Rivoluzione e pensiero

di Giuseppe Fidelibus

Correva l’anno 1918 quando, redigendo un bilancio delle sue riflessioni sulla filosofia sociale, N. Berdjaev scrive perentoriamente:

«Il bolscevismo ha mostrato cosa sia il messianismo rivoluzionario, e questo è un suo merito. Ma il bolscevismo ha anche il merito di aver smascherato la menzogna dell’umanesimo, cui ancora restano interamente attaccati i socialisti rivoluzionari. Nel bolscevismo l’umanesimo si trasforma nel suo opposto, nell’annientamento dell’uomo. Rimane sempre la contrapposizione tra maggioranza e minoranza, tra le vette spirituali della vita e i suoi bassifondi materiali. E rimane in eterno la verità dell’aristocrazia dello spirito, l’antica verità dell’umanità, che nessuna rivoluzione può rovesciare»(1).

L’osservazione del filosofo russo ci aiuta a situare nel centro storico-cronologico del fenomeno rivoluzionario un primo rilievo: la difficoltà dell’uomo a pensare questo fenomeno in cogente fedeltà a sé stesso e non appena alle sue pur legittime aspirazioni alla perfezione morale. «Annientamento dell’uomo» dice, anzi, la deriva nihilista che l’istanza umanistica moderna deve accusare nella forma che ne costituisce il vertice dello sforzo storico-politico e morale: il bolscevismo russo. Ciò premesso, non intendiamo tanto, in questa sede, presentare una ricostruzione analitica dell’argomento sul piano storiografico quanto svolgere un genuino lavoro di memoria: raccogliere, cioè qualche elemento per ripensare il presente alla luce delle sfide teoretiche che quel fatto (la Rivoluzione dell’ottobre 1917) ha contribuito a mettere in evidenza al cospetto del pensiero. Tutto questo in un contesto dove tutto sembra concorrere a dimenticare, a rimuovere nell’anonimato di un passato, pur rilevante, la richiesta di domanda e di vita per la verità di noi stessi che connota sempre la giovinezza umana come avventura presente del pensiero. Al di là di ogni febbrile militanza per un ideale di azione, pur giusta, proviamo a rendere la memoria di quel fatto un’occasione privilegiata per ripensare le ragioni di quello che fu – che è stato e potrà sempre tornare ad essere – il fenomeno rivoluzionario e la sua radicalità. In questa possibilità di memoria ne va – sul piano della ragione nel suo moto storico – di una favorevole presa di coscienza critica anche sul nostro tempo presente. Vuoto di memoria è vuoto di ragione privata della sua esperienza storica: ridotta ad un gioco da ragazzi, rassegnata al ricordo nostalgico, sradicata dal presente del suo passato, consegnata ad ogni cinismo autogiustificatorio.

Contesto: il rovesciamento epistemico di una domanda

All’alba del XX secolo la Russia presenta, di fatto, una cultura florida (2), un’economia in crescita (3) ma un vuoto politico che sfocia in violenza: il primo sussulto rivoluzionario del 1905 – tra la guerra col Giappone e la cosiddetta «domenica di sangue» (4) – attesta la gestazione critica in corso. Il vuoto politico investe la società a partire dalle sue istituzioni nella forma di un decadimento del senso stesso dell’autorità preposta.

«Il vecchio regime – constata, dal canto suo, l’ex pensatore marxista N. Berdjaev – la nostra vecchia monarchia non è stata rovesciata dalla rivoluzione, essa si è putrefatta, si è corrotta ed è caduta ingloriosamente come cade dall’albero una mela marcia (…) Proprio tali processi di putrefazione della vecchia Russia qui da noi vengono presi come “sviluppo e vittoria della rivoluzione”. L’atroce nihilismo che trionfa in questi processi degenerativi è un fenomeno della vecchia Russia e non la creazione di quella nuova. In Russia è caduto un regime e non è stato sostituito da nessun regime nuovo. Si è instaurato un vuoto di potere (…) La catastrofe che si è abbattuta sulla Russia non si può chiamare rivoluzione (…) La presente catastrofe non  ha prodotto un cambiamento della forma di potere statale, non ha creato un nuovo regime con forze organizzate, ma è l’abolizione dello Stato, l’impotenza a organizzare un qualsivoglia regime statale»(5).

In tale contesto, entrambe le istituzioni – Stato e Chiesa – sopravvivono tra la gente nella parvenza di pratiche imposte che, sul terreno di una libertà effettiva, non troverebbero alcuna osservanza deliberata. La stessa Chiesa ortodossa russa sopravvive rinchiusa nel ruolo di stampella spirituale del potere statale e quest’ultimo in posizione sempre più distante dalle attese e dalla vita della gente. Lo attesta un dato storico eloquente: l’elezione politica, per via statale, del Patriarca ortodosso prevista dalla riforma imposta nel 1721 dallo zar Pietro il Grande – riforma che, sostituendo il patriarca con un funzionario statale laico (il procuratore generale del Santo Sinodo), l’ha di fatto trasformato in un dicastero statale. Il vuoto politico assume, vieppiù, i tratti del potere di un pensiero unico al potere. Una medesima autocrazia statale finisce per avocare a sé ed ai propri fini di potere la stessa divisione – ormai incolmabile – tra Chiesa e popolo; ancora Berdjaev: «Si lamentano che la Chiesa avrebbe abbandonato il popolo. È vero. Però c’è anche l’altra faccia della medaglia. È il popolo stesso che ha abbandonato la Chiesa» (6).
La funzionalità diretta del vuoto politico alla forma autocratica del potere nel quadro della situazione oggettiva nazionale (ma anche internazionale) della Russia prerivoluzionaria non può essere considerato dato irrilevante per chi voglia, dunque, anche solo tentare l’avventura della ricerca delle cause prossime o, anche solo, remote della rivoluzione stessa. È dato storico che costringe a pensare ed a pensarne le cause. È quanto ci dimostra il recente saggio sulla rivoluzione redatto da V. Strada, autorevole studioso della storia e della cultura russa. La complessità di quel fenomeno non nasconde quella delle sue stesse cause. Vi si può leggere, in continuità coi motivi sin qui raccolti: «le cause immediate sono individuabili nell’estremo ritardo delle riforme politiche del sistema zarista e nel conseguente estraniamento dalla vita statale dei ceti colti attivi portati a una opposizione radicale: nelle tensioni sociali accumulate e soffocate sotto l’antico regime e nell’aspirazione delle masse popolari, nella stragrande maggioranza contadine, che la guerra aveva messo in divisa e gettato nelle trincee, a una cessazione del conflitto e a un’assegnazione della terra, aspettative che il governo provvisorio non riuscì a soddisfare nel breve e turbolento periodo della sua attività, lasciando spazio alle suggestioni ultrarivoluzionarie. Tutto ciò aiuta a capire come e perché prevalsero i bolscevichi» (7). L’acuta osservazione dello storico costringe a ritenere che, quanto alla domanda sul «da dove» del fenomeno rivoluzionario russo, non sono sufficienti ad evitarla lo sviluppo economico russo né l’elevata e raffinata tradizione culturale. Giova dunque assecondare la domanda dello storico assumendola sul piano di una ricerca teoretica che ne approfondisca profittevolmente i connotati significativi. Egli approfondisce presto la sua osservazione sulle cause immediate di quel fenomeno, inducendo egli stesso la linea di continuità esigenziale tra il piano storico e quello teoretico di quella domanda guida e, dunque, della ricerca che ne può conseguire.
Un suo secondo rilievo storico ce ne può fornire l’abbrivio:

«al di là della situazione oggettiva nazionale e internazionale, che fa della rivoluzione un evento maturato nella realtà, decisiva fu l’azione di un soggetto: Lenin, che con la sua creatura, il partito dei “rivoluzionari di professione”, e la sua teoria, il marxismo rivitalizzato e adattato alla nuova realtà russa e mondiale, fu il demiurgo della rivoluzione. La sua azione tattica e strategica – prosegue V. Strada – nei pochi mesi tra febbraio e ottobre, e poi anche nel periodo successivo, fu quella di un machiavellico “moderno Principe” armato di una teoria “scientifica” ritenuta insuperabile e guidato da una totale spregiudicatezza nell’uso dei mezzi considerati necessari al fine di conquistare e conservare il potere, un potere incarnato nella sua persona, ma al servizio di quell’Assoluto che per lui era la rivoluzione comunista. Lenin si sentiva attivo strumento razionale di quella impersonale forza oggettiva che è la Storia quale era stata “rivelata” nei suoi meccanismi da Marx e adesso era culminata nella grande occasione rivoluzionaria» (8).

