Sergio Cotta e Augusto Del Noce: sulla «civiltà tecnologica» di Michele Rosboch

La meritoria iniziativa di ricordare con una raccolta di saggi il decennale della scomparsa di Sergio Cotta è stata l’occasione di rileggere alcune pagine significative del grande filosofo del diritto piemontese che hanno costituito oggetto di un elevato «dialogo» a distanza con Augusto Del Noce. Senza alcuna pretesa di completezza, si tratta qui di proporre semplicemente alcuni spunti a proposito di aspetti non marginali del pensiero di due fra le maggiori personalità del pensiero cattolico italiano (e forse europeo…) del XX secolo.
Certamente numerose sono state, nel corso di decenni di frequentazione, le occasioni di dialogo scientifico e non solo fra Cotta e Del Noce (accomunati – oltre che dal loro convinto cattolicesimo – dalle origini piemontesi delle loro famiglie, dalla solida formazione filosofica e dall’approdo finale delle carriere accademiche nella «Sapienza» romana), ma un punto di rilievo del loro simposio – talvolta anche «critico» – è costituito dalla pubblicazione del volume di Cotta su La sfida tecnologica (1968), ripreso da Augusto Del Noce specialmente nei saggi su Civiltà tecnologica e cristianesimo e La morale comune dell’ottocento e la morale di oggi, poi confluito nel volume L’epoca della secolarizzazione (1970).
Naturalmente ci furono altri espliciti punti di contatto e di convergenza culturale e scientifica fra i due autori: su tutti la condivisione dell’interesse per Jean-Jacques Rousseau come esponente assai significativo del pensiero politico moderno e la partecipazione a studi dedicati al tema della violenza verso la fine degli anni Settanta.
Inoltre, sempre come ambiti di intersezione culturale e di incontro fra Sergio Cotta e Augusto Del Noce vanno ricordati, su tutti i «Colloqui» promossi per quasi vent’anni da Enrico Castelli a Roma, a cui hanno preso parte nel corso degli anni personalità di primo piano nel panorama scientifico italiano, come Giuseppe Capograssi , oltre alla loro convinta partecipazione ai comitati promossi per l’abrogazione referendaria delle leggi sul divorzio e sulla legalizzazione dell’aborto.
In tali ambiti sono sorti, senza dubbio, sentimenti di stima reciproca e di sincera amicizia, testimoniati anche dallo scambio di scritti e la loro esplicita menzione nei rispettivi lavori; per tutti riporto una esplicita osservazione di Del Noce a proposito di comuni interessi di filosofia della politica: «L’amico Sergio Cotta, che tra gli studiosi non solo italiani di Rousseau è tra i più competenti, mi ha gentilmente comunicato un suo manoscritto su Filosofia e Politica in Rousseau, da cui questa mia veduta si trova pienamente confermata».
Vediamo ora il nodo principale della «dialettica» di pensiero fra i due maestri: si tratta di alcune riflessioni condotte soprattutto negli anni Sessanta del secolo scorso a proposito della civiltà tecnologica e della sua collocazione nel percorso storico della modernità. Emblematicamente essa è l’oggetto di una delle opere più significative di Sergio Cotta, La sfida tecnologica (pubblicata per i tipi de il Mulino nel 1968).
L’evoluzione della tecnologia costituisce, infatti, il principale nodo filosofico-giuridico dell’epoca attuale, caratterizzato da numerose antinomie e destinato a mettere in discussione assetti consolidati e di essere banco di prova delle differenti visioni del mondo; «Seguendo la linea di quella realistica sapienza cristiana che rifiuta manicheismo e pelagianesimo, che non considera unilateralmente l’uomo», l’Autore prende quindi in esame i fondamenti e i caratteri della «sfida» portata dalla nuova situazione tecnologica contemporanea, fino ad individuare – non senza travagli – possibili risposte e soluzioni.
In particolare l’impostazione di Cotta mette in rilievo l’inconsistenza sia della diffusa «letteratura della crisi», sia dello speculare trionfalismo dell’epoca contemporaneo, evidenziando piuttosto i caratteri di ambiguità e di uno sviluppo tecnologico destinato – in ogni caso – a proseguire e diffondersi in un contesto di vera e propria «accelerazione della storia» (72).
Esaminando, poi il nesso fra scienza, tecnica e attività produttive, si viene a descrivere i caratteri fondamentali di una vera e propria «età tecnologica», capace di incidere sia sulla vita politica sia sulla mentalità della corrispettiva «società tecnologica»; essa stessa, peraltro, non si caratterizza univocamente, ma è determinata – piuttosto – da scelte culturali ed antropologiche di fondo, che vengono a differenziare i suoi percorsi e i suoi possibili sviluppi: qui la ricostruzione di Cotta incontra un punto importante del pensiero di Del Noce, con riguardo al problema dell’ateismo ed alla cosiddetta «irreligione occidentale»: «Non si può dimenticare che la tecnica, come ha esattamente osservato A. del Noce, assume significati profondamente diversi a seconda che sia “inserita in una concezione cristiana e teistica … o in una concezione irreligiosa” [Il problema dell’ateismo, p. 103]».
A questo punto, in un significativo crescendo, Sergio Cotta fa emergere alcuni nodi fondamentali dei pericoli insiti nella sfida tecnologica, a partire dalla crisi delle comunità e dallo sfrenato individualismo, quali avvisaglie di quel «nuovo totalitarismo» già disegnato da Aldous Huxley e su cui si soffermerà con pagine molto importanti proprio Augusto del Noce.
