Le emozioni nel “Sistema di politica positiva” di Auguste Comte

Introduzione – Obiettivo delle seguenti pagine è quello di evidenziare un aspetto della riflessione di Auguste Comte (1798-1857)[1] abbastanza poco considerato: il suo interesse per le basi emotive della umanità e della socialità. Non che alcuni studiosi non abbiano già osservato come l’«ultimo» Comte attribuisca alle emozioni e ai sentimenti un’importanza pressoché inedita nel suo pensiero precedente.

; ma il rilievo, peraltro assolutamente legittimo, e su cui dovremo quindi soffermarci (par. 2), consistente nell’affermare che l’elemento emozionale sia strettamente legato alla sua teorizzazione della «religione dell’umanità» ne oscura, per così dire, la veste di sociologo delle emozioni ante litteram (par. 3) a favore di quella di sociologo della religione, ancorché di una religione laica e positiva. Al riguardo dovrà, tuttavia, immediatamente precisarsi (par. 4) che se, al pari di altri «padri fondatori» del pensiero sociologico, Comte ha fornito qualche intuizione rispetto al tema delle emozioni, è solo negli anni settanta del secolo scorso che la sociologia comincia a trattare queste ultime con la centralità e la sistematicità riservate ad altri suoi ben più tradizionali argomenti.

 

 

  1. «Religione dell’umanità» ed emozioni in Comte

Come anticipato, tra i molti temi comtiani, dobbiamo qui soffermarci su quello della «religione dell’umanità», che occupa l’ultima parte della riflessione del sociologo francese. Secondo taluni, come Lewis Coser[2], il Comte fondatore di tale religione (e suo profeta) sarebbe al limite interessante sul piano della storia delle idee, e non certo su quello strettamente sociologico; ma se si supera una tale riserva, come credo sia possibile[3], si può considerare anche l’«ultimo» Comte rilevante non solo per l’evoluzione del suo stesso pensiero, bensì anche e soprattutto per il contributo sociologico che ha saputo fornire.

Quanto all’evoluzione del suo pensiero, non manca in realtà chi ne sottolinea la sostanziale continuità; penso, ad esempio, a Franco Ferrarotti, il quale evidenzia come la questione che ossessiona costantemente il sociologo francese sia quella della ricostruzione dell’ordine sociale, ancorché di «un ordine aperto sul progresso, cioè di un ordine dinamico, autoevolutivo, che garantisce la stabilità, ma non esclude il cambiamento»[4]. Orbene, che quello dell’ordine o, in altre parole, della integrazione o coesione sociale non sia semplicemente un tema comtiano, ma costituisca la prospettiva fondamentale al cui interno si snoda la sua intera riflessione sociologica, non sembra seriamente discutibile; su ciò anzi dovremo tornare. E in questo senso si può ben concordare con la tesi di una sostanziale continuità nell’opera di Comte. Se ci concentriamo, però, sul tema della «religione dell’umanità», non si può fare a meno di osservare che, anche se l’idea di una religione «adatta ai tempi moderni» è in qualche modo presente sia nel primo che nel secondo Comte, quello rispettivamente degli Opuscoles (1820-1826) e del Corso di filosofia positiva (1830-1842), è solo con la sua ultima grande opera, Sistema di politica positiva (1851-1854), che questo tema assume quel rilievo e quella sistematicità plasticamente rappresentati nel sottotitolo dell’opera medesima, Trattato di sociologia istituente la religione dell’umanità[5]. Anche chi, come Robert Nisbet[6], ritiene che una certa vena religiosa Comte l’abbia sempre avuta, deve ammettere che la sua «sociologia religiosa» raggiunge la massima profondità e importanza nel Sistema di politica positiva. E (almeno) da questo punto di vista si può, quindi, credo altrettanto legittimamente, parlare di un «ultimo» Comte, parzialmente diverso dai precedenti. Non senza qualche eccesso di schematizzazione, potremmo, al riguardo, dire così: rispetto al problema intellettuale di una vita, quello dell’ordine sociale, Comte propone nella fase finale della sua riflessione una soluzione, legata con ogni probabilità alle sue vicende personali[7] e costituita dall’avvertita necessità di una «religione dell’umanità», che risulterà rilevante sia nell’ambito della storia della sociologia della religione che nella prospettiva di quella che potremmo chiamare l’eredità della sociologia classica rispetto alla sociologia delle emozioni.

Dunque, consideriamo dapprima Comte «sociologo della religione». Del resto, nella riflessione del sociologo e filosofo francese si evidenzia, non meno che in quella di altri «classici» del pensiero sociologico, quel legame tra sociologia e sociologia della religione che appare strettissimo sino dalla nascita della prima[8]. Innanzitutto, il pensiero di Comte può compendiarsi, con sintesi estrema ma efficace,

in quella specie di parabola cosmica, nota sotto il nome di «legge dei tre stadi», dove alla religione, Weltanschauung dominante presso le società etnologiche e le civiltà superiori (secondo tre sotto-stadi successivi: feticismo, politeismo, monoteismo), non è più riservato alcun posto di rilievo presso le società più recenti, fondate sul progresso tecnico-scientifico[9].

