnano i princìpi, formulati da Clausewitz, del «centro di gravità» e del «punto decisivo»: la partita comincia, infatti, di solito, con uno scontro per conquistare il centro della scacchiera. Il weiqi illustra e insegna, per contro, l’arte della strategia d’accerchiamento[99].

Ciò che, tuttavia, è davvero in gioco, non è il semplice paragone tra scacchi e guerra. È, diversamente, la possibilità complessiva di una strategia metaforica che sia in grado di spostare, trasformare, rompere le procedure di significazione che, attraverso gli scacchi, producono, controllano e disciplinano la discorsività giuridica moderna.

La contrapposizione scacchi/go, in particolare, funziona, nel modello di Deleuze-Guattari, nel senso di preparare un nuovo concetto di diritto, i cui caratteri possono così riassumersi:

  1. a) la non-costitutivitànorma dat esse rei»): le regole non costituiscono identitàsoggetti, cessano di funzionare come condizioni eidetiche, come sistemi di codificazione; b) il passaggio dalla semiotica alla strategia: il diritto non funziona più attraverso l’interpretazione (diritto come regime di segni), ma attraverso la sperimentazione (diritto come lotta politica, lotta per un popolo «minore»); c) la fine delle separazioni costitutive il concetto di «ordinamento» giuridico (dentro/fuori, interno/esterno, aperto/chiuso, etc.) e, con esse, del nomos inteso a partire dall’occupazione/divisione/distribuzione dello spazio, per un nomos che, diversamente, implica il movimento di distribuzione negli spazi aperti, nomos che non è recinzione e confine, ma «aggiramento» e «cattura», incastro, continuo passaggio da una parte all’altra. Non c’è «spazio di gioco», ma gioco dello spazio, spazio in gioco (spazio che si perde a favore del tempo, spazio che viene ogni volta ridefinito, attraversato, accerchiato, spazio tra le linee, etc.);  d) la fine della concezione «classica» della guerra (e della separazione guerra/politica secondo la linea di Clausewitz) per un nomos che si fa nella pratica della lotta propria del «partigiano», lotta di resistenza, di «non-battaglia», nuova forma di vita di quella che Schmitt stesso definiva l’«ultima sentinella della terra».

Si può pensare, creare, scrivere un nuovo concetto del diritto a partire da questi «spostamenti»?

Quale che sia la risposta, occorre preparare la domanda, occorre renderla davvero possibile, crearne le condizioni di possibilità, le condizioni affinché essa possa essere realmente posta. E questo lavoro passa, necessariamente, per una critica dell’economia metaforica che attraversa le strutture di significazione, autorappresentazione e legittimazione del diritto.

È per questa ragione che l’opposizione scacchi/weich’i proposta da Deleuze è particolarmente efficace. Spostando la metafora, giocando con la metafora e cambiando gioco[100],  il concetto di diritto subisce uno slittamento, viene «preso» all’interno di una serie di trasformazioni dettate e regolate dai princìpi del weich’i.

Seguire il gioco della metafora proposta da Deleuze significa, allora, lasciare che il concetto di diritto si produca secondo una nuova economia metaforica. Se Deleuze stesso ha accennato, nei suoi testi, al problema della scrittura di un nuovo concetto di diritto, essa resta un compito ancora sostanzialmente da intraprendere. Ma, quali che siano le linee che si seguiranno, la metafora del weich’i consente però di pensare una serie di passaggi, di scarti rispetto a quella degli scacchi, secondo quanto si è qui accennato.

  1. Metafore del gioco

Sommes-nous là pour jouer ou pour être sérieux? (G. Bataille)

Dovremo, a questo punto, tracciare le conclusioni possibili delle analisi svolte. Nel corso del presente lavoro, si è tentato di mostrare come il riferimento agli scacchi funzioni, all’interno del discorso giuridico, come un dispositivo metaforico che consente la definizione di una serie di concetti-chiave del diritto moderno (quali quelli di «ordinamento giuridico», nomos e guerra).

Occorrerà allora domandarsi se e come sia possibile pensare un diritto al di là di quell’economia metaforica.

