Per una critica del soggettivismo alla luce della filosofia giuridica di Sergio Cotta, di Barbara Troncarelli

  • 1. Critica del «soggetto assoluto» e significato filosofico del diritto.

 

Si intende qui proporre, entro la tematizzazione di una razionalità «metaformale» alternativa al formalismogiuridico e al funzionalismo prevalsi nella globalizzazione «sistemica» del postmoderno , alcuni spunti di riflessione sul diritto e sul suo rapporto con la soggettività suscitati dal pensiero di Sergio Cotta.Applicatosi a un notevole tentativo filosofico consistente nel coniugare la propria teoria metafisica di una «ontofenomenologia» del diritto nella vita umana con un costante richiamo alla verità della concreta e quotidiana esistenza, Cotta è riuscito a non perdere di vista né la dimensione del soggetto come singolarità, né la sua dimensione di universalità. Ciò è stato possibile mediante il richiamo alla «giuridicità intrinseca» dell’esistenza, incompatibile con ambedue gli estremi costituiti, per un verso, da un’assolutizzazione della soggettività in chiave di esaltazione del singolo e di radicale soggettivismo «antigiuridista» , per l’altro, da una enfatizzazione dell’oggettività nei termini di un universalismo giusnaturalistico astratto e disindividualizzato.
Occorre muovere dall’assunto che nella contemporaneità, come in passato, tutto continua a vertere intorno alla concezione del soggetto, anche in riferimento alla dilemmaticità di concepirlo in base alla sua identità di essere uomo oppure secondo l’attribuzione storicamente e socialmente determinata del suo essere cittadino. È questo un tema centrale, su cui la prospettiva cottiana si contraddistingue non solo per aver preso le distanze dall’hegelismo in quanto la soggettività umana verrebbe in esso assorbita nella dimensione della cittadinanza e l’individualità nella comunità statuale , ma per aver appunto sostenuto una visione del soggetto come realtà empirico-esistenziale e ontologica al tempo stesso, in cui non c’è spazio per alcuna radicalizzazione, in senso né esistenzialistico né idealistico, né soggettivistico né desoggettivato. Piuttosto, si può constatare in Cotta una sorta di fedeltà filosofica al mondo reale dell’uomo e alla sua vita di relazione, senza alcuna astrazione speculativa, ma senza nemmeno incorrere in alcuna forma di fattualismo o prassismo.
Riguardo all’hegelismo, il cittadino che realizza dialetticamente la propria soggettività nell’appartenenza al mondo storico-statuale rappresenta in Hegel una idea metaempirica della ragione che, pur mirando a ricomprendere in sé l’effettività della vita umana, è molto diversa da quanto caratterizza la soggettività cottianamente intesa, mai deprivata della sua dimensione esistenziale ed esperienziale. L’eterogeneità di questa formulazione idealistica del soggetto rispetto al pensiero cottiano risiede sia nel divario in essa intercorrente tra essenza ed esistenza, sia nel suo carattere dialettico, derivante dalle forti contraddizioni dinamiche sostanzianti la logica storicistica di Hegel, dalle quali Cotta si allontana nell’intento di reperire della realtà, storica e non, più che altro gli elementi di continuità e di armonia. Di qui, la sostanziale rielaborazione in Cotta di ogni forma di storicismo nei termini, da lui ritenuti più oggettivi e autentici, di una storicità in quanto esprimente, essa sì, le «costanti e verità durature» della storia, al contrario dello storicismo stesso. Infatti, «scrutato con spregiudicata attenzione, lo storicismo si palesa quale una falsificante rappresentazione unilaterale della storia» . Questo richiamo storico, e non già storicistico, al corso degli eventi ha considerevoli ricadute sull’intendimento del soggetto, che Cotta cerca così di preservare dalla relativizzazione comportata da uno storicismo, secondo lui, distruttivo dell’universalità metastorica della natura dell’uomo nonché della sua particolare individualità.
Ma, a parte il fatto che rimane ancora da dimostrare la presunta inconciliabilità dello storicismo dialettico di Hegel con una percezione onnicomprensiva e non «unilaterale» della storia come orizzonte dell’essere oltre che del divenire, è significativo che il pensiero di Cotta presenti comunque un’assonanza, seppur indichiarata, con l’hegelismo, non solo per la tendenza a un inquadramento storico-ricostruttivo nella trattazione dei maggiori problemi filosofici, ma anche perché sussiste nell’approccio cottiano una sottesa quanto emblematica dialettica tra molteplici polarità, quali infinito e finito, forza e violenza, ontologico ed esistente, come pure tra diritto naturale e diritto positivo. Ciò non esclude e anzi conferma che, per Cotta, occorra superare l’opposizione «tra positività e naturalità», in direzione di «un concetto unitario» , ravvisabile nella concretezza del concetto di «diritto naturale vigente» come «vivente realtà del diritto» . Ma in tale unità permane pur sempre la differenza insita tra la positività dell’ordinamento giuridico e la naturalità del diritto-categoria. Per Cotta, al pari di Hegel, anche per il quale il diritto è naturale, se non altro nel senso «che si determina mediante la natura della cosa, cioè il concetto» , il diritto non è un fenomeno esclusivamente positivo, e così, prendendo le distanze anche da Kelsen , Cotta rifiuta l’artificialità del diritto inteso soltanto nella sua validità formale. È dunque in questa complessa ricerca di un superamento, senza negazione, della contingenza e, in particolare, della vigenza innaturale del diritto quando esso sia solo formalisticamente tale, che si colloca l’essenziale riferimento cottiano al soggetto, permeato, analogamente al diritto, di una polivalenza e problematicità più profonda di quanto possa sembrare.
Venuto evidentemente in luce nel fondamentale concetto di «diritto naturale vigente» un importante nesso di «unità nella differenza» , è in Cotta rinvenibile anche la tendenza a evitare tra vari altri termini o elementi diversi, se non contrapposti, l’elisione adialettica di ciascuno di essi da parte dell’altro. Non sorprende perciò che Cotta, nella sua prospettiva lontana da ogni estremizzazione, per cui particolarità e totalità, empirismo e universalismo, sono distinti eppur uniti e compresenti, consideri inaccettabile quella radicale visione della soggettività che nel postmoderno ha trovato una crescente affermazione in chiave di un «soggetto assoluto» antitetico alla relazionalità dell’individuo fondata sulla «giuridicità intrinseca» della sua esistenza. Per Cotta l’uomo è, proprio perché soggetto giuridico, un individuo ontologicamente in relazione con l’altro, insieme al quale è parte di una comunità sociale.
Dissentendo da ogni teoria orientata verso un soggetto legibus solutus e, più a monte, da ogni tentazione antigiuridista rivolta a rifiutare l’idea stessa della regola, avente la sua massima concretizzazione nel sistema del diritto, Cotta si applica a distinguere la propria concezione dell’individuo non solo da un soggetto autoreferenziale di ascendenza nietzscheana, ma anche dalla persona quale pura espressione assiologica, nonché dal singolo kierkegaardiano. Sebbene sia questa una singolarità che «non si oppone affatto all’individuo» , ovvero alla dimensione di un soggetto effettivo quanto ontologicamente conformato, in essa Cotta scorge la negativa mutazione di un’antropologia filosofica esistenziale in direzione esistenzialistica. Riguardo poi alla presunta «supremazia della persona sull’individuo» sostenuta da vari pensatori di matrice spiritualistica, Cotta intravede un’altra posizione da cui doversi allontanare, dato che il personalismo «non risolve affatto il problema giuridico» . Si tratta, per Cotta, di un problema che si può affrontare adeguatamente solo ricercando il radicamento del diritto-categoria non sul piano valoriale della persona, ma nella struttura ontoesistenziale dell’individuo, essendo per lui basilare comprendere e riscoprire non tanto il valore del diritto, quanto il suo senso e fondamento ontologico nella vita dell’uomo.