Per Comte, infatti, nell’ambito delle società moderne, lo studio dei fenomeni che le caratterizzano è demandato in particolare alla sociologia, la «nuova scienza» da lui stesso definita in un primo momento «fisica sociale» in quanto chiamata a fare propri, almeno tendenzialmente, i metodi con cui le scienze delle natura studiavano i propri oggetti. Non è però il positivismo (comtiano) che qui interessa approfondire, quanto il fatto che, per Comte, anche nel primo stadio, quello «teologico», in cui le spiegazioni dei fenomeni sono appunto fornite dalla religione, quest’ultima offre agli individui «una spiegazione razionale, che soddisfa cioè l’esigenza di avere una visione unitaria delle cose»[10]. Ciò è quanto avviene anche nel secondo stadio, quello «metafisico», in cui le spiegazioni non sono più riferibili a qualche essere supremo o divino, bensì a principi filosofici, astratti[11]. Beninteso, Comte è critico verso entrambe le forme di spiegazione, legate al loro tempo. Ma quel che più conta osservare è che l’interesse di Comte per la religione non appare casuale o comunque legato a ricostruzioni di ordine meramente storiografico; come rilevano, infatti, i sociologi della religione più avvertiti,

[e]gli è interessato a comprendere, piuttosto, come gli uomini ricorrano alla religione per darsi una spiegazione unitaria e razionalmente soddisfacente del molteplice e complicato organismo sociale in cui essi vivono. […] In tal senso non sfugge a Comte quello che poi verrà sviluppato più approfonditamente da Durkheim, e cioè che la religione soddisfa bisogni profondi dell’uomo di tipo cognitivo e comportamentale. E così facendo contribuisce, a certi livelli meno evoluti delle società, a consolidarne la coesione e il funzionamento.

Da questo punto di vista, all’apice dell’evoluzione [cioè nel terzo stadio, quello «positivo»], l’esigenza di unità del sapere rappresentata dalla scienza non è altro [per Comte] che l’espressione più alta […] di quella originaria spinta ad una conoscenza unitaria dell’essere espressa dalla religione. Per cui, se è vero che per Comte il progresso scientifico inevitabilmente porta alla fine della religione, è altresì vero che essa, nel momento in cui sparisce, si reincarna, per così dire, in uno stadio superiore delle mente e delle psiche umane, la scienza[12].

E’ così che si può comprendere come l’ultimo Comte

elabori l’idea di una religione dell’umanità: la scienza come nuova religione laica, capace di dare agli uomini nuovi valori socialmente cogenti, il «grande essere», l’essenza dell’uomo e così via. Il grande sacerdote dell’umanità è allora lo scienziato, e dunque anche il sociologo[13].

Se già nel Corso di filosofia positiva aveva visto nella scienza una nuova forma di religione, ritenendo anzi che la «fede positiva» nella scienza avrebbe potuto aprire la strada a una «universalità molto più completa e stabile di quella della fede monoteistica nei migliori tempi del cattolicesimo»[14], è, come anticipato, solo nel Sistema di politica positiva che Comte elabora compiutamente la sua religione. Ora, non interessa qui soffermarsi su quella «descrizione fastidiosamente minuta della religione dell’Umanità»[15] posta in essere da Comte, che spazia dalla dottrina alla liturgia, dal «calendario positivista» ai «sacramenti sociali»; e neppure valutare il grado di utopia della religione comtiana e/o soffermarsi sulla sua diffusione storica e geografica[16]. Certo, a suo carico sono state rilevate «stranezze» e/o ingenuità anche da parte di chi aveva condiviso la sua idea fondamentale di una religione dell’umanità, come John Stuart Mill, autore di un saggio sul sociologo francese[17]. Eppure, nella religione di Comte vi è qualcosa di profondo, come è stato riconosciuto non solo da Mill, bensì anche, molto più tardi, nel suo ormai classico Le tappe del pensiero sociologico, da Raymond Aron, secondo il quale Comte riteneva, da un lato, che l’uomo moderno e dalla mentalità scientifica non potesse più credere alla rivelazione, alla divinità e quindi più in generale indulgere alle concezioni tradizionali della religione, dall’altro, che quest’ultima rispondesse però a

un bisogno permanente dell’uomo, che ne sente la necessità perché ha bisogno di amare qualcosa che lo trascende[18].

E la religione proposta da Comte appare ad Aron «di gran lunga più elevata di molte altre […] che altri sociologi hanno […] diffuso»[19], proprio per il culto dell’Umanità che la caratterizza; quel «Grande essere» che Comte invita ad amare è, infatti,

ciò che gli uomini hanno fatto di meglio; […] ciò che nell’uomo trascende gli uomini o, almeno, ciò che, in alcuni uomini, ha realizzato l’umanità essenziale. [E] se si deve amare qualcosa nell’umanità, al di fuori di persone scelte, è meglio certamente amare l’umanità essenziale, di cui i grandi uomini sono l’espressione e il simbolo. […] [La religione di Comte] non insegna ad amare una società tra le altre, […] non […] l’odierna società francese, né la società russa di domani, né quella americana di dopodomani, ma l’eccellenza di cui sono stati capaci alcuni uomini e verso la quale tutti gli uomini devono elevarsi[20].