Proprio prendendo «sul serio» la situazione così descritta della società tecnologica, con le sue indubbie possibilità, ambiguità, pericoli e ambivalenza, Cotta si spinge fino a proporre una significativa e argomentata risposta alla sfida; essa muove dalla considerazione fondamentale del fallimento del «pensiero ideologico» (in cui sono i mezzi a legittimare i fini, e non viceversa!) e della necessità di un ritorno convinto all’essere, a partire dalla critica della mera sovranità dell’uomo su se stesso e dal considerare la «situazione tecnologica come problema e non come dato».
Le brillanti considerazioni di Cotta, qui sintetizzate per sommi capi, vengono riprese a poca distanza di tempo da Augusto Del Noce in alcuni saggi de L’epoca della secolarizzazione, pubblicati nel 1970 in una sorta di dialogo a distanza particolarmente attuale e significativo.
Le posizioni, pur diverse, non sono però distanti, ma piuttosto complementari; a proposito delle conclusioni de La sfida tecnologica, Del Noce propone anzitutto una serie articolata di domande aperte sulla natura della civiltà tecnologica e sui compiti dei cattolici, anche al fine di smascherare un «torto comune» assai diffuso nel mondo cattolico stesso (ma non presente in Cotta!): quello di non aver compreso i cambiamenti radicali del mondo di oggi e – disconoscendo i caratteri della modernità – oscillare tra «l’ideale di un’impossibile restaurazione del premoderno e quello della conciliazione con un pensiero rivoluzionario, che è ateo e anticristiano nella sua essenza» .
Per Cotta, piuttosto, si tratta di accettare onestamente alcuni elementi positivi del pensiero moderno, pur volendo evitare con chiarezza ogni tentazione «neomodernista»: qui si apre però una divaricazione con l’impostazione delnociana, in cui si accentua l’importanza dell’elemento storicamente verificabile della soppressione della dimensione religiosa operata nella società tecnologica e del primato dell’azione (fare) a scapito della «contemplazione» dei valori immutabili e dell’ordine ideale, fino a sfociare nella «inscindibilità tra civiltà tecnologica e positivismo».
Inoltre la pretesa «neutralità» della scienza e della tecnica nell’ambito dell’opzione scientista ha portato all’odierno relativismo assoluto e all’individualismo più spinto, quali esiti di una rivoluzione «più radicale di qualsiasi rivoluzione politica».
Lungi dal disprezzare il valore della scienza e delle applicazioni tecnologiche a favore di un benessere possibile (sorte – come osservato anche da Cotta – proprio nell’humus della tradizione religiosa occidentale), Del Noce mette piuttosto in guardia dalle opzioni di fondo compiute dalla mentalità scientista (approfondendo qui le osservazioni di Cotta) ed evidenziando – in sintesi – come le radici della mentalità tecnologica non risiedano di per sé nello sviluppo tecnico, ma piuttosto in una «deviazione religiosa» di stampo millenarista e antimetafisico, con una sorta di cesura storica e di critica radicale alla tradizione ed ai valori da essa provenienti.
Alle concordanti considerazioni dei due Autori sulle pericolose derive totalitarie della società tecnocratica derivanti dal «falso idolo della civiltà tecnologica» si accostano anche significative affermazioni sul valore della politica a favore del bene comune e sulla responsabilità dei cristiani nella sfera pubblica quali attori capaci, con il loro fattivo intervento, «a impedire che la civiltà tecnologica non dia luogo a un’oligarchia tecnocratica».
Negli anni successivi va segnalato l’approfondimento da parte di entrambi delle riflessioni avviate sull’età tecnologica e sugli assetti della società contemporanea, in cui emerge la sempre maggior preoccupazione per le conseguenze distruttive derivanti dall’assolutizzazione ideologica di elementi particolari dell’umana natura in forza del «principio dell’autocostruzione».
Riprendendo molte delle affermazioni precedenti, Cotta insiste sulle «divisioni» dell’uomo contemporaneo (soprattutto dalla natura e dalla sua tradizione) in un momento della storia in cui sembra essere scomparso ogni riferimento alla «verità oggettiva», spesso surrogata da nuovi valori, fra i quali spicca proprio quello della tecnica.
Si collocano in questa stessa linea le ulteriori e acute considerazioni di Del Noce sul «sacrilegio scientifico» e sul suicidio delle rivoluzioni che sfociano in nuove forme di potere particolarmente invasive, impersonali e ultimante totalitarie, spesso nascoste dietro la rassicurante (ma ambigua…) formula della «fine delle ideologie».
Nel complesso, sia Cotta sia Del Noce mostrano quindi non solo di raccogliere la sfida per un’adeguata comprensione dei cambiamenti della modernità (inclusi quelli indotti dalla società tecnologica), ma – senza riproporre luoghi comuni – offrono pure, ciascuno secondo la propria specifica sensibilità e convinzione, spunti per una possibile alternativa alle aporie della stessa e al superamento della sua ideologia, attraverso il recupero nuovo e genuino dei valori eterni e fondamentali . Come conclusione valga, quindi, l’osservazione sintetica dello stesso Augusto Del Noce (del 1980):