Ma la questione cruciale costituita dall’intendimento del soggetto, oscillante nella contemporaneità tra le diverse sponde di un incombente soggettivismo, di una più equilibrata soggettività, e di un crescente rischio di desoggettivazione sistemica derivante dai meccanismi funzionalistici prevalsi nella società globale, in Cotta risulta per molti aspetti dipendente dalla questione, per lui ancor più cruciale, del diritto e della sua ragion d’essere a livello individuale e collettivo. In questo senso, sembra non tanto che il diritto sia ciò che è, ovvero un’attività di relazione, perché esercitato su e da esseri umani in necessario rapporto reciproco di intersoggettività, quanto che il soggetto sia realmente se stesso, cioè relazionale e non «assoluto» , proprio in virtù del diritto nel suo costitutivo ruolo di conditio sine qua non e di garanzia della vita associata. Vale a dire che il soggetto umano è un essere in relazione perché è radicato nella dimensione originaria e intrinsecamente antropologica del diritto, finalizzata a rendere possibile la coesistenza umana e sociale.
Il principale intento di Cotta risiede, quindi, nel restituire al diritto il suo significato determinante più che nel ribadire la fondamentalità del soggetto rispetto al diritto stesso, mirando così a risolvere quel problema nodale del rapporto tra individuo e ordine giuridico che anche Capograssi ha cercato di affrontare, ma senza che il suo tentativo risulti propriamente «riuscito» . Il confronto critico intercorso con il pensiero di Capograssi attesta che la filosofia di Cotta è protesa non solo alla riscoperta antropocentrica dell’individuo e del suo rapporto con il fenomeno giuridico, ma anche e soprattutto all’idea giuricentrica che il diritto è fondativo dell’esperienza umana, ed è in grado di salvare l’agente non meno dell’azione dell’uomo , diversamente da quanto affermato da Capograssi, secondo cui il diritto non arriverebbe a tanto, perché «mentre l’imperativo giuridico salva l’azione», soltanto «l’imperativo morale salva l’agente» . La novità del rapporto tra soggettività ed esperienza giuridica delineato da Cotta consiste nel muovere non tanto dall’uomo per arrivare al diritto come mezzo necessario di tutela di ogni sua attività pratica, quanto dal diritto stesso come salvifica dimensione dell’uomo, senza la quale non ne sarebbe né pensabile né vivibile l’esistenza, cioè non sarebbe possibile alcuna pacifica e costruttiva coesistenza sociale, a cui si sostituirebbe distruzione, violenza e disumanità. Si tratta, a ben vedere, di una prospettiva ontologicamente realistica, che induce a rinvenire nell’oggettività del diritto il fondamento della soggettività umana. Entro una reciproca implicazione tra individuo e fenomeno giuridico, il diritto dipende sì dalla struttura relazionale dell’uomo, ma la relazionalità umana dipende, ancor più, dalla normatività del diritto.
Quando Cotta scrive che «il diritto-categoria è una proprietà della natura umana» , sostiene più o meno espressamente l’assunto che sussiste una fondamentale interrelazione, tale per cui il diritto presuppone sì il soggetto umano, ma tale soggettività presuppone il diritto in quanto conditio sine qua non della sua stessa possibilità di esistere. Ciò va non contro, ma oltre l’idea che l’esperienza giuridica appartiene intrinsecamente alla dimensione antropologica, in quanto non basta sottolineare il significato umano di tale esperienza, ma occorre rilevare, nell’ambito di questo legame di reciproca implicazione, una sorta di anteriorità logica del diritto stesso come prima espressione di quella doverosità, razionale e non meramente naturale, a cui l’uomo è strutturalmente chiamato. Non a caso, Cotta cita questo passo di Hegel: «l’uomo non è per natura quello che deve essere. L’animale è per natura quello che deve essere» . Il dovere, nell’uomo, ha una valenza totalistica e metafattuale nella misura in cui è non solo un punto di arrivo, ma anche il punto di partenza dal quale muovere per divenire realmente uomo. Vale a dire che la natura dell’uomo è riconducibile, essenzialmente, alla possibilità di diventare ciò che deve essere, alla «possibilità di diventare effettivamente spirito» , quale paradigmatica manifestazione di una libertà umana che non è mera possibilità dell’agire, ma possibilità del dovere, anzi del «dovere-di-essere» .
Il dovere rappresenta sia un punto di partenza in direzione dell’essere, cioè del compimento di quella facoltà esclusivamente umana che consiste nell’arduo percorso dalla natura allo spirito, sia un punto di arrivo in quanto esso stesso oggetto e obiettivo di un altrettanto arduo percorso, di un continuo sforzo attestante il limite, anzi l’imperfezione dell’uomo e, al tempo stesso, la sua libertà. Egli deve trascendere se stesso, la sua naturalità immediata, per essere realmente un uomo, e cercando di adempiere a tale dovere, si rende libero eppur conforme alla sua peculiare naturalità razionale. Come sottolinea Cotta, occorre «distinguere la natura dell’uomo, cui pertiene l’obbligatorietà del dovere, dalla natura animale sottoposta al determinismo costringente della necessità» . L’osservanza di tale doverosità è per l’uomo, paradossalmente, una espressione di libertà, è una obbligatorietà equivalente a una possibilità, appunto alla possibilità del dovere, intesa come possibilità di rendersi libero e davvero umano. Solo muovendo dal dovere normativo, etico-giuridico, l’uomo si fa propriamente tale, cioè realizza se stesso come un soggetto che, mettendo in atto la possibilità del dovere, anzi del «dovere-di-essere» ciò che è, trasforma il dovere stesso da mero dato di necessità deterministica, in un’affermazione di diritto e libertà, per sé e per gli altri.
È quindi il diritto come dovere il vero prius, il punto di partenza che evoca il fondamento costituito da quell’orizzonte fuori del quale non è possibile realizzare alcuna esperienza propriamente umana, dato che esso è il necessario presupposto, e insieme il risultato, dell’essere stesso come coesistere insieme dei soggetti umani, a prescindere dalle particolari contingenze di socialità o isolamento umanamente esperite. Il diritto rappresenta un esempio dialettico di effettività e idealità al tempo stesso, esprimendo la dimensione che introduce al senso integrale dell’esistenza umana, che è tale solo se razionale, cioè ideale eppur effettiva. In questa conciliazione di opposti il diritto tende al suo compimento, ma senza che tale unità comporti la negazione della loro costitutiva differenza. Non c’è realtà, nemmeno quella del diritto, che possa edificarsi su una incomponibile scissione tra i differenti ambiti di effettività e idealità, essere e dover essere, in quanto una effettività priva di significati metaempirici, analogamente a una idealità priva di spinte attuative, non sarebbe in grado di avere alcuna concretezza. Se così fosse, si assisterebbe infatti all’assolutizzazione di un estremo rispetto all’altro, e ciascuno dei due versanti, assolutizzati quanto dimidiati, rimarrebbero solo una mera astrazione, irreale e irrelata.