L’azione di un soggetto – Lenin – autoconcepitosi come «strumento razionale» della «forza oggettiva che è la Storia» sta in capo alle principali cause prossime della rivoluzione; le sue credenziali principali sono dunque uno strumento indispensabile – una teoria scientifica – ed uno scopo all’azione, la conquista e la conservazione del potere. Tutto ciò, considerato nel contesto storico di vuoto politico, fa la differenza in termini propri di attiva ed efficace causalità storica, in senso rivoluzionario. Fin qui la storia. Occupiamoci ora di verificare innanzitutto la questione-guida su cui teoria ed azione trovano convergenza sintetica, sul piano del pensiero, nelle ragioni di un tale «demiurgo», protagonista centrale del processo rivoluzionario russo. Ciò senza voler entrare nel merito di un giudizio storico-morale sulla giustezza o meno di un tale processo, né dei suoi propugnatori, a ormai cento anni dal suo verificarsi.
Nel mezzo della catastrofe che si abbatte sulla Russia egli fa risuonare forte una domanda cui s’applica con un’opera nota a tutti come «il testo di riferimento» (9) di quel partito di «rivoluzionari di professione» identificabile storicamente col nascente bolscevismo. Con l’opuscolo Che fare?, uscito nel 1902, Lenin trova il modo per dotare di idee orientative il nascente gruppo rivoluzionario, nella preoccupazione di una sua formazione dottrinale volta ad orientare la sua coscienza rispetto allo sviluppo storico delle masse. L’apparato teorico-ideologico del pensiero marxista viene a patrocinare così la costituzione di un partito che guidi l’azione storico-politica della società russa nell’ambito del crescente vuoto politico di cui s’è detto. Il successo politico reale irriderà a quest’azione solo più tardi (1917) ma il lungo «lavoro dottrinale» inizia già prima del sussulto rivoluzionario del 1905: in capo ad esso campeggia la domanda – che fare? L’azione politica (il fare) ed il suo successo storico costituiscono dunque il focus teoretico di quel lavoro, come dell’impegno pratico in senso rivoluzionario. La tradizionale focalizzazione del pensiero sul vero del «perché?», del «chi sono?» e del «che senso ha?», sul terreno dell’essere, viene qui rovesciata a favore di una prassi politico-economica che ora avoca a sé tutta l’attività pensante dell’uomo. Il sostanziale rovesciamento epistemico investe il nucleo fondante di ogni tradizionale ragione filosofica; lo fa ben intendere – in un saggio del 1968 – J. Ratzinger, profilando così tutta l’originalità del pensiero di K. Marx e della tradizione marxista:

«“Sinora i filosofi hanno contemplato il mondo, d’ora in avanti dovranno accingersi a cambiarlo”. Il compito della filosofia viene ancora una volta rivoluzionato di bel nuovo sin dalle radici. Tradotta nel linguaggio della tradizione filosofica, questa massima ci viene a dire che al posto del “verum quia factum” (è conoscibile, pregno di verità, solo ciò che l’uomo ha fatto ed ora è in grado di contemplare), subentra un nuovo programma condensato nella formula “verum quia faciendum” (la verità che d’ora in poi interessa, è la fattibilità). Per dirla ancora in altri termini: la verità con cui l’uomo ha a che fare, non è né la verità dell’essere, e in ultima analisi nemmeno quella delle azioni da lui compiute; è invece quella del cambiamento del mondo, della sua modellatura: una verità insomma proiettata sul futuro e incarnata nell’azione»; nel marxismo, aggiunge Ratzinger appena dopo, «il faciendum, vale a dire il futuro da creare di nostra iniziativa, rappresenta al contempo l’unico senso dato alla vita dell’uomo (…) L’elemento – conclude – che fa apparire questa fede marxista oggi (e si parla del ’68!) tanto attraente e direttamente accessibile, è l’impressione di perfetta armonizzazione con la scienza applicata al fattibile da essa destata»(10).

In questo rovesciamento epistemico di una domanda risiede dunque il fattore di pensiero che presiede alle «cause immediate» della rivoluzione russa, proprio laddove si radica la paternità marxista sul pensiero del suo primo protagonista: laddove, cioè, massima risulta l’incidenza di quella teoria scientifica – «ritenuta insuperabile» – di cui Lenin si dota, «guidato da una totale spregiudicatezza nell’uso dei mezzi considerati necessari al fine di conquistare e conservare il potere». È proprio questo rovesciamento epistemico a fare storia nella storia della rivoluzione russa: su di essa pesa dunque una paternità tutt’altro che slava o asiatica, bensì europea nel senso del pensiero marxista rielaborato da Lenin. Si tratta di un colpo di mano che, prima di essere politico-istituzionale o economico, è genuinamente un «colpo-di-pensiero»: con esso il pensiero si pone al servizio del cambiamento del mondo, immunizzandosi dalla domanda sulla sua verità. Le risposte che la storia documenterà con la rivoluzione saranno quelle date ad una domanda «manomessa» già nel – e dal – suo senso originario. Esse s’insedieranno, anzi, astraendo dalla questione del senso stesso del soggetto che quella domanda sarà impegnato ad affrontare: che fare? Il processo storico-politico che consegue ad una tale astrazione è stato, a ragione, indicato da V. Strada come «movimento ideopolitico»(11). Il «fare» dell’agire rivoluzionario è volto infatti a sottoporre ormai la realtà storica ad un’idea predeterminata sul terreno della «teoria scientifica». La stessa strutturazione geopolitica ne porterà, nell’esito, il segno analogico in senso «ideocratico»:

«La rivoluzione bolscevica – si legge ancora nel suo saggio – dalla quale è nato l’impero “ideocratico”, da una parte ha chiuso la Russia (…) in se stessa, in una isolante contrapposizione, con pretese di superiorità, a tutto il resto del mondo che avrebbe dovuto unirsi a lei in un mitico futuro impero mondiale comunista; dall’altra, le ha conferito una illusoria universalità più grande di quella cui poteva aspirare l’impero zarista con la sua religione (locale) ortodossa: l’universalità rivoluzionaria mondiale (…) In realtà l’impero “ideocratico” sovietico aveva una sua sacralità spuria, ma forte, fornita proprio dal marxismo assieme all’universalità rivoluzionaria» (12).

«Movimento ideopolitico» ed «Impero ideocratico» sono espressioni che segnalano efficacemente e documentano puntualmente, a nostro sommesso avviso, la patologica deriva dei fini che si verifica nel processo rivoluzionario russo a motivo del rovesciamento epistemico che vi presiede sul piano del pensiero. Una volta focalizzato il pensiero sul «verum quia faciendum» tutta la prassi storica si svuota nella forma del suo sacrificio all’ossessione dell’idea (scientifica). Il rovesciamento epistemico perpetrato nella domanda che fare? consegna l’agire storico rivoluzionario al regime totalitario dell’astrazione, astrazione non appena del pensiero ma dal pensiero. La questione della tenuta della correlazione «astratto-concreto», «vero-falso» al cospetto del pensiero diventa ineludibile per poter stabilire la tenuta di senso della domanda stessa come tale. Siamo così collocati all’origine di una pretesa oppure sulla soglia di una deriva? Anche la storia delle idee, sottesa al successo della rivoluzione dell’ottobre ’17 può apportare lumi in proposito.

Destituzione nihilistica della domanda: germe patogeno o deriva eterogenetica?