Quanto alla società tecnocratica (uso questo termine senza alcuna intenzione deprezzativa della tecnica; ma in quello di una società che sostituisce a suo fondamento la filosofia del fare e la filosofia dell’essere) il suo legame con la filosofia neopositivistica è troppo chiari e dichiarato perché qui occorra insistervi. E dovrei ripetere quel che già scrivevo un quarto di secolo fa, nel 1963, quando il carattere di questa nuova società era ancora incerto. Dicevo allora, è la società che riesce ad eliminare la molla dialettica della rivoluzione col portare al massimo l’alienazione, dissociandola al tempo stesso dalla miseria. Intendendo per alienazione la disumanizzazione reciproca del rapporto di alterità; da ognuno dei soggetti l’altro è sentito come alienus, estraneo, separato, cioè come non unificato ad un comune valore, e perciò come ob-iectum, sia poi questo «posto davanti» valutato come strumento utile o come ostacolo. Contro questo nuovo tipo di alienazione il marxismo non può nulla; e tuttavia questo è il male che corrode la civiltà occidentale.

Anche negli attuali sviluppi della società tecnologica restano perciò preziose le analisi ed i suggerimenti di Cotta e Del Noce allo scopo di recuperare la centralità dell’uomo in tutte le sue dimensioni, a partire da quella trascendente e relazionale, ancorato in una tradizione creativa e aperta alle innovazioni, ma – di esse – non culturalmente succube.

  • APPENDICE

Per un ritorno all’essere (Sergio Cotta, La sfida tecnologica, cit., pp. 129-130).
«L’uomo di oggi, se vuole sottrarsi alla spersonalizzazione derivante dall’involuzione alienante del fare e dell’automatismo dei mezzi, non può non prender distanza dalla propria attività rifiutandosi di riconoscere immediatamente la propria essenza nella mera fabbrilità. Ma, ciò posto, non rifiuta il fare, bensì ricostituisce o ritrova all’interno di esso il momento sapienziale, quale fonte di chiarezza, di significanza e quindi di consapevole stimolo per il fare. Né puro faber, né puro sapiens, egli deve essere integralmente homo sapiens-faber. Ancora una volta, dobbiamo registrare che lo sviluppo richiede, per una sua logica necessità interna, un discendere dal superficiale al profondo, un ritorno dall’apparire all’essere.
Una ulteriore conferma di questa richiesta interna dello sviluppo ci sarà offerta se lo conisderiamo sotto un altro aspetto. Lo sviluppo, si è visto, si affida alla previsione, tipica espressione del pensiero calcolante proiettato verso il futuro. Ebbene, come ci ha ricordato Whitehead, la previsione (foresight) non si esaurisce nella formulazione delle leggi dello sviluppo, bensì richiede la determinazione dei fatti rilevanti sulla base dei quali è possibile elaborare quelle leggi. Perciò la previsione non può essere validamente esercitata senza quella “comprensione” (understanding) dalla quale emerge appunto la rilevanza dei fatti. Ancora una volta ci troviamo rimandati alla coscienza introspettiva (insight): “Foresight is the product of Insight”.
Il futuro esige dunque il ritorno all’interiorità per poter essere individuato come futuro significante e comprensibile (e quindi progettabile) e non subíto passivamente come semplice ignoto. Ma il ricorso all’interiorità si giustifica in quanto questa non si disperda nella totale labilità della storia, ma si riveli custode del permanente. Il futuro, come ha ben visto Calogero, lungi dal distruggere, conferma e autentica quell’eterno nel quale passato presente e futuro sono fusi in una immobile dinamica, sempre presente ad ogni istante che passa.
Più penetriamo nel profondo del congegno dello sviluppo tecnologico sottraendoci al frastuono delle macchine funzionanti e alla dispersione delle attività e degli innumerevoli messaggi esteriori, e più puro e forte risuona l’appello dell’Essere.
Non pretendo di aver così tracciato io il modello umano che, trascendendo l’universo tecnologico, gli è tuttavia immanente come fondamento, fine e criterio del suo dinamico esistere. Sarebbe una pretesa di imperdonabile presunzione. Credo tuttavia sia lecito affermare, dopo le osservazioni sin qui svolte, che per elaborare tale modello occorre partire dal riconoscimento della struttura duale dell’uomo (una dualità coerente e non confliggente): da un lato imperfezione fallibilità mortalità, dall’altro apertura ricerca attesa dell’Essere. Da tale riconoscimento scaturiscono la contemplazione attiva, la saggezza valutante, la lungimirante umiltà, la responsabile audacia che lo sviluppo richiede e che l’uomo acquista quando si pone in ascolto dell’appello dell’Essere».