Essere e dover essere, sebbene uniti, permangono nondimeno differenti tra loro, e non fungibili né confondibili, in particolar modo se riferiti a una realtà complessa quale il diritto, il cui essere non appare mai pienamente compiuto, né pienamente unito e convergente con il proprio dover essere, cioè con una doverosità normativa che, andando oltre la visione ontofenomenologica di Cotta, costituisce il fondamentale obiettivo deontologico del diritto stesso, peraltro mai del tutto raggiunto, da realizzare in termini di giustizia. Nel quadro di un nesso dialettico di «unità nella differenza» , in Cotta il diritto riacquista, comunque, il suo originario significato sostanziale, ed è concepito a un livello ulteriore rispetto al piano strumentale, non limitandosi più a essere una sorta di mezzo artificiale consistente in meccanismi positivistici e formalistico-procedurali preposti a produrre, o a imporre, atti giuridici di volontà decisionale validi indipendentemente dal piano contenutistico. Senza nulla togliere alla logica formale, imprescindibile anche nel diritto, dove essa assolve a un indispensabile ruolo di formulazione delle regole secondo una logica intellettualistica rivolta tendenzialmente a stabilire distinzioni binarie, nella fattispecie tra lecito e illecito, o valido e invalido, la lezione cottiana induce a prendere atto che l’ordinamento giuridico non è assimilabile alla fattualità dell’insieme di norme in cui pur inevitabilmente si articola. Essendo espressione, altrettanto inevitabilmente, dell’essere e del dovere, ovvero del dover essere, ogni realtà giuridico-ordinamentale consiste anche in princìpi e valori forniti di una determinata sostanza e significatività, non negoziabile né derogabile, a garanzia di quei doveri costitutivi di relazionalità intersoggettiva evocabili nei termini di una «logica non formale, bensì esistenziale» .
È questa una logica sostanziale sottesa a tutta l’attività normativa: «l’essere della giuridicità trae la pienezza del proprio senso […] dall’essere dell’uomo e dai suoi bisogni esistenziali» , che richiamano fondamentali esigenze contenutistico-sostanziali di uguaglianza e giustizia. Se di strumento si volesse, in ogni caso, parlare in riferimento al diritto, sarebbe da chiarire che esso ha un carattere strumentale non estrinsecamente attribuibile, ma costitutivo e organico alla relazionalità umana, ossia ha il carattere di uno «strumento dell’esperienza pratica […] e non dell’artificio fabbrile» . Si tratta perciò di uno specialissimo strumento, riconducibile al piano cognitivo, nonché pratico-operativo, in cui sì formulare norme positive, ma anche e soprattutto affermare princìpi e valori sostanzianti la razionalità del diritto stesso e delle sue regole. I princìpi rappresentano la struttura portante del diritto, ed esprimono una legalità di ordine superiore che implica e ricomprende in sé le norme o regole propriamente tali, costituendo di esse la ratio sottesa alla positività formale del diritto stesso. Sono princìpi giuridici esprimenti il fondamento e il fine delle norme, che presuppongono e oltrepassano in modo da configurare quel livello originario eppur ulteriore rispetto al diritto, unito e differente da esso, meglio definibile come ambito della giuridicità.
Il primo di tali princìpi, argomentati a livello giusfilosofico, concerne il rispetto incondizionato dell’identità individuale, la sua intangibilità e integrità, mai strumentalizzabile da alcuno, perché la vita e dignità umana costituiscono kantianamente un fine inappropriabile. Di qui, quel principio generale del diritto secondo cui, per Cotta, «si deve rispettare il suum di ciascuno», dove il «suum» rappresenta l’«egoità» di ogni uomo nella sua inalienabilità , da tutelare con norme adeguate. C’è poi il secondo principio, definito da Cotta come «principio di uguaglianza» , violabile sia da una divisiva inuguaglianza sia da una omologante indifferenza. Tale principio comporta non solo una uguaglianza formale «davanti alla legge ma, prima ancora, è condizione della giuridicità della legge stessa» , perché una disposizione normativa che contravvenisse nei suoi contenuti prescrittivi alla uguaglianza sostanziale intersoggettiva, fondata sul concetto di originaria «parità ontologica» , sarebbe una espressione legalistica non realmente fornita di giuridicità. Il compimento di un simile «diritto per princìpi» avviene poi, lungo la linea indicata da Cotta, con la formulazione del «principio di libertà» , ossia di quel terzo principio che tende a tutelare ciascuno come ugualmente libero e soggetto di diritto, nessuno essendo solo soggetto al diritto o mero destinatario di norme.
Il quadro concettuale che ne consegue, imperniato su quegli elementi strutturali del diritto costituiti dai suoi princìpi portanti, risulta tutt’altro che astrattamente teorico, ma congruo alle crescenti esigenze di una visione integrata e integrale della società odierna, caratterizzata da un contesto multiculturale e multietnico che ha bisogno di una riscoperta del diritto, e del suo ruolo decisivo nella vita individuale e sociale dell’uomo, per rendere tale contesto meno esposto al rischio di una globalizzazione fittizia, cioè solo economico-utilitaria, e non anche, almeno tendenzialmente, giuridica. È infatti la dimensione costitutivamente aperta del diritto che può ridare al mondo sociale unità e coesione. Si tratta di un legame intersoggettivo che è un essere e un dover essere al tempo stesso, basato su pochi, ma essenziali princìpi e valori finalizzati al rispetto della soggettività propria e altrui, in alternativa a un sempre maggiore antagonismo concorrenziale proteso alla esclusiva difesa economicistica di interessi particolari e, di fatto, a una conflittualità crescente tra individui e tra popoli. Il diritto può riunificare o, quantomeno, riavvicinare una umanità lacerata da inaccettabili divari, economici e sociali oltre che tecnologico-digitali, riscontrabili a dispetto, anzi proprio a seguito, delle dinamiche di una globalizzazione già notevolmente estesa eppur circoscritta a una pervasiva quanto angusta economia di mercato. Al contrario delle chiusure insite non solo nel protezionismo economico-sociale tuttora ricorrente, ma anche nel particolarismo delle società liberiste proteso a forme di autoregolazione o deregolazione dei mercati fruibili in prevalenza da pochi soggetti forti, e delle non minori chiusure comportate dai meccanismi identitari propri dell’attività politica a livello internazionale non meno che nazionale, «l’attività giuridica, in quanto è un agire secondo regola, fa sì che colui il quale si conforma alla regola entri come gli altri in un rapporto di associabilità aperta, diffusiva, in modo potenzialmente illimitato» .
La potenzialità del diritto di estendersi oltre i propri limiti di ordinamento giuridico concernente uno specifico Stato nazionale differenzia il diritto stesso, inteso come attività a tutela di ognuno in quanto essere umano prima ancora che in quanto cittadino, sia dalla politica come attività di potere all’interno di ogni determinata comunità di cui è espressione, sia dalla economia, che non può essere se non un’attività di scambio rivolta alla difesa dell’utile, massimizzabile ma non universalizzabile. Ciò non toglie che il diritto sia unito e in linea di continuità con tutte le dimensioni della realtà umana, non solo con le suddette dimensioni istituzionali della politica e dell’economia da cui è pur differente, ma anche e soprattutto con la dimensione della moralità, da cui è altrettanto differente, ma non separabile. Se fosse altrimenti, se tra diritto e morale non sussistesse giuspositivisticamente alcun legame, ne deriverebbe una grave dissociazione della giustizia giuridica dalla giustizia morale, con una conseguente autoreferenzialità del diritto assunto nel suo esclusivo formalismo procedurale, atta a segnare la negazione teoretica e pratica del diritto stesso.