L’eredità marxiana, trattata performativamente da Lenin negli anni precedenti, contemporanei e successivi alla rivoluzione, s’inserisce pur essa dentro un contesto di idee e di movimenti storici che appartengono alla storia della filosofia ed a quella della cultura europea in generale. Ci accingiamo dunque ad un lavoro di disamina critica di quello che può essere ritenuto un «pensiero rivoluzionato».
In un suo saggio, ormai sciaguratamente introvabile (con studi del 1959-1960), E. Voegelin ricostruisce la complessa vicenda del rapporto tra movimenti intellettuali e movimenti politici di massa tra XIX e XX secolo. Il mito del mondo nuovo – questo è il titolo del volume, composito nella sua versione italiana – presenta quest’epoca come quella dei tentativi di trasformare le idee elaborate dai primi in contenuto dell’impegno storico-politico da parte dei secondi. Il fenomeno nuovo che, così, il XX secolo può registrare è la nascita dei cosiddetti «movimenti gnostici di massa»: un’inedita storica tra i movimenti intellettuali (solitamente elitari e ristretti in una forma di atopìa storicamente cooriginaria ad ogni frequentazione della riflessione filosofica) e movimenti politici di massa (proverbialmente restii, nella storia, ad elevarsi dall’impegno militante al piano della riflessione sistematica). Il quadro storico dei nostri tempi è, insomma, delineato da Voegelin alla luce di quel nuovo fenomeno tutto europeo: idee filosofiche come informatrici ed animatrici di prassi politica volta ad informare la vita e le istituzioni di popoli e nazioni. Il caso del comunismo e del nazismo sono entrambi accomunati da questo tratto saliente delle loro radici di pensiero. Ma, per meglio situare queste coordinate nel contesto del presente percorso, ci chiediamo con lo studioso tedesco: quale l’idea di fondo che presiede alle dottrine marxiste? In che senso essa ha contribuito a “dare pensiero” al processo rivoluzionario che ha portato all’ottobre ’17? Con tali domande ci collochiamo precisamente nel locus ove s’annida la radice teoretica del normativo «verum quia faciendum». La vicenda coinvolge certo essenzialmente la visione complessiva della storia ma, ancor più, la posizione peculiare che l’uomo vi occupa. Proviamo a seguire ancora il percorso di E. Voegelin per poter raccogliere elementi utili alle nostre considerazioni teoretiche sull’argomento qui a tema.
Nella seconda parte del suo saggio («Scienza, politica e gnosticismo») egli ricostruisce tutta la parabola attraverso la quale la filosofia ha contribuito all’istituzione ed allo sviluppo di una politica ricondotta nell’ordine epistemico della ragione, provvedendo (fin dall’epoca greca della sofistica) a sottrarla al dominio del potere incontrastato del mito o dell’opinione in voga. È la nascita della «scienza politica» come ambito della razionalità filosofica, quella politike episteme che si faceva forte di un’applicazione della ragione all’ordine intramondano come sovrastato da una «fonte trascendente dell’essere». Il «fenomeno nuovo» che lo studioso tedesco ravvisa nei nostri tempi non è tanto una trasmutazione dello statuto epistemologico di questa scienza – nel metodo come nel contenuto (13) –  bensì un’inversione, un capovolgimento sostanziale nell’approccio complessivo ad essa, il radicamento su di una diversa origine, l’irrompere di altro regime di pensiero:

«per un aspetto soltanto – osserva Voegelin – la condizione della scienza politica è cambiata (…) è venuto alla luce un fenomeno ignoto all’antichità, che permea di sé le nostre società moderne in maniera così totale che la sua ubiquità non ci dà quasi la possibilità di renderci conto di esso: il divieto di porre domande (…) ci troviamo di fronte a persone le quali sanno benissimo che e perché le loro opinioni non possono reggere all’analisi critica e, quindi, fanno divieto dell’esame delle loro premesse una parte essenziale del proprio dogma. Il fenomeno nuovo consiste appunto in questa condizione di consapevole, deliberata e sapientemente elaborata ostruzione della ratio» (14).

La novità stessa del fenomeno sarebbe, per Voegelin, l’insorgere di un ben preciso «dogma» che, preposto come «divieto» dell’esame critico delle premesse ad ogni possibile opinione, suona oramai come regressione dello statuto epistemico della «scienza politica» al suo momento pre-razionale, ovvero pre-filosofico: con ciò essa si ritrova, a-fortiori, ancora consegnata al dominio del potere indiscriminato dell’opinione in voga o, anche, a quello incontrastato ed irrazionale del mito. La filosofia stessa si ritrova a lavorare così alla reintroduzione della «condizione di consapevole, deliberata e sapientemente elaborata ostruzione della ratio» ovvero al suo contrario principio normativo. Essa stessa, ora, provvede allo svuotamento del suo proprio contributo alla storia del pensiero, cioè alla debilitazione di senso di sé stessa. Qui il pensiero si vede «rivoluzionato» sì ma in senso involutivo e, precipuamente, in termini dogmatici. Per di più, un tale, nuovo stato del pensiero non è, per Voegelin, senza paternità storica.
Nella sua ricognizione storica, egli sorprende proprio il pensiero marxiano applicarsi ad un’operazione simile trattando dell’uomo e dei suoi interrogativi sul senso della sua origine e della realtà tutta: «A tali interrogativi, fondati sull’esperienza “tangibile” secondo la quale l’uomo non esiste di per sé, Marx preferisce rispondere – fa notare ancora lo studioso tedesco – che essi sono “un prodotto dell’astrazione”. “Quando si indaga sulla creazione della natura e dell’uomo”, dice, “si fa astrazione dalla natura e dall’uomo”. La natura e l’uomo – aggiunge Voegelin – sono reali soltanto come Marx li concepisce nella sua speculazione» (15). Qui si fa osservare solo l’assoluta autoreferenzialità dell’asserto marxiano fino alla indimostrabilità dell’esistenza stessa di quelle realtà (natura, uomo). Ma presto la sentenza d’invalidamento delegittimante perseguita da Marx colpisce, con l’accusa di “astrazione”, anche il fenomeno della domanda medesima. L’argomentazione che Voegelin riporta è tratta, non senza pertinenza, direttamente dal testo forse più genuinamente filosofico del pensatore di Treviri: i Manoscritti economico-filosofici del 1844. Vengono segnalati i passi in cui si prende di mira l’insorgere stesso di quel fenomeno, come una minaccia. Come mai? «In realtà – prosegue Voegelin, riprendendo le affermazioni di Marx – la sua costruzione crollerebbe di fronte a questa domanda. E Marx come si cava d’impiccio? Egli suggerisce al suo interlocutore: “Rinuncia alla tua astrazione e rinuncerai anche alla tua domanda (…) Non pensare, non farmi domande”. L’uomo comune, tuttavia non è obbligato ad accettare il sillogismo di Marx e a pensare se stesso come non esistente perché è consapevole del fatto di non esistere di per sé (…) “per l’uomo socialista” – cioè per l’uomo che ha accettato la concezione di Marx del processo dell’essere e della storia – tale interrogativo “diventa un’impossibilità pratica”. Gli interrogativi dell’uomo comune sono così troncati dall’ukase del pensatore che non vuole permettere che la sua costruzione sia messa in pericolo. Quando parla l’“uomo socialista”, l’uomo deve stare zitto» (16). L’equivalenza individuata da Voegelin tra il «non pensare» ed il «non porre domande» ci porta nel nucleo teoretico di fondo che presiede alla paternità marxista sulla logica leniniana e, quindi, su quella che sta in capo alla prassi rivoluzionaria che anima l’ottobre ’17. Nel suo ordine il fenomeno stesso della domanda finisce per perdere il suo originario senso epistemico – fattore e principio di conoscenza scientifica – ed assume i tratti di una «impossibilità pratica»: la rinuncia ad essa viene a coincidere con la rinuncia ad ogni possibile astrazione. Ecco perché l’instaurazione di ogni prassi rivoluzionaria la esige come condizione necessaria e preventiva: questa stessa prassi non è concepita come moto di attualizzazione del pensiero bensì come definitivo congedo dal pensare, relegato ormai nel mondo della pura astrazione. La stessa «scienza» che patrocina la prassi rivoluzionaria è quella che ha rinunciato a se stessa come «impossibilità pratica» per far spazio all’uomo socialista che ne porta la rinuncia come norma del suo agire storico.
A questo punto la stessa politikè epistéme viene ad autonegarsi come scienza ovvero ricondotta al suo antico stato pre-filosofico e pre-scientifico. L’imperativo «divieto di porre domande» ne costituisce il suo aguzzino ed il suo stesso assassino. Il che fare? di Lenin incarna ormai coerentemente questa rinuncia all’astrazione e questa «impossibilità pratica» della domanda – cioè del pensiero – per parte della prassi politica bolscevica: non apre una prassi volta a “risolvere” la domanda in un suo attuale senso storico, bensì pone in atto una prassi che ne costituisce la norma della (e per la) sua preventiva rimozione concreta. Sta qui il centro propulsore della versione marx-leninista del «verum quia faciendum». In questo senso possiamo affermare che la prassi rivoluzionaria che produce l’ottobre ’17 nasce e si anima come culturalmente «spensierata»: la nota «scienza» che vi presiede lavora deliberatamente alla sua privazione-di-pensiero. Essa s’insedia sul «nulla» del pensiero come «nulla» della domanda in misura del loro concreto e comune divieto politico-pratico. È su questo crinale teoretico che Voegelin fa correre la coessenziale connotazione gnostica del nihilismo marxista: «Marx – osserva acutamente – non nega che l’“esperienza tangibile” attesti la dipendenza dell’uomo. Ma la realtà dev’essere distrutta: questo è il grande impegno della gnosi. Al posto della realtà si presenta lo gnostico che attesta l’indipendenza della sua esistenza mediante la speculazione» (17). In questa direzione l’intero movimento «ideopolitico», che impersonerà il soggetto storico della rivoluzione di ottobre e che presto darà luogo all’impero «ideocratico» sovietico, non è altro che la versione marxista di quelli che Voegelin denomina «movimenti gnostici di massa del nostro tempo». Quella «indipendenza della sua esistenza mediante la speculazione» opera in modo tale da asservirsi gnosticamente al nulla di-pensiero ed al nulla di-domanda: il passo verso lo svuotamento di senso e consistenza della realtà tout-court è già predeterminato. È in forza di questa predeterminazione teoretica in senso nihilistico che vi trova spazio anche l’istanza ateistica; in essa ed in forza di essa il nietzschiano «assassinio di Dio» come il marxiano ateismo non sono che, al contempo, condizione e approdo della distruzione speculativa e pratica della realtà. È propriamente essa che gioca ad insediare quella che abbiamo sentito denominare come «questa condizione di consapevole (v. coscienza di classe), deliberata e sapientemente elaborata ostruzione alla ratio». Voegelin si spinge fino al punto di parlare di vera e propria «truffa intellettuale»: per Marx

«la ragione non è la ragione dell’uomo, ma, nel già rilevato pervertimento dei simboli, il punto di vista del suo sistema. Si suppone che colui che lo interroga cessi di essere uomo: egli deve diventare uomo socialista. Marx in questo modo afferma che la sua costruzione del processo dell’essere (che comprende il processo storico) rappresenta la realtà (…) Nello scontro fra sistema e realtà è la realtà che deve cedere. La truffa intellettuale è giustificata mediante il rinvio alle esigenze del futuro storico che il pensatore gnostico ha speculativamente proiettato nel suo sistema» (18).