Oltre la società tecnologica (Augusto Del Noce, L’epoca della secolarizzazione, cit., pp. 195-197).
«Ma passiamo ora soprattutto alla considerazione della società o civiltà tecnologica vista come risposta occidentale al comunismo; stimolante e importante il recente libro dell’amico Cotta sulla Sfida tecnologica. Dirò che non mi pare che le mie idee siano in contraddizione con le sue, ma che piuttosto siano complementari. Particolarmente io concordo con lui sul punto che si tratta di essere oltre, e non contro la scienza e lo sviluppo tecnologico, e che per questo oltrepassamento si impone il ricorso al pensiero rivelativo che le offre quello che veramente è: l’essere, l’assoluto, il divino. Del resto avevo cominciato con la citazione di quel passo di Rosmini che mi pare proprio estremamente importante per definire nel suo ordine l’attività tecnica.
Si tratta qui di una concordia non sterile perché una certa letteratura contro la “società dei consumi”, dei cui benefici si vuol d’altra parte abbondantemente fruire, sembra fatta proprio per servire da blasone a una nuova borghesia vorace di tutto, anche delle produzioni letterarie che la negano. Importa però qui sottolineare il punto del possibile disaccordo: sta nella valutazione di quel tipo di civiltà che si è formata in Occidente nell’ultimo ventennio, e che assai spesso viene designata come tecnologica; e anche la questione del nome ha rilievo.
Cotta distingue al riguardo tre serie omogenee, di cui la prima denomina questo mondo nuovo come società opulenta, consumistica, o società del benessere; la seconda come società riformistica e social-democratica; la terza come civiltà della tecnica, o civiltà industriale, o civiltà atomica, e pensa che siano esatti i termini della terza serie.
Tuttavia rispetto alla società oggi presente, e che del resto non è ancora completamente attuata, e che, per di più, attraversa oggi una crisi, penso che debba piuttosto essere definita, secondo una precisa frase di Felice Balbo, attraverso la sostituzione dell’dea di “benessere”, ossia del massimo di soddisfacimento degli appetiti, a quello di “vita buona”: onde ai termini di vero e di falso si sostituiscono quelli di “importante” e di “insignificante”, di “originale” e di “banale”, di “eretico” e di “dogmatico”, di “sincero” e di “retorico”, di “progressivo” e di “reazionario”. E una tale connotazione non mi sembra denunziare una prospettiva moralistica, ma invece proporre la definizione di una civiltà secondo l’atteggiamento esistenziale che le è proprio, e che implica necessariamente una corrispondente posizione filosofica. Ossia, traducendo in termini miei quelli di Balbo: non è per sé il progresso della tecnica ad avere generato un tale tipo di civiltà, ma è invece l’eclissi del sacro, che si spiega per ragioni ideali, filosofiche e morali, ad aver fatto sì che ogni attività umana sia stata vista in termini dell’agonismo uomo-natura.
Consideriamo infatti la caduta di quell’idea di un ordine normativo di valori che era stato affermato dal pensiero morale tradizionale, e che in qualche modo voleva essere conservato anche dalla morale laica dell’ottocento; consideriamo altresì la caduta dell’aspetto religioso-rivoluzionario del marxismo. L’unico valore resterà l’incremento della vita sensibile, insomma il benessere, ed ogni attività umana, e la religione stessa, sarà vista sotto il riguardo di strumento vitalizzante. […].
Se ci poniamo da questo punto di vista dell’atteggiamento esistenziale implicante la filosofia, direi che la formazione della società del benessere non deve essere messa in rapporto, almeno in primo luogo, col progresso dell’attività tecnologica, ma con un’idea dell’uomo diametralmente opposta e inconciliabile a quella che sta a fondamento non soltanto del pensiero cristiano e di quello greco, ma di ogni possibile religione».

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