Da un certo punto di vista, il culto dell’umanità oggetto della religione comtiana è, come è stato scritto,

la risposta non relativistica al processo di relativizzazione che la scienza opera nei confronti degli antichi dèi e delle vecchie credenze: la divinizzazione dell’uomo colma il vuoto lasciato dalla scomparsa di Dio. Comte è convinto che l’ordine sociale debba avere anche un fondamento etico, capace di andare incontro alla natura morale, e non solo razionale e pratica, dell’uomo: a questa regola generale non può sfuggire neppure la società positiva[21].

La «religione dell’umanità» appare quindi davvero al suo autore la più adatta alla terza fase della storia dell’umanità, quella dello «stadio positivo» o scientifico.

Dal punto di vista della interpretazione generale della religione da parte di Comte, chi ritiene che per lui essa fosse destinata a essere sic et simpliciter sostituita dalla scienza, la inquadra in una prospettiva evoluzionistica[22]. Probabilmente, sarebbe non meno corretto inquadrarla in una prospettiva funzionalistica[23]: la religione, che sia di tipo, diciamo così, tradizionale ovvero laica (o, detto diversamente, secolare, come vedremo appena più avanti), sembra per lui adempiere a quella funzione di integrazione sociale perfettamente compatibile con la sua maggiore preoccupazione intellettuale, che, come anticipato, è quella dell’ordine sociale. Torneremo su quest’ultimo punto.

Dobbiamo ora però evidenziare ciò che lo stesso Aron, come si è visto, ha colto pur senza approfondire: un aspetto non secondario della «religione dell’umanità» di Comte è quello emozionale. Del resto, che la religione più in generale e/o la religiosità sia strettamente legata alla dimensione emozionale, lo afferma esplicitamente lo stesso Comte:

Ogni stato religioso esige il continuo concorso di due influenze spontanee: l’una oggettiva, essenzialmente intellettuale; l’altra soggettiva, puramente morale. Proprio qui la religione si trova a un tempo in rapporto con il ragionamento e il sentimento, ognuno dei quali, isolatamente, sarebbe inadatto a stabilire un’effettiva unità, individuale o collettiva[24].

O ancora:

Lo stato religioso si basa […] sulla combinazione permanente delle due condizioni ugualmente fondamentali, amare e credere, le quali, sebbene profondamente distinte, devono naturalmente concorrervi[25].

E per ciò che riguarda più specificamente la sua «religione dell’umanità», Comte scrive, tra l’altro:

Amare l’Umanità costituisce realmente tutta la sana morale […]. Questa attiva preponderanza della socialità sulla nostra individualità […] non può risultare che da una lenta e difficile educazione del cuore assecondato dallo spirito[26].

La «densità emozionale» presente nella religione comtiana è stata recentemente evidenziata da un’importante filosofa contemporanea, Martha Nussbaum, autrice molto sensibile al tema delle emozioni[27]. È naturalmente qui impossibile soffermarci sull’articolata e ambiziosa teoria politica contenuta nel suo lavoro Emozioni politiche. Perché l’amore conta per la giustizia, il cui obiettivo è, in estrema sintesi, quello di delineare e proporre «una cultura pubblica basata sull’amore e sulla simpatia, che sostenga gli obiettivi di una società giusta e garantisca la stabilità dei suoi impegni»[28]. Del resto, che la religione comtiana sia stata, sì, un progetto religioso ma «pensato in stretta connessione con un disegno di teoria politica e con un modello di sistemazione sociale»[29], è ben noto. Ed è in questa prospettiva che la Nussbaum considera nel suo volume la religione comtiana, cui è riservato un posto di rilievo (sia pure con tutti i limiti a suo carico rilevati) nella storia di quelle che sono usualmente definite religioni secolari. L’impatto e l’influenza che la religione dell’umanità di Comte ebbe tra il XIX e l’inizio del XX secolo si spiegano agevolmente, afferma la Nussbaum, con la convinzione da parte di molti intellettuali dell’epoca secondo cui il progresso umano richiedesse una qualche forma di religione civile[30] in grado, attraverso le emozioni dell’amore e della compassione, di fronteggiare l’egoismo e l’avidità[31]. Da questo punto di vista, Comte si inserisce, quindi, in una più ampia tradizione di dottrine contrapposte alle «fedi dogmatiche» e alle «chiese istituzionali»: veicolando nuovi valori e un’etica alternativa a quella delle chiese, le religioni secolari contengono, infatti, «il tentativo di elaborare un nuovo credo laico, una sorta di vera e propria religione senza clero […]. Una religione […] che esalta valori quali il progresso, la scienza, la difesa dei diritti umani»[32].