Anche la contrapposizione scacchi/weich’i, su cui insistono Deleuze e Guattari, risponde in realtà ad una logica della metafora: oppone metafora a metafora, tentando di spostare la definizione del nomos, del diritto, dall’apparato di Stato alla macchina-da-guerra (e dalla Hegung des Krieges alla non-battaglia della guerriglia). È, dunque, attraverso un nuovo esempio di gioco che si scopre come, dietro ai concetti di ordinamento giuridico, soggetto del diritto, Stato, nomos, funzioni già-da-sempre un’economia metaforica, che rimanda al gioco. È come se non fosse mai possibile uscire dalla strategia metaforica consentita dal concetto di «gioco», dal far giocare un concetto contro un altro:

Nella storia del pensiero non si è cercato soltanto di cogliere l’essere del gioco – si è anche tentato all’inverso di determinare a partire dal gioco il senso dell’essere. Questo chiamiamo concetto speculativo del gioco. […] Assurge il gioco a immaginoso spettacolo del tutto, insomma a metafora illuminante, speculativa del mondo[101].

Ma è proprio l’impossibilità di definire l’essere del gioco che permette di spostare e trasformare le metafore del gioco[102]. Proprio perché non si dà mai qualcosa come il gioco, ma unicamente serie di giochi – ossia: non c’è mai il linguaggio, ma unicamente giochi di linguaggio – («Te la fai facile! Parli di ogni sorta di giuochi linguistici, ma non hai ancora detto che cosa sia l’essenziale del giuoco linguistico, e quindi del linguaggio; che cosa sia comune a tutti questi processi, e ne faccia un linguaggio o parte di un linguaggio»[103]), il gioco che giochiamo non è mai (non c’è essere o essenza del gioco), ma si gioca, ossia si sposta, differisce, lavora sempre un’economia metaforica di passaggi, sostituzioni, traduzioni, effetti di senso.

Per questo non abbiamo neppure una «metafora assoluta» (Blumenberg): non si dà mai il gioco come metafora, perché il gioco stesso non rimanda che ad un serie metaforica, a quelle serie di somiglianze (Wittgenstein: «vediamo una rete complicata di somiglianze che si sovrappongono e si incrociano a vicenda») che producono i «confini», li tracciano (e li tracciano proprio perché non ve ne sono). Il senso – le procedure di formazione e trasformazione del senso – in Wittgenstein, non è reso possibile dalla metafora del gioco, ma dal gioco delle metafore:

Infatti, in che modo si delimita il concetto di giuoco? Che cosa è ancora un giuoco e che cosa non lo è più? Puoi indicare i confini? No. Puoi tracciarne qualcuno, perché non ce ne sono di già tracciati (Ricerche filosofiche, § 68).

Per questo gli scacchi, in Wittgenstein, non sono mai esempio, esempio esemplare, paradigma: «Considera quale parte abbiano abilità e fortuna. E quanto sia differente l’abilità negli scacchi da quella nel tennis. Pensa ora ai girotondi: qui c’è l’elemento del divertimento, ma quanti degli altri tratti caratteristici sono scomparsi! E così possiamo passare in rassegna molti altri gruppi di giuochi. Veder somiglianze emergere e sparire» (Ricerche filosofiche, § 66).

È, allora, proprio perché il linguaggio si gioca – ove si gioca non indica la metafora del gioco, ma il gioco della metafora – che esso non può mai dirsi senza metafora, non può mai dirsi che attraverso il gioco (ma «il gioco» stesso è, però, sempre un esempio tra gli altri, sempre metafora: «Considera, ad esempio, i processi che chiamiamo “giuochi”»).

La contrapposizione scacchi/weich’i è allora sempre strategica, rimanda sempre ad una posta in gioco che è quella di mostrare come la discorsività giuridica moderna occidentale sia attraversata e resa possibile da una particolare metafora, da un particolare registro linguistico, che è quello del gioco degli scacchi.

Sono le «regole degli scacchi» a garantire le possibilità di significazione dell’ordine del discorso giuridico, le sue procedure per la formazione, concatenazione e convalida degli enunciati, il suo stesso concetto di «gioco» (gioco chiuso, gioco che è l’insieme delle sue regole, etc.).