È questa preventiva negazione della realtà che segnerà, anche filosoficamente parlando, la radicalità della negazione ateistica di Dio nell’incidenza che il sistema marxista ottiene sulla rivoluzione russa come nell’organizzazione politica che ne conseguirà con l’ordine bolscevico. In altri termini: nella rivoluzione russa l’ateismo coincide col nihilismo in quanto negazione di principio della domanda che di Dio reclamerebbe la realtà e che, inversamente, della realtà esigerebbe l’origine, la paternità: negare Dio per negare la realtà e viceversa. Ciò assume anche un valore metodologico – quanto alla prassi rivoluzionaria: in questa il divieto di porre domande sostanzia praticamente e supporta metodologicamente la «condizione di consapevole, deliberata e sapientemente elaborata ostruzione alla ratio» in vista della conquista e della conservazione del potere. Rivoluzione senza (ovvero ostruzione della) ragione comporta vita sotto regime di astrazione dalla realtà e dall’esperienza. Ma anche: rivoluzione è astrazione da quel che c’è in nome di quel che ci «dovrebbe» essere – come «rinvio alle esigenze del futuro storico».
Siamo così al cuore dell’ideologia, connotata meno dal contenuto che dalla «sua forma di pensiero, dal primato dell’idea e della sua logica (ideo-logia) sulla realtà, così che un’idea, anche quella che appare come la migliore di questo mondo, può giustificare l’eliminazione della realtà e, soprattutto, delle persone reali» (19). La logica ferrea e dogmatica dell’idea come necessità storico-pratica (20) infonde così sulla vita sociale un clima di frustrazione e svuotamento del senso stesso del vivere: ai valori dello Stato, della famiglia, della nazione, della persona non corrisponde nulla di reale ma solo ambizione velleitaria priva del portato d’esperienza. In tale logica il pensiero cede ormai il posto a slogans fuori dalla vita ed una vita votata funzionalmente al conseguimento o mantenimento di un potere (21). La logica ferrea dell’idea si arma di ideologia al fine di giustificare – al cospetto della storia – anche la necessità pratica delle proprie vittime (22)… «per una giusta causa», vale a dire spacciando per necessità storica ogni azione volta allo svuotamento pratico della realtà – a costo della realtà: «La rivoluzione, scatenata – conclude V. Strada, commentando l’assassinio di quel rivoluzionario della prima ora che fu Trotskij per mano di un sicario di Stalin (1940) – divora anche i suoi artefici» (23). No, non è l’incoerenza all’idea che è centrale qui, bensì la stessa coerenza ad essa in quanto idea pura, senza volto e personalità; è la stessa fedeltà ad essa che comporta ed esige le sue vittime nel rigoroso adempimento di un dovere rispetto alla storia. Il preventivo nulla della realtà, della domanda su di essa, il nulla di pensiero stabilisce la necessità di una prassi operativa a cui l’ideologia assicura il rigore di coerenza storica.
L’itinerario fin qui percorso approda, al termine, ad una constatazione teoreticamente rilevante che tratteniamo al seguito dei passi segnati dalle riflessioni di E. Voegelin: il nihilismo, che sta in capo al fenomeno rivoluzionario bolscevico di marca marx-leninista, mentre svolge azione di destituzione della domanda, del reale, del pensiero, si palesa al contempo (sul piano pratico non meno che teorico) non come deriva eterogenetica – sul piano pratico dell’azione – rispetto alle premesse fondanti, bensì come vero e proprio germe patogeno per ogni prassi rivoluzionaria possibile. Fattore di pensiero destituente e debilitante il pensiero, in esso s’annida la patogenesi di ogni deriva ideologica del pensare. Esso costituisce un autentico «trascendentale» imperativo dell’azione storica cui s’applicano nihilisticamente, sul piano politico e storico-pratico, i rivoluzionari dell’ottobre ’17.
Ora, per concludere il nostro itinerario, dovremo passare ad una verifica della tenuta normativa di un tale pensiero non tanto sul piano storico-pratico quanto su quello propriamente teoretico ed al cospetto delle stesse premesse nihilistiche di quel pensiero. Anziché pretendere di rimuoverle ideologicamente (o preventivamente) preferiamo, dunque, seguirne l’approfondimento dall’interno più che dall’esterno delle loro coordinate storico-esperienziali.

Dall’ossessione dell’idea alla «critica pronunciata dalla vita»: aperture da un’esperienza

«C’è un fatto capitale, caratteristico del secolo XIX – leggiamo da K. Marx così come riportato da K. Löwith nel suo saggio Da Hegel a Nietzsche – e che qualsiasi partito deve riconoscere. Da un lato, stanno le forze industriali e scientifiche, giunte a tale vitalità quale nessuna epoca storica precedente poteva presentire. D’altro canto, si mostrano segni di una decadenza, che mettono in ombra i famosi orrori degli ultimi tempi dell’Impero romano. Nella nostra epoca, ogni cosa sembra essere congiunta al suo contrario. La macchina è dotata della forza meravigliosa di abbreviare il lavoro umano e di renderlo più fecondo, ma noi vediamo in qual misura essa conduca alla fame ed all’eccesso di lavoro. Le forze or ora scatenate della ricchezza diventano per uno strano gioco del destino le fonti della privazione. Le vittorie dell’arte sembrano essere comperate con una perdita di carattere. L’umanità diventa signora della natura, ma l’uomo si rende schiavo dell’uomo o schiavo della propria infamia (…) Il risultato di tutte le nostre scoperte e del nostro progresso sembra consistere nel fatto che le forze materiali sono fornite di vita spirituale, e che l’esistenza umana si istupidisce in una forza materiale. Questo antagonismo tra industria e scienza moderna, da una parte, e miseria e decadenza moderna dall’altra; questa antitesi tra forze produttive e rapporti sociali della nostra epoca costituisce un dato di fatto, un dato di fatto predominante, incontestabile, che si tocca con mano. Da molte parti ci si può lamentare di ciò; da parte di altri si può desiderare di liberarsi dalle capacità moderne, per sbarazzarsi in tal modo anche dei conflitti moderni: Oppure si può immaginare, che per giungere al proprio perfezionamento un progresso così decisivo nell’economia abbia bisogno di un regresso altrettanto deciso in politica. Per parte nostra non disconosciamo lo spirito scaltro, che continua gagliardamente a produrre tutte queste antitesi. Noi sappiamo che le nuove forze della società, per realizzare opere buone, non hanno bisogno che di uomini nuovi……» (24).