Come anticipato, la Nussbaum insiste particolarmente sull’elemento emozionale nella religione comtiana:

Comte ritiene che il modo migliore di promuovere la dovuta attenzione verso l’umanità sia di puntare sulle emozioni, educando le persone ad estendere la simpatia. […] L’obiettivo […] della nuova religione sarà quello di estendere la simpatia umana coltivando lo spirito della fratellanza universale. […] le persone impareranno a perseguire il bene comune, in uno spirito di amore generalizzato per l’umanità[33].

Non solo: la Nussbaum evidenzia molto bene come, se Comte ha insistito, nella esposizione della sua religione, sino alla pedanteria e al parossismo sulle cerimonie comuni, sugli eventi da celebrare, sulla modalità di devozione e così via, al punto da apparire a molti ridicolo, è perché in realtà egli aveva perfettamente intuito l’importanza dei rituali per l’attivazione e il mantenimento delle emozioni. Come anche Durkheim avrebbe poi illustrato, le emozioni sono fondamentali per la religione, e in Comte appare lucida la consapevolezza della potenza dei miti nella loro «organizzazione»[34]; Comte sembra, infatti, respingere l’idea romantica secondo cui le emozioni non sono tali se non sorgono spontanee: «possiamo imparare a sentire in maniera appropriata, così come possiamo imparare ad agire in modo appropriato»[35].      

Le osservazioni della Nussbaum sembrano in qualche modo avvicinare Comte ad alcune acquisizioni della contemporanea sociologia delle emozioni: basterebbe pensare alla tematizzazione da parte dell’approccio drammaturgico-culturale delle regole emozionali, che prescrivono quali emozioni e sentimenti le persone dovrebbero provare in determinati contesti e come dovrebbero esprimerli; o alla tematizzazione dei rituali oggetto dell’approccio alle emozioni fondato da Randall Collins. Il sociologo francese mostra, cioè, di intuire senza peraltro tematizzare quanto la sociologia delle emozioni avrebbe poi fatto oggetto dei propri specifici studi. Ciò è proprio quanto osserveremo brevemente nell’ultimo paragrafo, in cui si evidenzierà la distanza che c’è tra la (contemporanea) sociologia delle emozioni in senso stretto, da un lato, e le intuizioni dei classici del pensiero sociologico, dall’altro. Dapprima, nel prossimo paragrafo, cercheremo di evidenziare come Comte possa, nondimeno, essere annoverato in una sorta di storia della sociologia delle emozioni prima della sociologia delle emozioni.

 

 

  1. Comte sociologo delle emozioni ante litteram

 

Nella seconda parte del precedente paragrafo ho cercato di evidenziare ciò che in qualche modo già altri interpreti del sociologo francese, oltre che Comte stesso, hanno osservato, e cioè che nella sua «religione dell’umanità» (ma direi più in generale in una teoria generale comtiana della religione) le emozioni sono chiaramente presenti.

Ebbene, proviamo, sia pure sin troppo schematicamente, a precisare e approfondire i termini del discorso comtiano qui in oggetto. A un certo punto della sua riflessione, il sociologo francese sembra avvicinare sensibilmente la religione, da un lato, e le emozioni e i sentimenti, dall’altro, nella prospettiva di quel problema dell’«ordine sociale» che, come già osservato, costituiva da sempre una sorta di «bussola» del suo pensiero. Dopo avere, nel Corso di filosofia positiva, criticato, attraverso la «legge dei tre stadi», lo stadio teologico e quindi la religione, pur comprendendone, come si è visto, la ratio, l’ultimo Comte giunge, nel Sistema di politica positiva, al riconoscimento della necessità, per la (nuova) società, di una religione positivista la cui finalità è quella della coesione tra gli individui; una finalità affidata non alla venerazione di entità trascendenti il mondo dell’uomo, bensì alla condivisione di valori comuni (contenuti appunto nella religione dell’umanità e nei quali gli individui sentono costituirsi una realtà a essi superiore) che può però efficacemente ottenersi solo orientando verso di essi l’affettività individuale[36]. Insomma, la religione, ancorché positiva, e che non sembra quindi poter far a meno delle emozioni, svolge la funzione di garantire coesione e solidarietà sociale attraverso la credenza in una comune fede che costituisce quel «principio unificante della società capace di contenere le spinte centripete insite negli interessi egoistici degli individui»[37].

Se è così, ne segue che sembra avere ragione chi, come Chris Shilling, ritiene che Comte meriterebbe di essere considerato per la sua tematizzazione delle emozioni come un mezzo attraverso cui si riproducono l’azione morale e l’ordine sociale, oltre e forse più che per la loro presenza nella sua «sociologia religiosa»[38]. Del resto, che Comte abbia una notevole importanza nella storia della sociologia per il suo contributo a quella tradizione sociologica secondo cui le società non possono esistere a prescindere da un certo grado di integrazione morale, principi e valori comuni, e che questa idea sia ben presente nel suo discorso sulla religione, è stato già rilevato dagli storici della sociologia[39]; si tratta di quella tradizione che, differenziandosi radicalmente sia da quella razional-utilitaristica che da quella marxista (o del conflitto), costituisce la tradizione durkheimiana (o dell’ordine sociale). Ciò che non da ieri un acuto storico e teorico della sociologia come Randall Collins ha ulteriormente evidenziato è che questa tradizione «si incentra sui temi delle forze emotive, della moralità, […] del religioso ed afferma che è questa l’essenza di tutto ciò che è sociale»[40].