Ciò è asseribile non tanto perché «la considerazione delle forme nel ragionamento del giurista e il loro rispetto nella prassi da parte dei destinatari del diritto sono cose preziose per tutti, ma non costituiscono l’ultimo e più profondo stadio della comprensione del diritto» , quanto perché le forme e le procedure legali indipendenti dai contenuti, cioè tali per cui un contenuto sia ritenuto equivalente o fungibile rispetto a un qualsiasi altro, non possono avere alcun senso se non quello, allarmante, di essere contenitori vuoti, significanti senza significati, mezzi senza fini non solo morali, ma in definitiva nemmeno giuridici. Se così intese e assolutizzate, si tratta infatti di forme e procedure suscettibili, loro malgrado, di divenire vettori di un volontarismo destinato ad autodissolversi in veri e propri atti arbitrari, tutt’altro che congrui alla «purezza» della scienza giuridica. Muovendo da una forma assolutizzata, cioè da un contenitore che in sé prescinda dalla sostanza o dal contenuto, si può arrivare fino alla negazione della forma stessa e a un esito totalmente nichilistico, in cui la negazione di ogni contenuto sostanziale comporta la negazione di ogni dimensione formale, poiché una forma scissa dal contenuto, che come tale si presti indifferentemente a veicolare tutto, rischia di sfociare nella negazione di se stessa, o quantomeno nella negazione di sé in quanto entità caratterizzata da un’asettica, pura e non cognitivistica neutralità, rendendosi strumentale a qualsiasi contenuto. Muovendo invece dalla sostanza, viene necessariamente presupposta e affermata anche la forma in cui contenere il contenuto stesso, perché il contenuto implica di per sé una determinata forma che lo contenga, al contrario di un contenitore senza contenuto, o di una forma senza sostanza, che tende a perdere la propria ragion d’essere, e a divenire una forma spuria anziché pura, atta a contenere tutto e nulla. Ne consegue che il diritto, se inteso nella sua valenza non soltanto formale, ma anche etico-sostanziale, oltrepassa sì il diritto formalmente inteso come positivo e vigente, ma senza mai negarlo, poiché nel diritto la sostanza implica pur sempre una forma giuridica che la veicoli.
Anche tra diritti e doveri, o tra pretese e obblighi, intercorre un analogo nesso di implicazione unilaterale e non reciproca, nel senso che, come nel diritto la sostanza implica la forma ma non viceversa, del pari i doveri implicano i diritti, ossia il diritto inteso come «obbligo» ricomprende in sé il diritto inteso come spettanza da rispettare o come «pretesa» , ma non necessariamente è vero il contrario. Ciò è la ragione di fondo per cui i diritti umani, intesi per lo più in termini di pretese individuali, sono stati rivendicati e dichiarati come irrinunciabili, eppure sono rimasti ancora poco se non affatto realizzati . In altri termini, non basta muovere dai diritti per affermare i corrispettivi doveri. I diritti vengono, infatti, concepiti prevalentemente come formulazioni giuridico-normative valide e cogenti, ma al tempo stesso astratte e desostanzializzate nel risultare espressione non tanto di relativi obblighi da osservare, quanto di pretese pur legittime da esigere. Mentre i doveri umani, in quanto tali valevoli per tutti, ricomprendono in sé anche i diritti, poiché ciascuno ha diritto di ricevere dagli altri il medesimo rispetto che è tenuto a corrispondere loro, i diritti valgono anch’essi per tutti, ma pochi hanno la capacità di farli valere, cosicché, stando alla logica soggettivistica dei diritti individuali e al concetto di diritto come pretesa, finiscono per essere spesso ignorati proprio i diritti più vulnerabili e quindi più importanti, quelli dei soggetti più deboli. Solo di rado si arriva a comprendere che non è sostenibile relegare i doveri all’ambito extragiuridico della morale e limitarsi all’esercizio o alla rivendicazione dei diritti individuali anteponendoli ai doveri sociali di tutti e di ciascuno. Né è sostenibile la sottesa convinzione del presunto carattere più specificamente giuridico del divieto come astensione da un illecito, che non il concetto del dovere di una buona condotta. Si arriva così a privilegiare i diritti rispetto ai doveri, le pretese rispetto agli obblighi, mentre il diritto stesso viene sempre più percepito come un insieme di spettanze tendenti a una complementare attribuzione di diritti soggettivi da una parte, e di doveri altrui di rispettarli dall’altra, eludendo la primarietà e anteriorità, logica non meno che etica, di una sostanziale assunzione di responsabilità mediante la reciproca osservanza di obblighi, ugualmente vincolanti per tutti.
Questa scarsa o assente reciprocità e specularità tra l’io e l’altro appare ancor più evidente se si consideri che la logica del mio, sia essa riferita ai miei interessi economici o ai miei diritti legali, prescinde non solo dalla logica oblativa del tuo, ma anche dalla logica sociale del nostro, potendo sussistere un homo juridicus del tutto autoreferenziale, che muova unicamente da se stesso e ritenga tutt’al più che i diritti dell’uomo siano una somma di diritti individuali. Si tratta del solipsismo giuridico descritto da Croce: «in verità, gli altri in quanto individui non hanno nessun diritto che non abbia anch’io, in quanto individuo: io sono un altro per l’altro e l’altro è un io per sé» . Se ne ricava una prospettiva individualistica del diritto e del suo ruolo ben diversa da ogni altra fondata su quella logica partecipativa del nostro che, pur non essendo altruistica come la logica disinteressata ed etico-religiosa del tuo, muove da un assunto non esclusivamente soggettivo per ricomprendervi al suo interno anche il proprio sé. Ebbene, mentre alla logica del mio corrisponde il diritto inteso come pretesa nonché l’idea dei diritti come spettanze individuali, alla logica del nostro è riconducibile il diritto come obbligo nonché l’idea dei doveri sociali, di tutti e di ciascuno, assunti come via maestra per realizzare in concreto i diritti individuali stessi. Infatti, mentre l’affermazione del mio diritto, almeno di fatto, non implica necessariamente il riconoscimento del medesimo diritto dell’altro, ma piuttosto il suo dovere di rispettare il mio, invece il nostro dovere di rispettare ciascuno il diritto dell’altro implica necessariamente il mio diritto di attendermi da ogni altro l’osservanza dei miei analoghi doveri di rispetto nei suoi confronti.
Non è un caso che l’ambito dei diritti, come delineatosi nel tempo anche per stemperare il più possibile il loro significato più o meno soggettivistico, venga a estrinsecarsi soprattutto sul piano enunciativo, traducendosi spesso in formulazioni giuridiche astratte sulle legittime prerogative dell’essere umano. Al contrario, l’ambito dei doveri induce sempre ciascun uomo a impegnarsi sul piano fattivo per gli altri oltre che per se stesso, e riguarda un’attuazione concreta dei rispettivi diritti che esige l’osservanza non tanto di generici divieti di interferenza con le prerogative altrui, quanto di precisi obblighi di azione, senza l’adempimento dei quali i diritti umani sono destinati a rimanere oggetto di dichiarazioni programmatiche sì importanti e autorevoli, ma senza alcuna effettività giuridica.

  • 2. La concretezza dell’«universalità empirica» del diritto.

Il diritto è davvero tale, cioè diritto non puramente formale, né diritto antiformale altrettanto riduttivo del diritto formalistico, solo se esso è, in modo per certi aspetti paradossale, altro da sé, vale a dire se è dovere, e quindi se assolve al suo ruolo realizzativo di quegli obblighi normativi, etico-giuridici, che sostanziano in gran parte il suo contenuto. Non che diritto e morale siano una medesima manifestazione della realtà umana, ma è pur vero che il diritto non può prescindere dall’ambito morale, di cui ha il compito di realizzare inderogabili imperativi, rilevanti socialmente oltre che individualmente. Anche in considerazione di ciò, il diritto come pretesa risulta insufficiente a rendere conto della dimensione sociale del diritto, il quale non può limitarsi a pretendere giustizia, affidando la giustizia stessa alle aleatorie dinamiche volontaristiche delle aspettative e delle attività dei singoli, ma deve realizzarla. Di qui, l’unità nella distinzione intercorrente tra diritto e giustizia, nonché tra diritto e morale, dato che ogni processo di realizzazione implica uno scarto, o differenza, tra realizzante e realizzato.