Si potrebbe sostenere, allora, che i concetti giuridici moderni di Stato, ordinamento giuridico, soggetto del diritto, guerra, non sarebbero possibili senza il trasferimento metaforico – che regola la produzione e riproduzione del discorso giuridico – degli scacchi. Prendere sul serio la metafora vuol dire, allora, separarsi radicalmente dal paragone tra diritto e gioco, da quelle tesi che riducono «a niente l’idea di gioco proprio dandole importanza»[104].

Il diritto non è un gioco, né somiglia ad un gioco. Schmitt, da questo punto di vista, osserva correttamente che la serietà del politico non permette in alcun modo l’analogia, non consente di ridurre la politica alla metafora del gioco[105]. Altro, però, è il gioco della metafora, è il fatto che il diritto – come ogni linguaggio – si gioca, è in gioco, nel senso che ciò che esso è lo è soltanto all’interno di un’economia metaforica che ne costituisce il discorso (anche il diritto si enuncia, si dice, si rappresenta sempre «non senza metafora»). Non c’è diritto senza spazio di gioco (Spiel-Raum)[106], neppure per Schmitt.

Ciò che è in questione, allora, non è il paragone tra diritto e scacchi, quanto piuttosto ciò che rende possibile e disciplina la produzione di quel paragone. E non è, pertanto, neppure questione, a ben vedere, se sia il diritto a rappresentare, a costituire una rappresentazione del gioco degli scacchi o viceversa.

L’esempio è esemplare proprio perché non permette esempi, perché non è mai davvero un esempio: è la cosa stessa, è nient’altro che il gioco della metafora (diremo, ancora, che se si può parlare di gioco della metafora, è proprio perché il gioco è sempre imitazione che non rappresenta, ma ripete creando nuovi rapporti: la metafora ha un «gioco» in quanto è ripetizione, iterabilità, performatività[107]).

Il gioco consente allora di «mettere in gioco» il concetto di diritto, metterlo in questione, e prepararne lo spostamento. Non possiamo, qui, indicare ancora le nuove possibilità di questo concetto – le quali sono ancora tutte da affrontare, da pensare. Occorre sempre, prima, pensare realmente la domanda, farle «spazio». Certo, però, che, in tutto questo, trovare la metafora «giusta» – la metafora che produce un certo orizzonte di senso –  è questione di politica e di strategia, non di un semplice paragone tra il diritto ed il gioco.

Tommaso Gazzolo

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[1] Per una prima introduzione al tema, si vedano i lavori di B. S. Jackson, 1991; M. Kerchove, F. Ost, 1991, 1992; A. Marmor, 2006, nonché il più recente studio di C. Sarra, 2010.

[2] Cfr. A. Cordello, 2012.

[3] M. Weber, 2010.

[4] Cfr. E. Mazzoleni, 2013.

[5] G. Carcaterra, 2012, 103.

[6] M. Ricciardi, 2008, 48.

[7] J. Derrida, 2009, 354. Per Kant e la distinzione tra BeispelExempel, cfr. M. Ferraris, 1995.

[8] Sul punto, si vedano i saggi raccolti in A. Gelley, 1995. Cfr. anche I.E. Harvey, 2002.

[9] J. Derrida, 1978, 125.

[10] M. Black, 1962, 37.

[11] Sarebbe necessario, sotto tale profilo, ripercorrere anche la storia – che è sempre una storia politica, storia della formazione della sovranità, dello Stato –  attraverso cui gli scacchi si sono costituiti in Occidente e tra il XVI e il XVIII secolo, come il gioco lecito per eccellenza, gioco d’ordine, gioco della razionalità, gioco legale. Ripercorrere, allora, la storia di come il tema del gioco, dei giochi, si scriva sempre attraverso il confronto con la morale, la politica, il diritto. Cfr., sul punto, G. Ceccarelli, 2003; A. Cappuccio, 2011.

[12] Cfr., per un’introduzione, gli studi di J. Dextreit, N. Engel, 1984; M. Faber, 1988; D. Renard, 2002; I. Gros, 2011. Per un quadro storico, cfr. M. Pastoureau, 2004. Per la letteratura, cfr. Gandelman Terekhov, 2013. Per la filosofia, cfr. C. Duflo, 1999; J.L. Harter, 2002.