Per ciò che riguarda Comte, è proprio la «religione dell’umanità», in cui culmina la sua visione della moralità, a possedere quella peculiare «capacità di stimolare emozioni che legano gli individui all’interno di un senso di unità che raccoglie le generazioni passate e presenti»[41]. Ma se ciò è possibile, è anche per l’idea che Comte ha della natura umana: nel primo tomo del Sistema di politica positiva, egli la considera come duplice, composta dal cuore e dalla mente/intelligenza oppure triplice, composta, cioè, oltre che dalla mente/intelligenza, da due dimensioni del cuore, i sentimenti/affetti e la volontà/attività[42]. Non solo: (almeno) l’«ultimo» Comte è convinto che l’impulso ad agire provenga soprattutto dal sentimento, anima dell’umanità, e che alla mente sia riservata una funzione di controllo e direzione dell’impulso emozionale ad agire[43]. Nell’ultima fase della sua vita e produzione Comte sostiene, quindi, «il prevalere dell’affettività sulla razionalità»[44]; si pensi, come è stato suggerito[45], alla dedica del suo Discorso preliminare sull’insieme del positivismo, scritto nel 1848 e poi inserito nel primo tomo del Sistema di politica positiva, che recita: «Si cessa di pensare, ed anche di agire; non si cessa di amare»[46]. E si potrebbero citare anche altri passaggi comtiani; ad esempio:

Il positivismo eleva […] ormai a dogma fondamentale, filosofico e politico ad un tempo, la preponderanza continua del cuore sullo spirito[47].

Insomma, se si considera l’opera di Comte nella sua interezza, sembra potersi dire che per lui il positivismo, lungi dall’essere solo uno strumento per indagare la società nei termini di ciò che Durkheim avrebbe definito «fatti sociali», si configura anche come un modo di descrivere la società, e anzi di contribuire a essa, come un’entità morale, comprendente le capacità non solo intellettuali bensì anche emozionali delle persone, in via di evoluzione. È significativa al riguardo la sua valutazione dell’Illuminismo: Comte giudicava, sì, positivamente la «liberazione», frutto dell’Illuminismo, del pensiero umano dalla conoscenza di tipo tradizionale (teologico e metafisico), ma riteneva anche che la razionalità illuministica e l’individualismo a essa legato si caratterizzassero per un egoismo e un materialismo in grado di erodere le emozioni sociali e quindi di compromettere i valori posti a fondamento della coesione sociale. Tanto è vero che egli considerava l’Illuminismo non un momento culminante della storia, bensì solo un episodio nell’evoluzione del genere umano, cui avrebbe potuto positivamente contribuire, oltre che un adeguato sviluppo intellettuale, anche quella stimolazione delle emozioni collettive legata in particolare, come si è visto, alla «religione dell’umanità»[48].

E se volessimo provare a immaginare la nozione, per così dire, emergente di attore sociale comtiano, dovremmo sottolinearne la multidimensionalità e quindi il ruolo non secondario delle emozioni; come è stato scritto,

Comte critica […] il carattere riduttivo degli schemi utilitaristici dell’economia classica, sottolineando che i comportamenti umani non possono essere compresi soltanto a partire dal presupposto della razionalità e della logica fondata sul calcolo degli interessi, ma devono anche essere interpretati tenuto conto del loro contenuto emotivo[49].

Beninteso, non si sta qui proponendo una «lettura» della sociologia di Comte diversa da quella tradizionale che lo ascrive al cd. paradigma della struttura[50], oltre che a quello dell’ordine sociale. È fuori discussione, in altri termini, il carattere olistico della sua prospettiva: la sociologia è per lui lo studio della società quale entità sui generis dotata di tale complessità e autonomia da poter e dover essere studiata come totalità diversa dalla mera somma delle sue singole parti; ché anzi la primazia della società sugli individui sembra costitutiva della «nuova scienza» che egli ha l’ambizione di fondare. Tuttavia, se si considera l’intera opera di Comte, non si può dire che gli individui siano incondizionatamente sacrificati alle strutture societarie, e neppure, soprattutto, che essi siano configurati come privi di sentimenti ed emozioni. Come si è visto, nella sua ultima opera, il sociologo francese, la cui formazione pure molto deve al razionalismo scientifico di derivazione illuminista, sottolinea il primato della dimensione affettiva su quella della ragione; l’ultimo Comte, insomma, nella ricerca di nuovi fondamenti morali e valoriali in grado di contribuire non solo a riorganizzare la società, bensì anche a garantirle un ordine duraturo attraverso forme universali di consenso e solidarietà sociale, fa chiaramente appello ai sentimenti e alle componenti emotive e non razionali della psiche umana[51].