La questione dell’«uomo nuovo» appare, nella diagnosi marxiana della società alla metà del XIX secolo, come fattore preminente per ogni possibilità di rivoluzionare la società. La liberazione dalle contraddizioni della società, tra progresso tecnologico e schiavizzazione dell’uomo passa attraverso la presenza di questi uomini nuovi. La rivoluzione russa ha trovato il suo in colui che ne è l’anima pensante: Lenin. «Il suo eroismo – scrive M. Gorkij nel suo ritratto di Lenin – quasi interamente spoglio di sfarzo esteriore, è l’abnegazione modesta, ascetica, non rara in Russia, dell’intellettuale rivoluzionario onesto, che crede profondamente nella possibilità di realizzare la giustizia sociale sulla terra; è l’eroismo di chi ha rinunciato a tutte le gioie del mondo per lavorare duramente e conquistare agli uomini la felicità» (25). Da Marx a Lenin la questione dell’uomo nuovo è coessenziale ad ogni possibilità di concepire e praticare un processo rivoluzionario. Con un tale intento esso acquisisce valore universale oltre che prospettiva morale e storico-politica per l’intera umanità. Il movimento ideopolitico che lo anima, insieme all’impero ideocratico che esso insedierà in Russia se ne rendono fautori al cospetto della storia; ma, già otto anni prima della rivoluzione del ’17, l’intellettuale ebreo S. Frank osa preconizzare con rimandi all’etica del nihilismo: «Dal grande amore per l’umanità futura nasce il grande odio per gli uomini, la passione per l’organizzazione di un paradiso terrestre diventa passione per la distruzione e il credente populista-socialista si fa rivoluzionario» (26). In un tale contesto di significati si può ben collocare la deriva totalitaria della stagione staliniana della rivoluzione: inveramento anziché tradimento della logica stessa della rivoluzione27. Tale deriva attualizza (e non produce) storicamente e politicamente – come abbiamo accennato in precedenza – il nihilismo originario del movimento ideopolitico rivoluzionario. Il divieto marxiano di porre domande ne stabilisce la norma ideologica di fondo.
Ci chiediamo ora: si dà qualcosa che resista – sul piano del pensiero – alla radice nihilista del movimento ideopolitico in relazione al marxiano divieto di porre domande? Quale portata teoretica essa può avere in quel medesimo ordine di pensiero? Converrà sondare una qualche fonte autorevole del nihilismo giunto fino a noi per aiutarci a capire. Non potrà che sorprendere la linea di continuità teoretica fra il divieto marxista di porre domande e l’esperienza del viandante nietzschiano. Il padre della rivoluzione comunista incontra a distanza quello del pensiero nihilista.

«Un giorno – scrive Nietzsche nella sua Gaia scienza – il viandante sbatté una porta dietro di sé, si arrestò e pianse. Poi disse: “Questa inclinazione, questo impulso verso il vero e il reale, il non parvente, il certo come lo odio! Perché questo battitore fosco e impetuoso segue proprio me? Vorrei riposarmi, ma non me lo concede. Quante sono le cose che mi seducono all’indugio! Per me ovunque vi sono giardini d’Armida: e quindi sempre nuove lacerazioni e nuove amarezze del cuore. Devo muovere ancora in avanti il piede, questo stanco piede ferito: e poiché devo, ho spesso per le più belle cose che non mi seppero trattenere uno sguardo irato – giacché non mi seppero trattenere”»(28).

La «gaia scienza» nietzschiana, proprio nel suo stesso nucleo filogenetico si trova ad ammettere («non me lo concede…poiché devo…») il darsi di un ordine non trascendibile e, al contempo, non ricomprensibile negli stretti limiti del «verum quia faciendum»; Nietzsche stesso, pur disponendosi al suo «odio», non si sottrae al denominarlo propriamente «Questa inclinazione, questo impulso verso il vero e il reale, il non parvente, il certo…». Si tratta di una preminenza normativa dell’esigenza del vero rispetto all’intero orizzonte possibile del faciendum. La sua non-accettazione è scaturigine di «sempre nuove lacerazioni e nuove amarezze» nella vita del pensiero: il suo nucleo semantico di fondo esige infatti positiva adesione ad un factum per il potersi dischiudere di un faciendum. Il regime di domanda emerge, proprio nel cuore del nihilismo, come esigenza di un orizzonte epistemico ulteriore e precedente ad ogni faciendum. La seduzione del «fattibile» non riesce a coprire tutto l’arco normativo di competenza del pensiero. Al confronto, l’incalzare di «questo impulso verso il vero e il reale, il non parvente, il certo» appare come quel «battitore fosco e impetuoso segue proprio me». Nietzsche non poteva esprimere meglio questo nucleo pensante che resiste, tiene al fondo di ogni seduzione o recriminazione assolutorie; esso ha tutt’altra forma che quella dell’idea: essa è esigenza personale (me) che esige istanza personale di adesione. Sta qui la resistenza rivoluzionaria di un altro ordinamento del pensare rispetto a quello di ogni «socialismo scientifico» volto alla sua correlativa prassi rivoluzionaria. Esso esige la preminente secondarietà del riconoscere anziché (e prima ancora che) la preventiva paternità del fare. Sorprendiamo dunque Nietzsche impegnato nihilisticamente in una lotta – interna prima che nell’esteriorità delle vie storico-sociali – con l’evenienza e l’urgenza di quella domanda di cui Marx pone il divieto per poter, in qualche modo, concepire il «giardino d’Armida» della seduzione rivoluzionaria comunista. È quanto mai suggestivo che nella figura del viandante nietzschiano ogni avventura alternativa a quel «battitore fosco» si prospetta, riduttivamente, non come principio animatore di prassi ma del suo opposto: «riposo» e «indugio». Nel caso del marxiano divieto di porre domande la prospettiva viene paradossalmente a rovesciarsi proprio dall’interno della prospettiva nihilista: anziché imboccare la prassi rivoluzionaria trova e indovina la via connivente col disimpegno borghese. Come a dire, per converso, solo il riconoscimento della motilità del «verum quia factum» «(è conoscibile, pregno di verità, solo ciò che l’uomo ha fatto ed ora è in grado di contemplare)» può animare, nel vero, un programma volto al faciendum (alla fattibilità) di una prassi davvero vantaggiosa e profittevole per l’uomo nella storia.
La questione può ben essere così interrogativamente sintetizzata: può il «riposo» dal vero essere davvero definitivo al cospetto del pensiero? Quale senso potrà mai conseguire un «giardino d’Armida» che si coltivi nella modalità di un congedo dal vero? Il divieto marxiano di porre domande appare come formula propriamente borghese per dare voce al verum quia faciendum: con soluzione praticamente irenica alla continuità dell’impulso nietzschiano del vero (reale, non parvente, certo); una pratica «messa-a-tacere» del moto originario del pensiero anziché un suo fecondo sviluppo sul piano pratico. Se Marx sembra istituirlo come norma, Nietzsche vi individua il contenuto residuale di una rinuncia al moto «inquieto» del pensiero. Di questo moto egli avverte tutta la positiva «resistenza» sebbene nella sua ricezione «odiata»… ma normativamente inattaccabile. È la scoperta – sul terreno proprio del nihilismo – dell’esigenza cogente di un altro, ulteriore orizzonte epistemico: fuori dai moti estatici di ogni volontà di potenza come anche di ogni astrazione ideologica.
Ci accingiamo ora al tentativo conclusivo – sebbene procedendo per approcci inevitabilmente schematici e sommari – del nostro percorso: rinvenire ulteriori apporti in questo lavoro di ricerca e di individuazione di rilevanti esperienze esemplificative di un tale regime di pensiero; esperienze nelle quali, dall’interno della condizione storica e culturale ingenerata dalla rivoluzione russa, abbia trovato spazio questa forma di «resistenza rivoluzionaria» del pensiero, centrata sull’esigenza di un orizzonte epistemico ulteriore al nihilismo ed alle sue derivate ideologiche. Ove una tale ulteriorità non sia da considerarsi come istanza oppositiva bensì come spazio d’inveramento per una ragionevole coniugazione di rivoluzione e pensiero: uno spazio ove, anche l’istanza del verum faciendum, ottenga il suo quia senza vedersi costretta a passare per le forme ideologiche e dogmatiche delle premesse nihiliste. Ne segnaleremo, dunque, tre pertinenti al nostro caso. Esse infatti ci aiuteranno a rivedere l’ideale rivoluzionario di fondo (comunismo) non alla luce dell’eventuale erroneità delle sue forme applicative bensì alla luce della domanda sulla sua effettiva tenuta epistemica di fondo al cospetto del pensiero.
La prima riguarda l’esperienza di un gruppo di pensatori di marca russa che hanno dato vita ad una produzione di pensiero scaturita dalla ricerca che, dall’interno di una frequentazione del pensiero rivoluzionario marxista, abbia sortito la scoperta di un’altra paternità di pensiero alla luce di quelle domande che il marxismo colpisce col suo divieto preventivo.
Nel 1909 – ben otto anni prima della rivoluzione dell’ottobre ’17 – esce in Russia una raccolta di saggi filosofici nati dalla feconda collaborazione di un gruppo di pensatori accomunati da questa affine esperienza di ricerca e dalla trascorsa militanza – sebbene con diversificati accenti culturali – marxista rivoluzionaria (29). Il gruppo di amici pensatori di diversa estrazione (anche religiosa) annovera nomi come quelli di N. Berdjaev, S. Bulgakov, P.B. Struve, S.L. Frank. La loro «svolta» di pensiero trova motivo di coaugulo nella ripresa della grande tradizione del pensiero russo che la Chiesa ortodossa aveva incarnato nella vita del popolo. Essa arriva dopo gli episodi cruenti della rivoluzione del 1905 e mira a ripensare criticamente la connivenza dei presupposti che l’intelligencija del tempo ha provveduto a fornire ai responsabili dell’azione politico-rivoluzionaria. L’intento, evidentemente, non è polemico ma critico nel senso stretto del termine. Tutto il senso di questa svolta critica, nei suoi termini genuinamente filosofici, può essere ben individuato in un passaggio del saggio di N. Berdjaev dal – per noi – eloquente titolo La verità filosofica ed il vero dell’intelligencija:

«L’interesse di vasti circoli dell’intelligencija per la filosofia si esauriva – scrive Berdjaev – nella ricerca di una sanzione filosofica delle proprie disposizioni d’animo e aspirazioni, che il pensiero filosofico non scuote e modifica, ma lascia inconcusse come dogmi. All’intelligencija non interessa la questione se, per esempio, la teoria della conoscenza di Mach sia vera o falsa; le interessa solo se questa teoria sia favorevole o meno all’idea del socialismo, serva al bene e agli interessi del proletariato; le interessa non tanto sapere se la metafisica danneggi verità metafisiche, quanto vedere se la metafisica danneggi gli interessi del popolo, distolga dalla lotta contro l’autocrazia e dal servizio al proletariato: l’intelligencija – conclude perentoriamente il filosofo russo – è pronta ad accettare come verità di fede qualsiasi filosofia, a condizione che questa sanzioni i suoi ideali sociali e rigetti, senza critica, ogni filosofia, la più profonda e la più vera, se sia sospetta di riprovare o semplicemente criticare il suo atteggiamento verso le proprie disposizioni d’animo e aspirazioni tradizionali» (30).

Non si reclama un pensiero «più religioso», né una filosofia «più edificante»: qui è in questione solo la portata critica del pensiero e la ripresa di una filosofia non appiattita e omologata ideologicamente agli interessi del più forte (o più debole); vi si reclamano le esigenze del vero dentro e al di sopra di essi. Ciò suona come invito a quella resistenza rivoluzionaria del pensiero, esigente un ordinamento epistemico ulteriore alla subordinazione ideologica. È in gioco la libertà di pensiero nel suo senso sorgivo e non appena in quello socio-politico. Si aggiunga a ciò la constatazione per la quale l’istanza critica stessa viene qui percepita come coessenziale allo statuto epistemologico della filosofia in quanto tale.
Analogamente – ed in continuità con tale esperienza di ricerca – nel 1918 (con pubblicazione nel 1921, dopo la rivoluzione) esce un’altra raccolta di testi scaturiti dallo scambio di esperienze e da un confronto sulle effettive sfide poste alla ragione a rivoluzione avvenuta. La raccolta, recante il titolo (di ascendenza biblica) Dal profondo (31), ospita ben undici ampi contributi d’impostazione diversificata ma con prevalente e non sprovveduto taglio filosofico. Anche qui la responsabilità sui disastri che la rivoluzione ha comportato sul piano della vita sociale e politica è esplicitamente imputata all’ideologia di fondo con cui l’intelligencija russa (nella fattispecie quella socialista) ha «armato» il processo rivoluzionario. La causa preminente che viene tuttavia addotta è, ancora una volta, la mancanza di esercizio critico con cui essa si è posta al cospetto della situazione socio-politica nella quale la rivoluzione bolscevica svolge la sua azione destabilizzante:

«La ragione fondamentale del crollo senza precedenti del nostro Stato – si legge nel saggio di A.S. Lande – sta nel fatto che l’intelligencija non ha assolutamente compreso né la natura dell’uomo e della forza dei motivi che lo muovono, né la natura della società e dello Stato e delle condizioni necessarie a consolidarlo e svilupparlo. La nostra intelligencija s’è creata idee fantastiche, erronee e menzognere sull’uomo, sulla società e sullo Stato e le ha adoperate nella lotta contro l’autocrazia (…) Tutte le principali idee politiche, socio-economiche e psicologiche, nella quali per un secolo era cresciuta l’intelligencija russa, si dimostrano false ed esiziali per il popolo. Non questo o quel pubblicista ma la vita stessa assunse il ruolo di criticarle e non esiste un’autorità superiore alla sua, né esiste possibilità di appello. I bolscevichi e la loro signoria – aggiunge Lande – rappresentano proprio questa critica pronunciata dalla vita. Invano l’intelligencija tenta di scolparsi affermando di non essere responsabile dell’operato dei bolscevichi. No, essa è responsabile per tutti i loro atti e tutte le loro idee. I bolscevichi hanno solo messo in pratica con conseguenza tutto quello che altri hanno detto e sollecitato, hanno solo messo i punti sulle i, aperto le parentesi, dedotto le conseguenze dalle premesse enunciate più o meno retoricamente dagli altri. Per essere onesti bisogna riconoscere che i bolscevichi in calce a ciascuno dei loro decreti possono citare estratti non solo di Marx e di Lenin ma anche di tutti i socialisti russi e dei loro simpatizzanti di obbedienza sia marxista che populista. L’unica obiezione mossa da questo schieramento ai bolscevichi si riduce in sostanza al rimprovero di agire troppo precipitosamente, troppo velocemente, di prendere tutto in una volta (…) Čcheidze, Černov, Ceretelli, Skobelev, Nekrasov, Efremov, Kerenskij – conclude Lande – hanno detto e predicato quello che per principio doveva portare al dominio del bolscevismo il quale finalmente si decise a mettere in pratica le loro parole» (32).

La sottolineatura di Lande mette a fuoco l’urgenza di rivedere criticamente le idee stesse con le quali la classe intellettuale russa «tenta di discolparsi» al cospetto della storia, laddove non recepiscono né «rappresentano proprio questa critica pronunciata dalla vita». L’urgenza di rivedere criticamente «tutte le idee politiche» allorquando «la vita stessa assunse il ruolo di criticarle» mette in campo un lavoro del pensiero non più dilazionabile. Le idee riguardano certo «la natura dell’uomo e della forza dei motivi che lo muovono»; esse toccano altresì quella dello Stato e della società. Tuttavia esse – nel dire di Lande – vanno riviste proprio in quanto «idee fantastiche», vale a dire in quanto lontane dalla vita, non ad essa inerenti, non esplicative di essa proprio in quanto «idee» (33). La «critica pronunciata dalla vita» cerca un primato teoretico rispetto all’ossessione dell’idea. Le dà voce propositiva, nello stesso volume, il contributo di S. L. Frank che dà il titolo all’intera raccolta. Questi delinea i tratti di un’unità spirituale e organica creatività spirituale del popolo che, egli scrive,

«presuppone certamente una svolta morale dal punto morto, una rinuncia alle abitudini malate inveterate e alle idee fisse dell’anima popolare sconvolta, a favore delle abitudini sane e necessarie di una vita normale, la scoperta di una certa verità dimenticata, evidente e semplice come ogni verità e insieme ricca di conseguenze complesse, efficaci e feconde. Se il nostro pensiero sociale, il nostro volere morale – prosegue Frank – saranno in grado di comprendere quanto è accaduto, se il castigo di Dio ci ha colpiti non per perderci ma per renderci migliori, deve maturare necessariamente nella coscienza religioso-ecclesiale e statale-nazionale questa impostazione mentale risanatrice. Allora dalla strada del caos, della morte e della distruzione noi passeremo alla strada della creazione, dello sviluppo creativo e dell’autoaffermazione della vita»(34).

La «strada» indicata da Frank – quella indicata come «impostazione mentale risanatrice» non fa leva su idee bensì su quella che egli denomina «dell’autoaffermazione della vita» e che realizza «la scoperta di una certa verità dimenticata, evidente e semplice come ogni verità e insieme ricca di conseguenze complesse, efficaci, e feconde». È la descrizione di una verità originariamente organica alla vita: su questa organicità viene impiantato il lavoro critico del pensiero, lavoro – sul piano teoretico – ulteriore ad ogni ideologia e (sul piano socio-politico) strutturalmente libero da ogni pretesa di potere egemonico. Ciò segna la riapertura dello spazio epistemico della verità alle esigenze della vita e, correlativamente, quello della domanda di verità sul terreno dell’esperienza vissuta.
Una seconda traccia di esperienza – come contributo ad una riapertura dello spazio di lavoro del pensiero dalla congerie storica della rivoluzione del ’17 – l’attingiamo da una delle figure più suggestive della cultura russa di quegli anni. Parliamo di Marija Judina. La cosiddetta «pianista che commosse Stalin» (35) rappresenta una vivida testimonianza di questa possibilità dall’interno della sua vicenda artistica. La sua testimonianza, direttamente dalla primavera del ’17, non lascia equivoci su questo fronte del pensiero; la libera ricerca della verità dentro ed al di sopra di ogni conquista:

«Non di rado – ella racconta – dopo una lezione o un seminario ci fermavamo insieme al nostro professore vicino al Ponte del Palazzo o alle sfingi sul Lungofiume dell’Università, aspettando che riaprissero i ponti levatoi; la discussione ferveva (…) Nonostante la diversità di caratteri, aspirazioni, storie, eravamo tutti uniti in questa ricerca della verità e povertà evangelica…La nostra giovinezza aveva le ali ai piedi, si nutriva di gratuità, povertà, del rombo lontano della guerra civile che divampava in altre regioni del nostro paese – e se vogliamo, di romanticismo, di uno sguardo convinto e organico, carico di ideali, attraverso cui guardavamo a persone e avvenimenti, e ci guardavamo gli uni gli altri; al centro, per tutti e per ognuno c’era la ricerca della verità (…) Non ci interessava la tranquillità, non ci importava sistemarci o mettere da parte qualcosa; ci bastava un po’ di pesce secco e focacce di bucce di patate, scarpe di corda e vestiti lisi…Ci alzavamo e ci coricavamo con la poesia – chi con la poesia, chi con la musica; chi ancora, deciso a dedicare tutte le proprie energie al lavoro politico, all’edificazione di un mondo nuovo, metteva a repentaglio la vita nella guerra civile; altri ardevano e si struggevano per gli avvenimenti ecclesiali, mentre in altri ancora era forte il convincimento interiore della propria missione creativa in campo artistico o scientifico» (36).