[13] Occorrerebbe allora rileggere, anzitutto, la reale funzione che, in Saussure, ha il paragone lingua/scacchi. Anche qui paragone esemplare, esemplarità senza esempio, come scrive Saussure: «di tutti i paragoni che potrebbero immaginarsi, il più dimostrativo è quello che potrebbe stabilirsi tra il gioco della lingua ed una partita a scacchi» (F. Saussure, 2011, 107). Cfr., sul punto, D. Willems, 1971; C. Mejía, 1998; A. Purdy, 1986; M. Mandelbaum, 1968.

[14] S. Natoli, 2004, 70.

[15] Va da sé che, sul tema, non si può che rinviare, da ultimo, alle tesi discusse da Derrida (J. Derrida, 1997), in dialogo principalmente con Ricoeur (P. Ricoeur, 1976). Cfr., sul punto, A. Cazzullo, 1987; J.-L. Amalric, 2006; G. Zuccarino, 2013.

[16] P. De Man, 1987, 112.

[17] C. Schmitt, 1972a, 260.

[18] S. Romano, 1977, 16.

[19] G. Carcaterra, 1974, 117-118. Sul punto, cfr. C. Roversi, 2012a; P. Di Lucia, 2004.

[20] Cfr., sul punto, C. Roversi, 2012b, 1251-1295.

[21] R. Guastini, 2014, 47.

[22] Si rimanda, sul punto, a R. Guastini, 1983a; R. Guastini, 1983b; A. Filipponio Tatarella, 1980; G. Ferrari, 1986; M.Q. Silvi, 2014.

[23] G. Carcaterra, 1974, 97 [corsivi aggiunti].

[24] J. Derrida, 1992, 99.

[25] Cfr. A.G. Conte, 1994a, 322. Si veda anche, dello stesso autore, A.G. Conte, 1990.

[26] A. G. Conte, 1994b, 274. Si confronti anche Ricoeur, per il quale l’unità di configurazione costitutiva di una pratica non può che rimandare ad una «particolare relazione di senso», che viene espressa dalla regola costitutiva: «Per regola costitutiva si intendono quei precetti, la cui sola funzione è di stabilire che, per esempio, il tale gesto di spostare una pedina sulla scacchiera “conta come” una mossa durante una partita a scacchi» (P. Ricoeur, 1993, 247) [corsivi aggiunti].

[27] A.G. Conte, 1994a, 326.

[28] A.G. Conte, 1994b, 276.

[29] A.G. Conte, 1994a, 345.

[30] A. G. Conte, 1994b, 282.

[31] A.G. Conte, 1994b, 294-295.

[32] Sia sufficiente, sul punto, evidenziare le seguenti distinzioni presenti nel testo di Conte: a) regole eidetico-costitutive deontiche (es: l’alfiere deve muoversi in diagonale)/regole eidetico-costitutive ontiche (es: scacco matto v’è se, e solo se, il re è sotto scacco e non può essere sottratto allo scacco attraverso alcuna mossa); b) regole eidetico-costitutive deontiche paradigmatiche (le regole che, per ogni fase del gioco, prescrivono una determinata forma di prosecuzione del gioco, determinano il paradigma delle possibili forme alternative di prosecuzione del gioco. Es: L’alfiere deve muoversi in diagonale)/regole eidetico-costitutive deontiche sintagmatiche (le regole che prescrivono una determinata prosecuzione del gioco. Es: Il re deve essere sottratto allo scacco); c) regole eidetico-costitutive/regole anankastico-costitutive (regole le quali pongono una condizione necessaria. Es: il testamento olografo deve essere […] sottoscritto di mano del testatore; La donazione deve essere fatta per atto pubblico). Altri autori hanno proposto differenti classificazioni e analizzato altre tipologie interne alla costitutività. Tra gli altri, cfr. G. Azzoni, 1987; P. Di Lucia, 1999.

[33] Cfr. A.G. Conte, 1994c, 351: «la validità deontica (Geltung) d’una norma è relativa a regole costitutive: a regole (metaregole) costitutive che, in un ordinamento, condizionano la validità deontica». Si veda anche G. Ferrari, 1981.

[34] Cfr. A.G. Conte, 1987.

[35] A.G. Conte, 1991; G. Azzoni, 1986.