In conclusione, il positivista Comte, come dovrebbe essere ormai chiaro, riconosce una qualche rilevanza alle emozioni per l’azione sociale. La sua intuizione sul loro ruolo rispetto alla riproduzione e/o al controllo dell’ordine sociale verrà ripresa e sviluppata da Dukheim. Sulla «sociologia delle emozioni» di quest’ultimo non è naturalmente questo il luogo per soffermarci[52]; nondimeno, si può osservare come sia Comte che Durkheim, alfieri del paradigma della struttura e quindi della primazia della società sugli individui, sembrino attribuire alle emozioni decisive potenzialità per il futuro dell’umanità:

[se] l’approccio di Comte all’evoluzione e allo sviluppo delle emozioni era plasmato dalla sua convinzione riguardo all’apparizione di una religione dell’umanità, […] la speranza di Durkheim che nuovi periodi di effervescenza collettiva avrebbero rivitalizzato le società moderne attenuava le sue paure riguardo alle minacce all’ordine sociale e morale[53].

  1. Una breve conclusione: Comte e la sociologia delle emozioni

Alla luce delle precedenti considerazioni credo che Comte possa essere ben annoverato in una «storia della sociologia delle emozioni prima della sociologia delle emozioni». Non è questa la sede per tematizzarlo, ma anche altri «padri fondatori» (e classici) della sociologia quali Weber e Simmel[54], Pareto[55], oltre al già ricordato Durkheim, possono esservi ragionevolmente ricondotti. Con una precisazione conclusiva fondamentale: chi, come Paolo De Nardis[56], ha parlato giustamente, e anzi suggestivamente, di una «sociologia delle emozioni prima della sociologia delle emozioni» ha avuto a mio parere il torto di aggiungere che «le riflessioni tipiche di una sociologia delle emozioni sono almeno tanto antiche quanto la sociologia»[57]. Quest’ultima affermazione appare sottoscrivibile solo parzialmente: è vero che la sociologia classica ha fornito alcune significative anticipazioni rispetto alla sociologia delle emozioni contemporanea; qui abbiamo considerato Comte, il quale ha intuito il ruolo delle emozioni nella riproduzione dell’ordine sociale e la rilevanza dei rituali sociali per la stimolazione delle emozioni. Ma queste intuizioni (come quelle di altri «classici» del pensiero sociologico) non sono state il frutto di una esplicita tematizzazione delle emozioni; esse emergono all’interno di diversi ambiti riflessivi, quali, nel caso di Comte, quello della religione e quello della integrazione (o coesione o ordine) sociale, che certamente figurano, al contrario dalle emozioni, nell’elenco degli argomenti oggetto della sociologia classica. E soprattutto, e direi conseguentemente, tali intuizioni sono rimaste tali, prive di quegli approfondimenti che, ad esempio, e per rimanere a Comte e alla sua intuizione sui rituali, avrebbe poi fornito la teoria sociologica rituale delle emozioni sviluppata da Randall Collins e successivamente da Erika Summers-Effler.

Insomma, dopo aver, per così dire, enfatizzato la veste di sociologo ante litteram di Comte, sembra altrettanto opportuno precisare che è solo con nascita della sociologia delle emozioni (in senso stretto o proprio) avvenuta attorno alla metà degli anni settanta del secolo scorso negli Stati Uniti che le emozioni cominciano a essere tematizzate in modo non solo esplicito, come pure qualche sociologo classico ha fatto, bensì anche diretto, cioè quale oggetto prioritario di studio, e sistematico, con l’elaborazione di modelli teorici talvolta anche piuttosto elaborati[58]. La sociologia delle emozioni è figlia, da un lato, della stessa «cultura emozionale» imperante in quel periodo, soprattutto in area nordamericana, dall’altro, di un certo «ri-orientamento scientifico»[59] interno alla stessa sociologia, che ha cominciato ad esempio a prendere sul serio l’ambito micro[60]. Diversamente da altre branche sociologiche tra cui la stessa sociologia della religione, essa non costituisce quindi l’esito di quel processo di specializzazione e frammentazione disciplinare che ha portato al riconoscimento anche accademico di sociologie (specialistiche) che di fatto erano in realtà sempre esistite. La sociologia delle emozioni, si potrebbe dire, poggia assai meno di altre branche sociologiche «sulle spalle» dei «padri fondatori» della sociologia; ma laddove questi ultimi possano essere individuati, essi meritano di essere considerati e studiati per il contributo che hanno saputo dare molto prima che la sociologia prendesse seriamente e definitivamente coscienza della rilevanza sociologica delle emozioni: Auguste Comte figura certamente tra questi.