Un tale racconto dice di una verità cercata e da-cercare prima che da-fare; la caratteristica preminente di una tale ricerca, insieme al primato – centrale e irriducibile – del vero è il senso della sua incondizionata gratuità unitamente alla sua cooriginaria organicità alla vita («uno sguardo convinto e organico»). Essa coinvolge la totalità delle dimensioni del vivere e pensare, catalizzando l’esercizio della ragione sul piano delle sue vie teoriche e pratiche, scientifiche non meno che artistiche, politiche ed allo stesso tempo poetiche. La sua pluriformità appare, in contemporanea consustanzialità con la sua appassionante e disinteressata organicità. La voce della nota pianista denota – peraltro – la peculiare socialità condivisa di questa «vita-nella-verità»: essa presenta movenze inclusive piuttosto che esclusive, apre prospettive oblative anziché ripiegarsi su istanze possessive. Il lavoro del pensiero vi trova cittadinanza nelle forme della testimonianza più ragionevolmente che in quelle della speculazione. In questa direzione il fenomeno rivoluzionario sembra poter ritrovare le vie smarrite del pensiero nelle sue molteplici modalità applicative.
Da ultimo – e rimanendo nella geopolitica sviluppata in conseguenza della rivoluzione, sebbene in territorio esterno all’Unione Sovietica – l’esperienza di un testimone diretto della deriva totalitaria imboccata dalla rivoluzione del ‘17 nella sua diffusione in territorio europeo, dopo la II Guerra Mondiale. Il protagonista, Václav Havel, sarà eletto – dopo la caduta del regime comunista, del 1989 – presidente dell’allora Cecoslovacchia. La sua esperienza intellettuale fa tesoro della cosiddetta «Primavera di Praga» (1968) e della sua frequentazione dell’arte teatrale. Il suo impegno politico, unita alla riflessione di pensiero, trova espressione nella costituzione di Charta ’77: movimento che sintetizza entrambe le istanze alla luce degli insegnamenti filosofico-fenomenologici di J. Patočka. Il movimento dà vita a quella «dissidenza» che non si limita alla militanza politica ma persegue le vie di una riflessione culturale più vasta. Il difficile e complesso rapporto col regime culmina nell’arresto di Havel. Proprio in questo contesto di vita nasce – tra il 1978 e il 1979 un saggio in cui sintetizza le istanze critiche del suo pensiero: Il potere dei senza potere – presto tradotto, nel 1979, in italiano (37) – passato per vie clandestine in occidente. Nel rendere ragione del fenomeno del «dissenso», l’autore svolge una ricognizione del sistema «post-totalitario» differenziandolo, con dovizia di particolari, da quello della dittatura classica. La sua critica al dilagare dell’ideologia come fondamento di quel fenomeno approda alla distinzione – non priva di richiami agostiniani alla distinzione delle «due città» – tra «vita nella menzogna» e «vita nella verità». In uno dei testi allegati al saggio (La politica e la coscienza, del 1984) troviamo una sintetica ed efficace esplicitazione del compito che attende, nelle coscienze, il lavoro propositivo del pensiero:

«Abbiamo di fronte – spiega Havel – un unico compito fondamentale, da cui derivano tutti gli altri compiti. È il compito di affrontare a ogni passo e in ogni circostanza, con vigilanza, prudenza e attenzione, ma anche con impegno totale, l’irrazionale automatismo del potere anonimo, impersonale e disumano dell’Ideologia, dei Sistemi, degli Apparati, della Burocrazia, delle Lingue artificiali e degli Slogan politici (…) di riconoscere che nell’ordine dell’essere c’è qualcosa che manifestamente supera ogni nostra competenza; di rapportarci sempre di nuovo all’orizzonte assoluto dell’essere, orizzonte che – se solo lo vogliamo – ci permette di scoprire e sperimentare il nostro essere in modo sempre nuovo; di fondare il nostro comportamento sulle esperienze, sui criteri e sugli imperativi che ci appartengono, che personalmente garantiamo, frutto di una riflessione priva di preconcetti e di censure ideologiche (…) di servire in ogni circostanza la verità come nostra esperienza essenziale»(38).

Il «Golia» del «potere anonimo» dell’ideologia di fronte al «Davide» dell’esperienza dell’essere: la suggestione regalataci da Havel può offrire un’indicazione preziosa – anche sotto il profilo metodologico – nelle sfide poste dalla rivoluzione all’esercizio del pensiero. Una tale svolta esige, infatti, dalla ragione una rinnovata disposizione ricettiva ai messaggi del vero e del reale che non si rassegni agli stereotipi del preconcetto e del già-saputo. L’intento di «servire in ogni circostanza la verità come nostra esperienza essenziale» deve poter sorprendere la spinta interrogativa ed esigenziale della ragione nell’atto stesso del suo sottomettersi alle vie non predeterminabili dell’esperienza. Ciò comporta una riformulazione del concetto stesso di ragione alla luce delle sue più elementari domande: un concetto aperto e non remissivo a lasciarsi interrogare dalle vie esperienziali del vero. Un tale concetto può corroborare e vedere riattivate le facoltà critiche del pensiero come un «lasciarsi-mettere-in-crisi» ancor prima che come «potere-di-mettere-in-crisi». Questo rovesciamento critico potrà altresì trovare spazio – come nel caso di Havel e del movimento Charta ’77 – attraverso il lavoro non scontato di suoi testimoni nella società e nella storia. Tuttavia saranno essi a costituire motivo adeguato per un «nuovo inizio» nel ripensare la relazione tra rivoluzione e pensiero.
«Penso però – scrive Hável nelle ultime righe del suo libro – che, nel contesto di tutte le precedenti riflessioni sulla realtà post-totalitaria e sulla condizione e la costituzione interna dei tentativi sviluppati per difendere in questa situazione l’uomo e la sua identità, le domande che ho posto non siano fuori luogo. Esse rappresentano né più né meno uno stimolo a riflettere concretamente sulla propria esperienza e a chiedersi se alcuni suoi elementi – senza che ne siamo coscienti – non indichino realmente un punto più avanti, oltre i suoi confini e se quindi proprio qui, nel nostro vivere quotidiano, non vi siano dei suggerimenti “cifrati” che attendono in silenzio il momento in cui saranno letti e compresi. Ci si domanda, cioè, se il “futuro luminoso” sia sempre veramente e soltanto il problema di un lontano “là”. E se invece fosse qualcosa che è già qui da un pezzo e che solo la nostra cecità e fragilità ci impediscono di vedere e sviluppare intorno a noi e dentro di noi?» (39).
La parabola da noi disegnata fin qui trova in questo dire di Hável un suo propositivo finale, non conclusivo ma certamente performativo. Le istanze rivoluzionarie ritrovano le vie del pensiero solo da un richiamo a «riflettere sulla propria esperienza». Ciò mette in campo, dunque, il terreno stesso della storia e delle sue risorse conoscitive: quello del qualcosa «che è già qui da un pezzo». Le strade della ragione teoretica incrociano quelle della ragione pratica non nell’istanza utopistico-ideologica bensì nella lettura del «nostro vivere quotidiano». I destini della teoresi sono così sospesi a quelli della storia nel suo darsi nel presente: il «futuro luminoso» della «rivoluzione» teorizzata inizia a decidersi nel riconoscimento del vero dentro l’ordine di quelle che possono essere le «fertili bassure della storia» presente – «intorno a noi e dentro di noi». Il «già qui» appare anticipo prefigurativo – fragile ma profittevole per la ragione – in luogo del preclusivo «lontano là». Le tre esperienze da noi prospettate evocano ed attestano una ragione già impiegata nell’atto del suo sottomettersi al portato dell’esperienza. È così che le vie del «verum quia faciendum» – dalla paternità marxiana – possono sperare (con ragione) di raccordarsi, in sorprendente coniugazione teoretica e pratica, con quelle del «verum quia factum». Factum: non appena «La verità» bensì la possibilità storica della sua esperibilità con conseguente, vantaggiosa rimozione di ogni ostruzione della ratio … a partire da ogni dogmatico «divieto di porre domande». La chance di poter «vedere» e «sviluppare» è sospesa alla possibilità di una ragione che, nel sottomettersi all’esperienza, si veda riscattata dalle sue cecità e fragilità per tornare a riconoscere il vero. Ciò non è affatto contenuto di alcun sapere aprioristico e preventivo che voglia pur dirsi «rivoluzionario». Le testimonianze da noi addotte ce ne danno memoria dal mondo della rivoluzione; una ragione vantaggiosamente sottomessa all’esperienza… Sarà forse quanto ogni rivoluzione attende?
Un senso possiamo già recepirlo al cospetto della storia e di ogni sua evenienza: è già la ragione del «potere dei senza potere» … il suo segno inequivocabile per ogni tempo degli uomini – pensanti – nella storia.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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JUDINA Marija, 2017, Memorie, tr. it. in Russia 1917. Il sogno infranto di «un mondo mai visto», a cura di A. Dell’Asta, M. Carletti e G. Parravicini. La Casa di Matriona, Milano 2017.
A.S. LANDE, 2017, «Socialismo, cultura e bolscevismo». In AA.VV., Dal profondo. 1918: la rivoluzione vista dalla Russia, trad. it. a cura di P. Modesto. Jaca Book, Milano (ed. or. Iz glubiny, Mosca 1918).
MARX Karl, 1941, Die Revolution von 1848 und das Proletariat [La rivoluzione del 1848 ed il proletariato], cit. in K. LÖWITH, Von Hegel zu Nietzsche, Zürich 1941; tr. it. Da Hegel a Nietzsche, a cura di Giorgio Colli. Einaudi, Torino 1971).
NIETZSCHE Friedrich, 1979, La gaia scienza, tr. it. a cura di F. Masini e G. Vattimo. Einaudi, Torino (ed. or. Die fröhliche Wissenschaft, II-271. Ernst Schmeitzner, Chemnitz 1882).
PARRAVICINI Giovanna, 2010, Marija Judina: più della musica. La Casa di Matriona, Milano.
RATZINGER Joseph, 1984, Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico, tr. it. a cura di E. Martinelli. Queriniana, Brescia (ed. or. Einführung in das Christentum. Vorlesungen über das Apostolische Galubensbekenntnis. Kösel, München 1968).
SOLŽENICYN Aleksandr, 1974, Arcipelago Gulag. Mondadori, Milano.
SOUVARINE Boris, 1983, Stalin, trad. it. a cura di G. Bartoli. Adelphi, Milano (ed. or. Staline. Aperçu historique du bolchévisme, Paris 1977).
STRADA Vittorio, 2017, Impero e rivoluzione. Marsilio, Venezia.
VOEGELIN Eric, 1959, Wissenschaft, Politik und Gnosis, Kösel Verlag. Kösel, München; tr. it. Il mito del mondo nuovo, a cura di A. Munari. Rusconi, Milano 1959).