[36] G. Deleuze, F. Guattari, 2003.

[37] Cfr. P. Levy, 2011, 64.

[38] F. Saussure, 2011, 134. Il passo di Saussure meriterebbe un lungo commento, per i meccanismi che definiscono la metafora degli scacchi (le opposizioni sensibilità/idealità, rappresentazione/somiglianza, il concetto di identità come equivalenza e quello di valore).

[39] C. Grzegorczyk, 1989, 22.

[40] C. Schmitt, 1972b, 299.

[41] C. Schmitt, 1991, 55.

[42] E. Castrucci, 2011, 21: «Con la teoria del nomos Schmitt esprime il proprio rifiuto per una concezione del diritto come “sistema di norme” astratto da ogni riferimento alle forme ontologiche di organizzazione complessiva della società. Schmitt concorda con Hariou e Santi Romano, esplicitamente citati più volte a questo proposito, nel ritenere che il diritto, prima di essere norma, è organizzazione, struttura, forma istitutiva della stessa società in cui si svolge e di cui riflette l’unità».

[43] Cfr. C. Schmitt, 2005a, 163: «Io trovo che la più grande disgrazia storico-intellettuale della civilizzazione occidentale stia nello scambio tra Norm e nomos»; 169: «Álvaro d’Ors […] ha appunto sostenuto che la traduzione operata da Cicerone del termine greco nomos con quello latino lex costituisce una vera disgrazia»; C. Schmitt, 1972b, 310: «Abbiamo già citato l’opinione del romanista Alvaro d’Ors, secondo cui la traduzione di Cicerone del termine greco nomos con il termine latino lex appartiene alle malefatte più gravi della nostra lingua colta occidentale». Cfr. anche C. Schmitt, 1991, 60: «La discussione scientifica sul nomos è stata finora viziata dal fatto che la maggior parte dei giuristi parlano ancora oggi il linguaggio positivistico del tardo secolo XIX, mentre i filosofi e i filologi – cosa che non può esser loro rimproverata – seguono i concetti dei giuristi. La croce peggiore di questo vocabolario è la parola legge [Gesetz]».

[44] C. Schmitt, 1991, 64-65.

[45] C. Schmitt, 1991, 23-24.

[46] E. Laroche, 1949.

[47] G. Deleuze, F. Guattari, 2003, 530.

[48] G. Deleuze, 1971, 66-67.

[49] E. Laroche, 1949, 89-107.

[50] E. Laroche, 1949, 9.

[51] E. Laroche, 1949, 115.

[52] E. Laroche, 1949, 20.

[53] E. Laroche, 1949, 22-23.

[54] E. Laroche, 1949, 116.

[55] C. Schmitt, 1972b, 310. Ancora, a proposito della lezione del passo dell’Odissea (I, 3), καὶ νόον ἔγνω / καὶ νόμον ἔγνω, Schmitt precisa che i filologi «si sono combattuti per un centinaio di anni sull’interpretazione di questo verso. Mi creda, ma questo non è un problema di tipo euristico; è invece un tema di estrema importanza per la teoria giuridica e costituzionale» (C. Schmitt, 2005, 167).

[56] Il testo stesso di Laroche è stato, del resto, riletto all’interno dell’interpretazione schmttiana del concetto di nomos. Cfr. G. Miglio, 1983. Benveniste, da parte sua, identifica il senso di nomos indicato da Laroche come «partage légal, un partage exclusivement commandé par la loi, la coutume ou la convenance, non par une décision arbitraire […]. Le sens de nomos, “la loi” se ramène à: “l’attribution légale”. Ansi némo se définit en grec comme “partager légalement” et aussi “obtenir légalement en partage”» (E. Benveniste, 1969, 85).

[57] J. Derrida, 1991, 17.