Paolo Iagulli

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[1] Per una prima introduzione al sociologo francese, che se non è il fondatore della sociologia (sull’impossibilità di individuare un’unica paternità rispetto alla nascita della sociologia, cfr. F. Ferrarotti, 1994, 36-42) è stato certo il primo a definire così la disciplina che studia la società e le relazioni sociali, si vedano, tra gli altri, A. Santanbrogio, 2008, 27-33; F. Crespi, P. Jedlowski, R. Rauty, 2000, 58-66; A. Izzo, 1994, 63-75, e L.A. Coser, 1983, 17-63; a quest’ultimo si rinvia anche per una sua breve biografia e per una ricognizione del contesto intellettuale e sociale nel quale egli operò. Per una considerazione più complessiva del suo pensiero, ancora validi risultano i lavori di R. Aron, 1989, 83-134, e dello stesso Ferrarotti: di quest’ultimo, si vedano almeno, oltre al più frequentemente citato F. Ferrarotti 1994, anche F. Ferrarotti, 1967 e 1977. Nell’ambito della letteratura straniera, fondamentali sono i tre volumi di M. Pickering, 1993-2009.

[2] Cfr. L. Coser, 1983, 30.

[3] Si consideri anche il modo in cui Coser conclude la sua ricostruzione sull’uomo Comte: «[r]imaniamo […] con una duplice immagine […]: il creatore della prima importante sintesi sociologica e il patetico Papa dell’Umanità» (L.A. Coser, 1983, 62). Ebbene, il rilievo di Coser riportato sopra nel testo appare perlomeno eccessivo: distinguere il Comte che ha contribuito a fondare la sociologia dal Comte «sociologo della religione» è legittimo, come lo è il rilevare il suo tono immodestamente profetico; lo è meno, come proveremo a evidenziare nel testo, inferirne lo scarso spessore o addirittura carattere sociologico delle riflessioni comtiane sulla religione (e sulla integrazione sociale).

[4] F. Ferrarotti, 1967, 12. Ciò è strettamente legato al contesto storico e geografico nel quale Comte operò, che è quello successivo alla Rivoluzione francese; come è noto, egli non riteneva, né auspicava, che la crisi e le rovine che ne seguirono portassero a un ritorno all’«ordine» del passato, cioè alla Restaurazione (la tesi dei reazionari, o tradizionalisti, de Maistre e de Bonald): il «progresso» non poteva essere più fermato, ma solo, per così dire, controllato.

[5] Cfr. C. De Boni, 2013, 15. Per la suddivisione in tre tappe del pensiero di Comte, cfr. R. Aron, 1989, in part. 83-91, il quale non manca peraltro di sottolineare come il fatto che gli Opuscoles siano stati ripubblicati da Comte alla fine del tomo IV del Sistema testimonia la tendenza da parte del sociologo francese ad affermare l’unità del suo pensiero, oltre che la grandiosità (come è noto, Comte non aveva il dono della modestia).

[6] Cfr. R. Nisbet, 1987, 316-317.

[7] Che siano state le sue vicende esistenziali e amorose a portare l’ultimo Comte a trasformare il positivismo da dottrina scientifica a religione e a considerare il sentimento importante almeno quanto l’intelletto, lo illustra largamente, ad es., W. Lepenies, 1987, 31-62.

[8] Cfr. R. Cipriani, 2009, 5. Altro discorso è quello della istituzionalizzazione della sociologia della religione come branca autonoma che avvenne soltanto intorno agli anni cinquanta del secolo scorso (cfr. E. Pace, 2007, 9-13).

[9] G. Filoramo, C. Prandi, 2002, 105-106.

[10] E. Pace, 2007, 26.

[11] Cfr. ibidem.

[12] Ivi, 27.

[13] Ibidem.

[14] A. Comte, 1967, vol.2, 329.

[15] F. Ferrarotti, 1967, 11.

[16] Si veda, al riguardo, il recente C. De Boni, 2013; mi limito qui a ricordare che le chiese ispirate alla dottrina comtiana sono ormai in numero assai esiguo, confinate in qualche città brasiliana: «sufficienti per testimoniare che l’idea non è morta del tutto, ma tali da smentire clamorosamente le previsioni in campo religioso di Comte. Il quale vedeva dopo di sé un movimento progressivo in cui la religione dell’Umanità avrebbe sostituito le vecchie confessioni a base teologica» (C. De Boni, 2013,12).

[17] Cfr., sul punto, M.C. Nussbaum, 2014, 73-104, la quale sottolinea sia l’ammirazione del filosofo inglese per Comte che le critiche a certi aspetti della sua riflessione; diversamente, ad es., L.A. Coser (cfr. 1983, 37), il quale afferma che col Sistema di politica positiva Comte perse del tutto la maggior parte dei suoi seguaci tra cui lo stesso Stuart Mill.

[18] R. Aron, 1989, 130.

[19] Ivi, 131.

[20] Ibidem.

[21] A. Santambrogio, 2008, 32.

[22] Cfr., ad es., A. Bagnasco, M. Barbagli, A. Cavalli, 2012, 250, e G. Fele, 2005, 103-104.

[23] Come è noto, esistono anche altre interpretazioni sociologiche generali della religione, quali, ad esempio, quelle conflittualista (o marxista), del mutamento sociale e fenomenologica: per una primissima introduzione, cfr. A. Bagnasco, M. Barbagli, A. Cavalli, 2012, 250-252.

[24] A. Izzo, 1974.