Se il diritto non realizza o concretizza socialmente la morale, esso perde la qualità intrinseca del realizzante, cioè del diritto stesso, che per conservare la propria inseità giuridica è chiamato a oltrepassare l’ambito della mera aspettativa unilaterale o pretesa individuale, seppur legittima, di giustizia, per applicarsi bilateralmente a realizzarla come dovere del rispetto da parte degli altri verso ciascuno di noi e rispetto del dovere da parte di ciascuno di noi verso gli altri. Così facendo, il diritto realizza la morale o, quantomeno, tende a realizzarla in termini di etica (ethos) o costumi sociali, in modo tale che essa non resti una questione solo privata, entro un processo di realizzazione, o concretizzazione, in cui il dover essere dei princìpi normativi assolve a un ruolo essenziale, ancor più importante dell’essere dei valori. Si tratta di una doverosità il cui senso trapassa dal piano individualmente morale al piano socialmente etico, ovvero dalla moralità alla eticità, dalla ristretta sfera dell’individuo alla più ampia dimensione della società. E ciò può avvenire proprio per mezzo del diritto come dovere, cioè di un diritto non più inteso solo come aspettativa o pretesa individuale di giustizia, ma come mezzo di realizzazione della giustizia stessa a livello sociale oltre che individuale. Dove realizzare significa rendere reale la giustizia, in quanto non solo voluta e pretesa da ciascuno per sé, ma compresa e dovuta da tutti per tutti.
Lungo questa prospettiva, appare notevole l’importanza assunta in Cotta dalla categoria del diritto, e il carattere particolarmente innovativo della sua concezione, speculativa e realistica al tempo stesso. Si tratta di una concezione filosofica in cui il diritto viene sottratto a quel ruolo subalterno comportato nella contemporaneità dal predominio dell’economia, nonché da un diffuso relativismo etico. Peraltro entrambe, cioè economia ed etica, non essendo ascrivibili unicamente alla discrezionalità soggettiva, come invece si ritiene facendo riferimento alla iniziativa individuale per quanto riguarda la prima, e all’etica della coscienza per la seconda, risultano anch’esse prive di qualsiasi consistenza socialmente positiva se demandate al mero arbitrio della volontà individuale e alle capacità autoregolative dei singoli senza edificarsi sulla base di una oggettiva relazionalità, in primis giuridica, fondata su dati della ragione teoretica non meno che pratica. L’individuo stesso e la sua relazionalità non possono trovare alcuna reale affermazione, né di principio né tantomeno di fatto, se si prescinda dalla dimensione della coesistenza, o «interpersonalità» , in cui si traduce la categoria della giuridicità nei termini di una regola vincolante dell’agire che stabilisca reciproci obblighi e diritti. Se quindi è vero che «il diritto s’impernia sull’uomo» naturalmente portatore «di doveri, di cui è responsabile, e di diritti, di cui è legittimo assertore», è altrettanto vero che la specificità relazionale dell’essere umano si impernia sul diritto come basilare «struttura di pace» , senza la quale né l’individualità umana, né la sua profonda significanza morale e sociale, potrebbero minimamente realizzarsi.
Tanto premesso, occorre prendere atto che il diritto economicistico prevalso negli ultimi anni in una società globalizzata sempre più divisa, se non conflittuale, non può essere una «struttura di pace» al servizio dell’armonica coesistenza civile e, in definitiva, dell’intera collettività sociale. Nella sua specificità categoriale, il diritto rimane in ogni caso la principale attività di pacificazione e risoluzione dei contrasti a disposizione di soggetti privati e pubblici, ma di fronte a un diritto reso spesso funzionale a più o meno dichiarate esigenze di autoaffermazione e di individualismo liberistico , ciò che emerge è un tendenziale fraintendimento della giuridicità, destinato a incrinare gradualmente la stessa vita associata di cui il diritto vorrebbe pur essere un fattore incentivante. Ciò non significa sostenere sic et simpliciter che esista solo il diritto giusto, e che il diritto basato su un amorale economicismo, o su un’immorale volontà di potenza, manchi di giuridicità. Anziché contestare la possibilità tutt’altro che remota di un diritto ingiusto, si tratta piuttosto di contestare il senso stesso della locuzione di diritto giusto, dato che la giustizia non sempre sostanzia l’essere del diritto, proprio in quanto rappresenta il suo dover essere, ossia il suo primario obiettivo da realizzare. Ne consegue, in ciò discostandosi dall’ontologismo cottiano, che un diritto ingiusto è sì inconcepibile, ma solo deonticamente, perché non concettualmente né fattualmente inesistente.
Se l’inconcepibilità del diritto ingiusto dipende dalla sua inconciliabilità sul piano deontico con l’intrinseco dover essere del diritto, in quanto è un diritto esprimente una divergenza artificiosa e astratta da ciò a cui è destinato, solo l’aderenza al ruolo costitutivo del diritto, inteso come necessaria condizione e «garanzia della interpersonalità» , comporta un senso di concretezza anziché di astrazione, poiché ciò implica che non si ignori il significato del diritto nella realtà degli individui, e si arrivi così ad afferrarne il carattere ontoesistenziale. Dove la concretezza non rappresenta mera effettività contingente, ma fedeltà al senso e significato profondo della realtà, in particolare del mondo umano, anche nella sua peculiare dimensione di immanente esistenzialità e di finitudine spazio-temporale. Non sorprende, allora, che anche una concezione fortemente metaempirica come quella di Cotta, mirante a comprendere della realtà le invarianze strutturali e ad attingere direttamente l’essere stesso nel «dovere-di-essere» senza limitarsi a una incessante e mai risolta tensione verso il dover essere, riesca a raggiungere nondimeno una visione né astratta né ipostatizzata del diritto e di ogni altra dimensione del reale. Ne consegue una innovativa lettura, concreta e corposa, del diritto stesso come diritto naturale eppur positivisticamente orientato.
Sostenendo che il diritto è un necessario presupposto della coesistenza «per la sua intenzionalità a sostituire il conflitto e l’imporsi della potenza, sempre possibili nella condizione umana, con il dialogo, il discorso di ragione» , Cotta si cimenta in una osservazione attenta dei sistemi giuridici positivi, che è in grado di pervenire attraverso un percorso di induzione logica a una organica concezione del diritto non banalmente giusnaturalistica, né lontana dalla effettività del diritto vigente o vivente, bensì ripensata nel quadro di una «universalità empirica» . Ne è una conferma la particolare attenzione rivolta da Cotta al diritto processuale, in quanto emblematico connubio tra la positiva normatività delle procedure giuridiche e la naturale «esigenza di giustizia» . Il momento della giurisdizione gli sembra, non a caso, una paradigmatica espressione della presenza nel diritto, oltre alle due tipiche espressioni della giuridicità, costituite dal prescrivere e dal proibire, di quella manifestazione atipica eppur peculiare di essa costituita dall’individualità esistenziale, intesa come «concreta realtà dell’io, autore degli atti e responsabile di essi nei confronti di altri» . Risulta quindi riduttivo e fuorviante sottolineare l’aspetto più speculativo del pensiero di Cotta senza ricollegarlo all’interesse da lui rivolto alla effettiva realtà del diritto nell’esistenza umana, non però per uniformarsi ai dati di fatto, ma per elevarsi al di sopra, e non certo contro di essi.