[58] W. Benjamin, 2004, 180. Devo a Giuseppe Zuccarino la segnalazione di questa annotazione – in cui Brecht tenta di decostruire la metafora degli scacchi, i suoi effetti costitutivi –, nonché l’indicazione di un ulteriore passo di Brecht tratto da Vita di Galileo: «galileo (ai due scrivani che giocano a scacchi) Ma come? Giocate ancora alla vecchia maniera, passin passino? Oggi si gioca facendo scorrere liberamente i pezzi grossi su tutti i riquadri. La torre si muove così (lo mostra), l’alfiere così e la regina così e così. Almeno, si ha un po’ di spazio per fare un piano d’azione. primo segretario Che volete, è uno stile che non si attaglia ai nostri miseri stipendi. Noi possiamo fare solo un passetto alla volta, così (muove una pedina). galileo Sbagliate, mio caro, sbagliate! Chi vive in grande, trova anche modo di farsi pagare le scarpe più grandi! Dobbiamo adeguarci ai tempi, signori. Non bordeggiare sempre, ma spingerci al largo, una buona volta!» (B. Brecht, 1971, 1464).

[59] Cfr., sul punto, F. Ruschi, 2012.

[60] C. Schmitt, 1991, 163.

[61] C. Schmitt, 1991, 165.

[62] C. Schmitt, 1991, 170.

[63] C. Schmitt, 1991, 173.

[64] A. Bolaffi, 1986, 6; A. Bolaffi, 2002.

[65] Cfr., sul punto, C. Schmitt, 2008.

[66] C. Schmitt, 2005b, 13.

[67] C. Schmitt, 2005b, 13-14.

[68] C. Schmitt, 2005b, 68.

[69] J. Derrida, 1995, 173.

[70] C. Schmitt, 2005b, 52. Cfr. anche, 19: «Oggi si chiama diritto di guerra classico, ed è indubbiamente un nome meritato. Stabilisce infatti chiare distinzioni – innanzitutto fra stato di guerra e stato di pace, fra combattenti e non combattenti, fra nemico e criminale comune. La guerra è condotta da Stato a Stato come una guerra di eserciti regolari, statuali, tra due depositari sovrani di uno jus belli, che anche in guerra si rispettano come nemici e non si discriminano vicendevolmente come criminali».

[71] C. Schmitt, 2005b, 20.

[72] C. Schmitt, 2005b, 32.

[73] C. Schmitt, 2005b, 117.

[74] C. Schmitt, 2005b, 127.

[75] C. Schmitt, 2005b, 117-118.

[76] C. Schmitt, 2005b, 115.

[77] Cfr. L. Althusser, 2008, 64-69.

[78] Cfr. C. Schmitt, 2005b, 26: «[…] il partigiano è un combattente irregolare. Il carattere “regolare” si manifesta nell’uniforme, che è qualcosa di più di una tenuta da lavoro, perché è un simbolo d’autorità che viene accresciuta dall’ostentazione delle armi. Il soldato nemico in uniforme è il vero e proprio bersaglio del partigiano moderno».

[79] C. Schmitt, 2005b, 27-28.

[80] C. Schmitt, 2005b, 77-86.

[81] Mao Tse-tung, 1992a, 162. Cfr., per un’introduzione, A. Boorman Scott, 1973.

[82] Mao Tse-tung, 1992a, 151.

[83] C. Schmitt, 2005b, 73-74.

[84] Mao Tse-tung, 1992b, 202.

[85] Mao Tse-tung, 1992b, 145.

[86] T. E. Lawrence, 2002, 15; T. E. Lawrence, 1987. Anche sotto tale aspetto, si dovrebbero rileggere le oscillazioni di Schmitt. Nella Teoria del partigiano, Schmitt riconosce che «con la lotta partigiana sorge un nuovo spazio di azione»: «alla superficie del tradizionale teatro di guerra regolare aggiunge un’altra, oscura dimensione, una dimensione della profondità, nella quale chi porta una uniforme è già condannato» (97). La guerra partigiana si pensa, così, non più nello «spazio di gioco» (il teatro, lo Spiel-Raum :«sbucando dalle quinte, il partigiano disturba il dramma convenzionale che si svolge, conforme alle regole, sul palcoscenico», scrive Schmitt – sul tema si veda, nel testo, più avanti), ma in una trasformazione degli «ordinamenti dello spazio», una modificazione «delle tradizionali strutture spaziali» (96). Sembra, così, che la relazione OrdungOrtung sia destinata ad essere ridefinita, ridisegnata radicalmente. Senonché Schmitt, interrotto il discorso, ribadisce che «alla conquista però segue la divisione e la produzione. Sotto questo aspetto, nonostante ogni progresso, tutto resta come prima» (112), il concetto di nomos resta identico.