[25] Ivi, 165.

[26] A. Comte, 1969, 746-747.

[27] Si veda, in part., M.C. Nussbaum, 2004.

[28] M.C. Nussbaum, 2014, 77.

[29] C. De Boni, 2013, 9.

[30] Concettualmente, possiamo dire che la religione civile è una specie del genere religione secolare; nell’ambito di quest’ultima possiamo cioè distinguere, tra le altre (alcuni vi ascrivono anche le cd. religioni politiche come il marxismo, il comunismo e il socialismo), le religioni civili dalle religioni dell’umanità. Quella di Comte è una religione dell’umanità, perché ha a oggetto l’uomo e la società, cui vengono attribuiti quei caratteri prima attribuiti al Dio cristiano; anche le religioni civili presentano una dimensione laica, ma sono strettamente legate alle idee di nazione, patria e Stato, e caratterizzate quindi da un’idea di appartenenza e integrazione di carattere nazionale e non universale (cfr. F. Garelli, 1999, 172).

[31] Cfr. M.C. Nussbaum, 2014, 76.

[32] F. Garelli, 1999, 171.

[33] M.C. Nussbaum, 2014, 80 e 82: corsivo mio.

[34] Cfr. ivi, 83.

[35] Ivi, 86.

[36] Cfr. A. Izzo, 1994, 69-70.

[37] M. Rosati, 2005a, 25. Sulla rilevanza di Comte rispetto a entrambi i temi, quello della religione e quello della solidarietà sociale, quali autentici tòpoi della teoria sociale e sociologica (cfr. A. Ferrara, M. Rosati, 2005), si vedano le brevi ma acute osservazioni di M. Rosati 2005a e 2005b.

[38] Cfr. C. Shilling, 2002, 16-18.

[39] Cfr., ad es., A. Izzo, 1994, 70-71.

[40] R. Collins, 1996, 131: corsivo mio.

[41] C. Shilling, 2002, 16.

[42] Cfr. R. Aron, 1989, 114-115.

[43] Cfr. ivi, 115.

[44] D. Simon, 2011, 36.

[45] Cfr. ivi, 36-37.

[46] A. Comte, 1969, 410.

[47] Ivi, 426.

[48] Cfr. C. Shilling, 2002, 16-17 e 25.

[49] F. Crespi, P. Jedlowski, R. Rauty, 2000, 63: corsivo mio.

[50] Sulla fondamentale contrapposizione tra paradigma della struttura e dell’azione (cui andrebbe peraltro aggiunto anche quello della relazione: cfr., almeno, e da ultimo, P. Donati, 2013) che ha attraversato l’intera storia del pensiero sociologico, cfr. V. Cesareo, 1993, 5-63 e, più brevemente, A. Cavalli, 2001, 37-47.

[51] F. Crespi, P. Jedlowski, R. Rauty, 2000, 59-60.

[52] Si veda, al riguardo, in part., W.S.F. Pickering, 2006.

[53] C. Shilling, 2002, 25.

[54] Sulla «sociologia delle emozioni» di Weber e Simmel si vedano, rispettivamente, G. Fitzi, 2011, e G. Turnaturi, 1994. In linea del tutto generale, e proseguendo il discorso contenuto nell’ultima parte del terzo paragrafo del testo, si può rilevare il paradosso per cui Weber e Simmel, ispiratori rispettivamente del paradigma dell’azione e della relazione, e comunque teorici entrambi della primazia degli individui sulla società, «sembrano riconoscere la supremazia causale finale dell’insieme sociale» (C. Shilling, 2002, 26) sugli individui: mentre Comte e Durkheim, sociologi dell’ordine e teorici della primazia della società sugli individui, sembrerebbero finire ottimisticamente col riservare alle emozioni un ruolo importante per il futuro dell’umanità, nel pensiero di Weber e Simmel appare pessimisticamente profilarsi la «sconfitta» delle emozioni, insieme a quella degli individui, più o meno irrimediabilmente «ingabbiati» nei processi rispettivamente di razionalizzazione e di intellettualizzazione.

[55] Sulla «sociologia delle emozioni» di Pareto si veda A. Mutti, 1992, contributo pionieristico nell’ambito della sociologia italiana (delle emozioni).

[56] P. De Nardis, 1999, 86.

[57] Ibidem.

[58] Per una vasta e articolata introduzione alle teorie sociologiche sulle emozioni, rinvio a J.H. Turner, J.E. Stets, 2005. La varietà non solo di prospettive teoriche, bensì anche di temi che la sociologia delle emozioni in particolare in area anglosassone fa ormai registrare è significativamente attestata, tra l’altro, dal rilievo di alcune pubblicazioni manualistiche e/o collettanee: penso soprattutto a J.H. Turner, J.E. Stets, 2006, e anche, ad esempio, a J. Barbalet, 2002.

[59] Ghisleni, 2004.

[60] Sulla nascita della sociologia delle emozioni, cfr. P. Iagulli 2011, 11-14 e 41-66.

Comte, emotions, social order, Sociology of emotions, «religion of Humanity»

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