Il costante richiamo alla concretezza si può rinvenire in Cotta anche nel suo approfondimento di quella classica interpretazione del giusto diritto e del giusto processo quali concetti orientati ad affermare, in una prospettiva tradizionalmente giusnaturalistica, l’insussistente giuridicità intrinseca di norme o procedure positive ingiuste . In base a una lettura ulteriore, essi si mostrano infatti concetti insoddisfacenti, al pari di ogni nozione che astrattamente attribuisca o meno al diritto valori morali, come se questi possano rimanere a esso estrinseci. Non sembra, perciò, che Cotta ritenga appropriato parlare di giusto diritto o giusto processo, proprio perché la giustizia non è qualcosa di contingente nel fenomeno giuridico, che possa esserci o non esserci. Ma la sua prospettiva ontologica fondata sull’essere, o meglio sul «dovere-di-essere», piuttosto che sul dover essere, induce poi Cotta a condividere giusnaturalisticamente la convinzione che il diritto o è giusto o, altrimenti, non è diritto, essendo anche per lui impensabile un diritto ingiusto. Resta il fatto che il diritto cottianamente inteso, in quanto realmente diritto e quindi giusto, non avente alcun bisogno di ricevere dalla moralità valori che sono già in esso insiti, emerge non solo sul piano teoretico come un dato incontrovertibile del diritto naturale, ma anche sul piano fattuale nella vita degli individui con tutta la forza che lo caratterizza in termini di «giustizia legale» . Si tratta di una giustizia che ha tanto impatto sulla coesistenza umana da essere al tempo stesso «giustizia sociale»: «la giustizia è sempre sociale, poiché non riguarda il rapporto del soggetto con se stesso, ma sempre il suo rapporto con altri» .
C’è però un rilievo critico desumibile da una simile lettura del diritto protesa ontologicamente a coglierne l’intrinseco carattere di giustizia, relativo al fatto che è una lettura tendente ad avere difficoltà nel rendere conto del negativo presente nel diritto stesso, il quale, come ogni altro elemento della realtà transeunte, può divergere dal suo pieno compimento, cioè dal suo dover essere, e realizzarlo solo in parte o in molti casi per nulla, senza con ciò cessare di essere ciò che è, ogni essere consistendo anche, necessariamente, in negatività e non-essere. Nondimeno, la visione cottiana del rapporto indissolubile tra diritto e giustizia attesta una notevole originalità rispetto alle versioni più consuete del giusnaturalismo, poiché permane ravvisabile in essa un rapporto dialettico, sia pur indichiarato, di «unità nella differenza» tra giuridicità e moralità, che compare chiaramente nel concetto di «moralità del diritto» . Sottraendo il diritto stesso a ogni subordinazione dalla morale, tale concetto permette a Cotta di porre in luce «le aporie della separazione fra etica e diritto» , e di delineare una loro, per così dire, identità differenziata.
Ferma restando la grande valorizzazione attuata da Cotta della dimensione giuridica del mondo umano, la sua filosofia non si limita però alla «morale della giustizia», cioè a quella complessa dimensione normativa di cui è parte integrante il diritto non meno dell’etica, inoltrandosi al di là di tale morale, che viene oltrepassata, pur senza essere negata, dalla «morale della carità» . Ecco allora comparire l’aspetto più toccante di un pensiero filosofico che, a parte la sua indiscutibile capacità di innovare il giusnaturalismo mediante un approccio concreto e analitico ai problemi del diritto, inteso come vigente e positivo oltre che naturale, sa elevarsi anche oltre il diritto, ma per meglio comprenderne la specificità, e non per sminuirne il senso. Secondo Cotta, il giurista può comprendere appieno la peculiarità del proprio impegno professionale e umano solo riconoscendo che, accanto alla «misura» connotante la giuridicità, si staglia l’«oltremisura» della carità . Se il piano metagiuridico della carità significa amore, oblazione, disinteresse e relazionalità «asimmetrica» nella cura del prossimo, anche del nemico, senza mai chiedere nulla in cambio, il diritto non può spingersi fino a tanto, essendo invece espressione di una relazione «simmetrica» tra dare e ricevere, tra obblighi e pretese, tra doveri e diritti.
Al di là di tale straordinaria riflessione sulla carità, molto insolita in un contesto di studi giuridici, si può osservare come da questo ordine di considerazioni, che muovendo dal raffronto tra etica e diritto giunge a un’ampia visione giusfilosofica, organica quanto articolata, possano essere tratte due conseguenze, tra loro alternative: da una parte, in un’ottica formalistica, se ne desume che ogni ambito della realtà ha i propri limiti determinati, di cui prendere atto e a cui attenersi senza indebite commistioni né tra diritto ed etica, né tantomeno tra diritto e carità, seguendo così un acritico approccio logico non certo erroneo, ma riduttivamente basato sui princìpi formali di identità e non-contraddizione riferiti ai vari elementi del reale; dall’altra, in un’ottica sostanzialistica e più complessa, l’assunto che il diritto non abbia a che vedere con la moralità o con la carità appare invece contestabile non perché falso, ma perché non del tutto vero, nel senso che i limiti intercorrenti tra questi distinti ambiti costituiscono pur sempre punti di contatto, cioè confini in nesso dialettico tra loro, al pari di tutti gli altri enti delimitati concettualmente o materialmente, ciascuno nel contempo differente e unito a qualcos’altro, che inizia laddove esso finisce.
È questa sottesa dialettica, riconducibile a una sostanzialità non già antiformale, ma «metaformale» , che rende possibile cogliere la specificità del diritto e la sua basilare importanza. Prima di giungere alla carità, non c’è infatti il vuoto, ma c’è il collimante seppur distinto piano giuridico della legge come sua conditio sine qua non, trattandosi, anche alla luce delle scritture neotestamentarie, di due dimensioni eterogenee e insieme correlate, dato che non si può arrivare ad amarsi caritatevolmente se, innanzitutto, non sussista un rapporto di pacifica coesistenza tramite l’osservanza reciproca di regole fondative della stessa relazionalità intersoggettiva. È solo a partire da tali legami giuridici, e «simmetrici», che la realtà finita dell’uomo si può aprire a quell’«oltremisura» rappresentato dal dono gratuito e «asimmetrico» della carità, che presuppone di necessità il diritto, e che, per elevarsi al di sopra di tutto, ha bisogno dell’idea stessa della legge, in primis espressa dalla dimensione della giuridicità. La legge è dialetticamente superata, ma rimane presupposta e non negata dall’amore caritatevole, come emerge in modo esemplare nell’illuminante parola di Cristo: «non pensate che io sia venuto ad abolire la legge o i profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento» .
Prima della carità c’è dunque, nell’insieme unitario eppur molteplice delle forme relazionali umane, l’ambito del diritto eticamente orientato, che non è la morale, ma che tende a realizzarla come suo dovere ultimo, e in ciò il diritto ritrova se stesso come prescrittività sostanziale e dover essere, che Cotta, invero, interpreta ontologicamente come «dovere-di-essere». In ogni caso, dalla stessa riflessione metagiuridica sulla carità, si trae conferma che in Cotta il diritto ha un significato portante o strutturale, più esattamente ha una «struttura di pace» e di giustizia, nel senso di una giuridicità avente il ruolo di essere, come loro conditio sine qua non, in linea di continuità con i grandi valori dell’etica e della carità stessa. L’individuo non può realizzarsi, né come uomo moralmente giusto né come uomo religiosamente caritatevole, se si ponga al di fuori di un prioritario ordine coesistenziale basato sul rispetto della legge, che lo vincola all’osservanza dei doveri, anzi all’idea stessa del dovere, e che, nel contempo, lo salva dal rischio di una soggettività egoistica e violenta , mirando a istituire un mondo relazionale e umano. Il diritto si disvela perciò come una complessa e dialettica dimensione, un dato effettuale e insieme un ideale da attuare, un essere nonché un dovere, o meglio un dover essere, riformulato da Cotta mediante quel concetto ontologico, piuttosto che deontologico, costituito appunto dal «dovere-di-essere».