[87] Cfr. Mao Tse-tung, 1992b, 203.

[88] Cfr. Mao Tse-tung, 1992b, 214. Cfr. anche Vo Nguyen Giap, 1972, 176: «Con la guerriglia e la guerra di movimento, e a causa delle caratteristiche delle forze contrapposte relativamente al dispositivo, al terreno, ecc., si erano formate zone libere e zone controllate dal nemico che si sovrapponevano, si intersecavano e si circondavano a vicenda. All’interno stesso delle zone sotto controllo nemico, c’erano zone di guerriglia e basi di guerriglia, che creavano anche qui lo stesso fenomeno di sovrapposizione, intersecazione e accerchiamento multiplo».

[89] Mao Tse-tung, 1992a, 154.

[90] Mao Tse-tung, 1992a, 154-161.

[91] Lin Piao 1969, 75: «La campagna e solo la campagna, è il mondo senza confini in cui i rivoluzionari possono agire in tutta libertà. La sola campagna è la base rivoluzionaria dalla quale i rivoluzionari possono dirigere i loro passi verso la vittoria finale». Cfr. T. E. Lawrence, 2002, 21: «Gli eserciti erano come delle piante, immobili nell’insieme, fortemente radicati, nutriti da lunghi steli fino alla cima. Gli arabi potevano essere invece una sorta di esalazione che si concentrava dovunque preferissero».

[92] Mao Tse-tung, 1992b, 240. Cfr. anche E. Guevara, 1961, 18: «Sia ben chiaro che la guerriglia è una fase della guerra che non ha in sé la possibilità di conseguire la vittoria; è una delle prime fasi, per essere esatti, e andrà svolgendosi e ampliandosi finché l’esercito guerrigliero con il suo incremento costante acquisisca le caratteristiche di un esercito regolare».

[93] Mao Tse-tung, 1992a, 154-155.

[94] Mao Tse-tung, 1992b, 235.

[95] Mao Tse-tung, 1992b, 235: «Non abbiamo paura di essere denunciati come fautori della non-resistenza? No. Non-resistenza significa completo rigetto della guerra e compromesso con il nemico ed essa non solo deve essere denunciata, ma non deve in alcun caso essere tollerata. Dobbiamo risolutamente continuare la nostra guerra di resistenza, ma è assolutamente indispensabile evitare la trappola mortale del nemico in modo da impedire che il grosso delle nostre forze sia annientato dal nemico con un sol colpo». Come scrive T.E. Lawrence, 2002, 13: «L’opinione dei militari era ossessionata dall’assunto di Foch per cui l’etica della guerra moderna consiste nello stanare l’esercito avversario, ossia il centro del potere nemico, e distruggerlo in battaglia. Le forze irregolari invece non avrebbero mai attaccato le fortificazioni nemiche e perciò erano considerate incapaci di imporre cambiamenti decisivi»; 29: «L’esercito turco era una contingenza, non un bersaglio» (was an accident, not a target); 43: «la guerra irregolare somiglia alla definizione di strategia data da Willisen, in quanto “analisi della comunicazione” a livello estremo, di attacco dove il nemico non c’è». Cfr. anche, Generale A. Bayo, 1968, 34-35: «il vero guerrigliero […] mai invita il nemico alla lotta; e neanche accetta il combattimento frontale, perché il nemico cercherà di portarlo alla lotta su un terreno a lui favorevole e nella posizione strategica che più gli conviene».

[96] E. Guevara, 1961, 50.

[97] E. Guevara, 1961, 55 e ss.

[98] E. Guevara, 1961, 97-111.

[99] H. Kissinger, 2011. Cfr., sul tema, anche D. Lai, 2004.