Si assiste evidentemente in Cotta a un pensiero multivalente e non unidimensionale, in cui sono compresenti concetti diversi o contrapposti, che vengono dialetticamente uniti ma non confusi tra loro, come nel caso di naturalità ideale e positività vigente, o di quella totalità e particolarità rinvenibili nell’emblematico concetto cottiano di «universalità empirica» . Si ha infatti che dalla fattualità del fenomeno giuridico, mai venuta meno nel giusnaturalismo non astratto né ipostatizzato caratterizzante la sua filosofia del diritto, Cotta trae alcune paradigmatiche invarianze, come l’ospitalità e gli interdetti costituiti da incesto, omicidio, menzogna e furto, non ricondotti solo a contingenti determinazioni storico-culturali, ma derivati dal carattere archetipico e costitutivo della normatività nella vita umana. Ciò attesta una prospettiva filosofico-giuridica in cui la concretezza non ha un senso esclusivamente ideale oppure empirico, ma nell’eludere ogni schematicità intellettualistica, giusnaturalistica o giuspositivistica che essa sia, è una concretezza esprimente l’intrinseca complessità del reale, sempre sospesa tra natura e artificio, idealità ed effettività, necessità e contingenza.

  • 3. Soggettività relazionale: dai diritti ai doveri dell’uomo.

Anche il concetto cottiano di individuo si presenta in modo non univoco né semplice. È un concetto in cui non traspare una identità pacificata, ma che evoca una rappresentazione dell’esistenza talora drammatica, dato che Cotta si è soffermato più volte sugli aspetti chiaroscurali dell’essere umano, capace sì di autocoscienza e discernimento del bene, ma pervaso anche da volontà di dominio sul mondo esterno , e spesso da impulsi di autoaffermazione distruttiva . L’assolutizzazione della soggettività non sembra essere una improbabile ed eventuale patologia della realtà umana, ma è una possibilità negativa costantemente incombente sulla vita e sul destino dell’uomo, a cui solo il prevalere della sua natura razionale e relazionale può sottrarlo.
Non che manchi una visione, in definitiva, ottimistica nell’antropologia cottiana, ma la salvezza dal rischio di degradarsi a livello di un «soggetto assoluto» , e intollerante verso ogni altro, può avvenire a condizione che si acquisisca la «consapevolezza di essere bisognosi, indigenti nella propria datità ontica» , quale lucida, pacata e responsabile presa d’atto della strutturale finitezza umana, dissociandosi il più possibile da atti di arbitrio in quanto manifestazioni di una libertà incondizionata, e dunque fittizia. Non solo. Ciò può avvenire a condizione che l’individuo reagisca alla tentazione negativa del soggettivismo tramite la consapevolezza del proprio dialettico legame, altrettanto strutturale, con l’infinito, ovvero con un oltre che, prima di consistere in una lontana o inattingibile dimensione divina e ultraterrena, è l’altro individuo su questa terra, qui e ora prossimo, anche se spesso non riconosciuto né trattato come tale. È sorprendente, ma l’individuo incontra più o meno consapevolmente l’infinito già nella «propria interrelazionalità con gli altri io» , cioè nella realtà finita e terrena del proprio io dinanzi all’altro, che delimita la sua identità eppur l’apre al di là di sé, e quindi alla realtà dialettica dello spirito, in quanto è nella finitudine dell’io che si dischiude l’infinitezza del reale, non riducibile ad alcuna particolarità, né dell’io né dell’altro, ma esprimente la totalità di io e non-io in ciascuna delle sue stesse parti senza essere di esse la mera somma.
Filosoficamente, ciò comprova l’insufficienza della concezione del diritto come pretesa particolaristica del singolo. Non che non meritino piena tutela gli interessi individuali, ma essi non esauriscono gli interessi della società, che è anch’essa una realtà organica e non semplicemente un insieme di individui. Solo tutelando la realtà sociale attraverso una diversa concezione del diritto come obbligo, che muova dai doveri di tutti per giungere ai diritti di ciascuno, sono tutelabili anche gli individui, mentre non necessariamente è vero il contrario, poiché muovendo dalle singole parti si può non arrivare affatto agli interessi di tutti. Non a caso, nel diritto come pretesa sussiste una tendenziale elusione degli obblighi positivi, propositivi e sostanziali, restando piuttosto divieti, nel senso che in un diritto individualistico, concepito essenzialmente come il mio diritto, ciascuno è chiamato a esercitare, accanto ai propri diritti, non tanto doveri di relazione, quanto proibizioni di interferenza verso ogni altro, come se i diritti, propri e altrui, potessero configurarsi autonomamente, senza un previo riferimento indispensabile ai doveri, reciproci e non soltanto complementari rispetto ai diritti stessi.
In tal senso, non sorprende che in carenza o in assenza di una relazionalità significativa, e in presenza di una prevalente autonomia soggettivistica, si possa facilmente passare nell’anomia sociale. Il diritto si configura, allora, come quel tendenziale diritto senza doveri imperniato sull’affermazione autoreferenziale degli individui, che evita sì il rischio di un dovere senza diritti destinato alla negazione eteroreferenziale e alienante della libertà umana, ma che non può sottrarsi al rischio altrettanto temibile di un diritto anomico, in cui ognuno segue non già il diritto, ma il proprio diritto. È questo, in fondo, il rischio di un diritto senza diritto, che nell’aspirare alla massima legalità formale tende però a considerare le leggi come elementi funzionali all’utile individuale, tanto che «obbedendo a esse l’individuo persegue pur sempre i propri fini e non quelli del legislatore» . Certo, la concezione del diritto come mezzo di affermazione dell’autonomia individuale è intesa dai suoi sostenitori non come espressione di anomia, ma come garanzia di libertà, atta a salvaguardare l’individuo da ogni possibile coercizione o condizionamento del potere, in modo che, obbedendo alla legge, l’individuo rimane libero, non essendo assoggettato alla volontà altrui ma soltanto alla propria, senza che nulla determini dall’esterno gli scopi che egli deve perseguire, anche se a governare è formalmente la legge, e non lui stesso né altri uomini.
Un concetto individualistico del diritto e della libertà rischia, tuttavia, di negare l’uno e l’altra. Nell’affermazione dell’iniziativa individuale come principio di un ordine spontaneo, diritto e libertà convergono in una medesima perdita di finalità, proprio in quanto è un ordine governato dalla legge, ossia «nomocratico», distinto da un ordine sociale governato da uno scopo, ossia «teleocratico» . La «nomocrazia» rischia infatti di autonegarsi in una vera e propria anomia nella misura in cui rifiuta finalità comuni per avallare finalità soprattutto individuali. E ciò è qualcosa di socialmente deregolativo, in cui vige il perseguimento di tanti diversi, anche confliggenti, scopi individuali, e a cui concorre l’assenza di una legalità sostanziale rivolta a integrare pretese e obblighi. Separando, almeno di fatto, la pretesa dall’obbligo, si mira a scindere il diritto dalla morale, e ad avvalorare la tesi che la specificità del diritto risieda nell’esprimere spettanze, facoltà e aspettative, piuttosto che nell’adempiere a doveri. Ne è una conferma l’emblematica notazione secondo cui «nell’uso linguistico comune esiste un’altra parola in connessione col concetto d’obbligo o dovere: è questa la parola morale» .
In un’altra prospettiva, come quella di Cotta, il concetto di dovere entra invece a pieno titolo, sia pur con modalità di «simmetria» diverse da quelle «asimmetriche» proprie degli atti di carità , anche nell’ambito del diritto, innanzitutto nella categorica obbligatorietà dei suoi princìpi generali. Il diritto è la prima espressione di una doverosità senza la quale ogni altro dovere, etico e religioso, non è nemmeno concepibile, stante quell’essere e insieme dovere, o dover essere, che è l’esistere, o meglio coesistere, prodotto in primis dalla doverosità giuridica, senza la quale vengono a mancare i basilari vincoli relazionali di rispetto intersoggettivo, socialmente indispensabili. Tuttavia, la relazionalità è qualcosa di non necessariamente sussistente nella realtà dell’uomo. Sebbene essa corrisponda al suo essere costitutivo, l’individuo umano può sempre contravvenire con un atto di negazione, più o meno esplicito e consapevole, al suo essere in relazione, e questo paradosso rappresenta la peculiare specificità della natura umana, mai naturalisticamente determinata, né nel bene né nel male. Ciò non toglie che l’uomo trovi la sua libertà soltanto nell’osservanza dei doveri concernenti la relazionalità intersoggettiva e il riconoscimento dell’alterità, cioè oltrepassando quelle pulsioni soggettivistiche che lo assoggettano a se stesso e lo conducono a una deriva antigiuridista. Un determinante apporto della filosofia di Cotta è rappresentato, in tal senso, dalla sua concezione del ruolo ontoesistenziale del diritto, in quanto capace di salvare l’agente, oltre che l’azione , seppur entro la peculiare logica del diritto, che è differente, ma non separata, da quella della morale o della religione, e che prescrive non già di agire senza nulla pretendere o di amare il prossimo, bensì di «dare a ciascuno il suo».
Sul piano delle spettanze fondamentali dell’uomo, si tratta di affermare incondizionatamente e universalmente, per se stessi non meno che per gli altri, una intangibile egoità e dignità. L’universalità dei diritti, senza la quale essi non sarebbero davvero umani, resta però irraggiungibile se non viene oltrepassa¬ta, pur senza essere negata, la logica particolaristica della politica, che vede nell’uomo il cittadino, e nella comunità umana lo Stato . Per quanto anch’essa possa aprirsi al riconoscimento di altri soggetti non appar¬tenenti all’ambito statuale di riferimento, la politica concepisce il rapporto intersoggettivo nei termini di una determinata interazione tra entità diverse e chiuse, più che nel senso di una estensibile interrelazione tra soggetti eterogenei eppur partecipi di una comune identità. Da questo punto di vista, la politica permane una dimensione, a livello nazionale e internazionale, pressoché chiusa ed escludente, anche nelle dinamiche postmoderne della globalizzazione, anzi proprio a causa di tali dinamiche globalistiche o presunte tali, tuttora angustamente connotate dal loro prevalente orientamento economicistico. Ma le stesse potenzialità diffusive del diritto sembrano sempre più lasciare il posto a una sua subordinazione funzionale alle esigenze della politica, contestualmente al primato assunto dai diritti come riduttiva espressione di, pur legittime e necessarie, spettanze individuali rispetto ai doveri sociali di solidarietà e reciprocità.
L’importanza acquisita nel postmoderno, quantomeno sul piano enunciativo, dal riconoscimento dei diritti umani è certo un fenomeno altamente positivo, attestante la difficile ricerca di un comune terreno di incontro su un nucleo di valori inalienabili e condivisibili da tutti. Ma la capacità coesiva del diritto resta qualcosa di molto fragile se venga elusa una riflessione sul significato teoretico di tali diritti, e se alle ripetute dichiarazioni d’intenti non venga affiancata, almeno tendenzialmente, la protezione fornita da «un sistema giuridico positivo universalmente riconosciuto ed effettivamente vigente» . E ciò appare possibile non prima di una risemantizzazione concettuale dei diritti umani, che permetta di superare il limite principale, essenzialmente politico, a cui sono sottoposti, stando al quale i diritti umani sono tuttora destinati a valere, nella migliore delle ipotesi, solo per i cittadini di quei singoli Stati che abbiano assunto l’impegno di riconoscerli. La sostanziale assenza di un vincolante ordine giuridico mondiale, non solo sovranazionale ma nemmeno internazionale, trova uno dei suoi maggiori motivi proprio nella difficoltà di integrare la precaria logica operativa della generalità, in quanto riferita a un insieme sommativo di sparsi elementi disgregabili, con una più salda logica teoretica dell’unità organica, che induca alla riscoperta di un perduto legame sociale e interumano pur nel rispetto delle ineludibili differenze. Senza questa ricerca, innanzitutto concettuale, di una nuova unità cosmopolitica quanto pluralistica, nessun ideale umanitario può venire davvero salvaguardato, perché senza un esercizio costruttivo del pensiero non è la logica a produrre la prassi, ma la prassi a produrre la logica come un’acquiescente descrizione dei dati di fatto. L’affermazione concreta dei diritti umani richiede quindi il ricorso a un pensiero logico dialettico, antico eppur nuovo, indispensabile per quella ricerca razionale di senso in cui l’unità di essere e dover essere emerge, contro ogni appiattimento del dovere sulla realtà effettuale, come tensionalità dell’essere verso ciò che deve essere, cioè «come un impegno senza del quale l’esistenza sarebbe condannata al naufragio» , a prescindere dalla riuscita o meno nel raggiungimento di tale unità.
È vero che, hegelianamente, l’Idea «non è tanto impotente da restringersi a dover essere solo, e non esser poi effettivamente» . Ma è altrettanto vero che, in ogni espressione della realtà, in particolare della realtà umana, l’essere resta un processo inesauribile e mai definitivo, cioè un compimento mai attuato appieno, a cui solo la dimensione del dovere consente di approssimarsi incessantemente. Si tratta di quel dovere che, non senza paradosso, è il diritto, costituendolo e legittimandolo anche come pretesa, ossia come il diritto avente nella rivendicazione dei diritti umani una manifestazione di cruciale importanza per lo sviluppo mondiale della civiltà giuridica, ma che per questa via rielabora se stesso in primis come dovere od obbligo, anteponendo ai diritti umani l’osservanza di una doverosità senza la quale tali diritti non sono né pensabili né attuabili.
In considerazione di ciò, diviene sempre maggiore l’esigenza di valorizzare il richiamo ai doveri, conciso quanto indicativo, che si trova nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948: «ogni individuo ha dei doveri verso la comunità, nella quale soltanto è possibile il libero e pieno sviluppo della sua personalità» (art. 29, co. 1). La questione non è soltanto quella di ribadire l’ovvio principio per cui a un diritto individuale corrisponde un obbligo degli altri individui di rispettarlo, né quella di tradurre sul piano dei doveri il linguaggio dei diritti al fine di sostenere il loro significato morale oltre che giuridico. Più importante è, invece, rilevare il carattere dei diritti stessi in quanto espressioni di un diritto inteso nella sua doverosità prima ancora che nella sua esigibilità, cioè non solo come «diritto ad avere diritti» , ma anche e primariamente come dovere di rispettare tali diritti, propri non meno che altrui, giungendo così alla concezione giusfilosofica, di mazziniana ascendenza , del dovere come fonte di ogni diritto.
Porre in rilievo tale fonte della giuridicità, e di quelle sue emblematiche manifestazioni che sono i diritti umani, consente di comprendere, oltre al rapporto di corrispondenza tra pretese e obblighi, il senso stesso del diritto nella sua valenza vincolante. Ma è un senso che non può manifestarsi chiaramente se l’ambito enunciativo delle legittime rivendicazioni o pretese giuridiche non venga integrato con un ambito ancor più concreto e sostanziale, quello appunto della doverosità, in cui il dover essere ricomprende in sé l’essere, rendendolo propriamente tale. È nel dover essere che l’essere si presenta nella sua realtà, razionalità e concretezza. Insistere sulla importanza della dimensione deontologica e prescrittiva dei diritti non equivale semplicemente ad auspicare che si rediga una Carta dei doveri fondamentali, con cui integrare le dichiarazioni dei diritti già più volte emanate. L’esigenza crescente, teoretica e pratica nel contempo, è quella piuttosto di promuovere l’affermazione effettiva dei diritti attraverso l’intendimento concettuale di essi come doveri di ogni uomo verso tutti gli altri. I diritti umani non possono essere solo formulazioni di volontà rivolte alla tutela del benessere individuale, ma implicano il superamento del piano soggettivo, più o meno egocentrico, della pretesa in direzione di una relazionalità realmente giuridica, cioè «simmetrica», reciproca e inclusiva, nella quale l’individuo e la comunità convergano verso un medesimo dovere oggettivo di solidarietà sociale, pur senza che l’uno si risolva nell’altra.

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