[100] Analogo movimento si ritrova, in Deleuze, con riferimento al concetto di tempo, allo spostamento KronosAiôn presente in Logica del senso. Qui, Deleuze insiste sull’invenzione dei giochi da parte di Lewis Carroll, sulla trasformazione dei giochi classici in giochi puri. Secondo Deleuze, in particolare, «i giochi da noi conosciuti rispondono a un certo numero di princìpi», che egli così individua: 1) la preesistenza delle regole all’esercizio del gioco (regole categoriche preesistenti); 2) la funzione, assunta dalle regole, di determinare «ipotesi che dividono il caso, ipotesi di perdita o di vincita»; 3) l’organizzazione del gioco in una «pluralità di colpi, realmente e numericamente distinti, ognuno dei quali opera una distribuzione fissa che cade sotto questo o quel caso; 4) l’alternativa vittoria/sconfitta come conseguenza dei colpi. I giochi di Carroll (il caucus, la partita a croquet), diversamente, implicano un rovesciamento-rottura di questi princìpi: 1) non vi sono regole preesistenti, ogni colpo inventa le sue regole, verte sulla propria regola; 2) l’insieme dei colpi non divide il caso, ma afferma interamente il caso; 3) i colpi non sono numericamente distinti. Ogni colpo, scrive Deleuze, non divide uno spazio chiuso tra i risultati fissi in conformità alle ipotesi, ma, con esso, i risultati si ripartiscono nello spazio aperto del lancio unico e indiviso («distribuzione nomade e non sedentaria»); 4) non ci sono vincitori e vinti, non ci sono responsabilità, ma sempre innocenza (cfr. G. Deleuze, 2011, 58-64).

[101] E. Fink, 1987, 58. Cfr. L. Saviani, 1998, e l’introduzione al testo di A. Masullo, 1998, V-XL; T. Pedicini, 1997.

[102] Non si può, in tale sede, che rimandare, per un’introduzione alla metafora del gioco in Nietzsche ed Heidegger – e la diversa strategia sottesa ad essa nei due autori –, ai due contributi di F. Polidori, 2000 e P.A. Rovatti, 2000.

[103] L. Wittgestein, 1983, §65. Cfr., sul punto, P. A. Rovatti, 2008. Nota, correttamente, P. Hadot, 2007, 81: «Per Wittgestein, non si comprende il linguaggio in sé, ma si comprende un determinato gioco linguistico ponendo se stessi in quel determinato gioco linguistico».

[104] G. Bataille, 2000, 329. Sulla discussione delle tesi di Huizinga da parte di Bataille e, attraverso quest’ultimo, Blanchot, si rimanda ai contributi apparsi in Aut Aut, 337, 2008 (Indagini sul gioco) e a G. Zuccarino, 2012.

[105] Cfr. C. Schmitt, 2012. Si veda anche la replica di Schmitt alla critica formulata da Leo Strauss (L. Strauss, Anmerkungen zu Carl Schmitt, Der Begriffdes Politischen, 1932) a proposito della tesi secondo cui se cadesse la distinzione amico/nemico, «allora esisterebbe soltanto una concezione del mondo, una cultura, una civiltà, un’economia, una morale, un diritto, un’arte, uno svago, ecc., non contaminate dalla politica ma non vi sarebbe più né politica né Stato» (così C. Schmitt, 1972a, 138-139). A Strauss, che aveva insistito sul termine svago (Unterhaltung), Schmitt replica, in nota al passo citato: «Oggi direi Spiel, per esprimere con maggior pregnanza il concetto opposto a serietà, che Strauss ha correttamente individuato. […] Spiel dovrebbe essere tradotto con play e dunque lascerebbe ancora aperta la possibilità di un tipo, anche se non convenzionale, di ostilità tra gli “antagonisti” (Gegenspierlern). Diversamente stanno le cose con la teoria matematica del gioco, che è una teoria di games applicata al comportamento umano». Sull’opposizione Spiel (gioco)/Ernstfall (caso serio) in Amleto o Ecuba, cfr. C. Galli, 2012, 7-35; P. Becchi, 1997.

[106] Sul punto, si rimanda a E. Castrucci, 2003, 7-239 (sullo Spiel-Raum, cfr. 64).

[107] Cfr. W. Benjamin, 1993, 90: «Il bambino si crea tutto ex novo, ricomincia ancora una volta da capo. Questa è forse la radice più profonda del doppio significato del tedesco spielen: la ripetizione della stessa cosa è forse l’elemento comune ai due sensi della parola. Non è già un «fare come se», ma un «fare sempre di nuovo», la trasformazione dell’esperienza più sconvolgente in un’abitudine, ciò che costituisce l’essenza del gioco».

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