NOTE A PIÈ DI PAGINA

1 N. A. Berdjaev, 2014, 52.
2 Oltre ai positivi dati sull’alfabetizzazione, sull’istruzione pubblica e sull’industria editoriale «non va dimenticato infine – leggiamo in un prezioso saggio recente che ricostruisce l’intera parabola rivoluzionaria del ’17 in Russia – il campo variegato della scienza, dell’arte e della cultura umanistica in generale, dove la Russia vive una stagione eccezionale (…) il matematico Nikolaj Lobačevskij si distingue nello studio delle geometrie non euclidee, Dmitrij Mendeleev crea la Tavola periodica degli elementi; il fisiologo Ivan Pavlov scopre il “riflesso condizionato”; il fisico Aleksandr Popov scopre le onde radio: E poi ci sono i giganti della letteratura come Dostoevskij, Čechov e Tolstoj, o della musica come Mussorgskij, Čaikovskij, Rimskij-Korsakov, Stravinskij, o della pittura, come Kandinskij, Malevič, Chagall… E da ultimo vanno ricordati i grandi filosofi e teologi che, emigrati dopo la rivoluzione in Occidente, ne segneranno la storia. Basti pensare a Berdjaev» A. Dell’Asta, M. Carletti e G. Parravicini (a cura di), 2017, 13-14.
3 Cfr. Ibidem, 10-12. Gli evidenti dati positivi riguardanti l’economia russa degli inizi del secolo riguardano l’agricoltura come l’industria, la rete ferroviaria come l’aumento delle esportazioni; tutto lascia pensare che «in essa è presente una serie di elementi che, pur non risolvendo tutti i problemi del paese, gli danno però una configurazione ormai ampiamente europea: abbiamo un processo di industrializzazione sempre più rapido; vi è una riforma agraria associata al programma di riforme seguito all’emancipazione dei contadini (…) e la riforma de sistema giudiziario; e da ultimo abbiamo l’esistenza di un’ampia classe di professionisti integrati nello Stato. Esistevano dunque motivi di tensione, ma in realtà ingigantiti dalla propaganda rivoluzionaria che, come osserverà Solženicyn, “contribuirà efficacemente ad accendere le masse popolari”» (Ivi, 12).
4 «A determinare questa situazione di crisi – leggiamo ancora nel medesimo volume – e questo stato d’animo generale confuso e sovraeccitato contribuisce un altro episodio di “non governo” da parte dello zar, che è anche un ulteriore punto di non ritorno per la monarchia e il paese: la strage di manifestanti che avviene subiti dopo l’avvilente fine dell’assedio di Porth Arthur, il 9 gennaio 1905; in seguito ribattezzata “domenica di sangue”, questa carneficina distrugge per sempre l’immagine storica dello zar come padre del popolo (…) Il 1° gennaio a San Pietroburgo entrano in sciopero (che è proibito per legge dal 1886) le officine Putilov, e la protesta si diffonde in breve a tutte le fabbriche della città. Il 4 gennaio il metropolita Antonij chiede al Santo Sinodo di sospendere a divinis il sacerdote sedizioso Gapon; questi dal canto suo, concepisce l’idea di una petizione popolare che esponga le necessità degli operai direttamente al sovrano. Ma, avvertito di ciò che si sta preparando, Nicola II il 6 gennaio lascia la capitale, affidando la gestione dell’ordine pubblico al governatore della città…» (Ivi, 40-41).
5 N.A. Berdjaev, 1990, 104-105. 6 Ivi, 1990, 233.
7 V. Strada, 2017, 24.
8 Ivi, 24-25.
9 Cfr. A. Dell’Asta, M. Carletti e G. Parravicini (a cura di), 2017, 47.
10 J. Ratzinger, 1984, VII edizione da cui citiamo, 32-33, 40 (corsivi dell’autore).
11 V. Strada, 2017, 128.
12 Ivi, 132.
13 «Oggi – recita, precisamente, il saggio di Voegelin – proprio come duemila anni or sono, la politike episteme verte intorno a interrogativi che riguardano ciascuno di noi e che ciascuno di noi si pone. Benché diverse siano le opinioni oggi correnti nella società, il suo contenuto non è mutato. Il suo metodo è ancora l’analisi scientifica» (E. Voegelin, 1959, 67 – corsivo dell’autore).
14 Ivi, 67-68 (corsivo dell’autore).
15 Ivi, 71.
16 Ivi, 72 (corsivo dell’autore). Il termine ukase è francesizzazione di un termine russo indicante editto o decreto di autorità, ad opera dello zar, con cui s’impartiscono ordini perentori in spirito assolutistico. Nel cosiddetto divieto marxiano di «porre domande» Voegelin assimila poi l’uomo socialista alla logica di quello positivista e di quello nazionalsocialista
17 Ivi, 84.
18 Ivi, 96.
19 A. Dell’Asta, M. Carletti e G. Parravicini (a cura di), 2017, 6.
20 Questa medesima logica troverà eloquente personificazione in colui che incarnerà, a cose fatte, la prassi rivoluzionaria una volta acquisito il potere politico: Stalin. Nell’efficace ritratto biografico della figlia Svetlana Alliluieva si può leggere infatti: «Può darsi che nel profondo del suo animo egli dubitasse e soffrisse e riflettesse…Ma era succube di una logica ferrea: detto A, bisogna dire B, C e tutto il resto. Una volta accettato che NN era un nemico, era poi necessario riconoscere che sì, così è, e poi tutti i “fatti” si disponevano di per sé a conferma della cosa…Per lui era impossibile tornare indietro psicologicamente e credere di nuovo che NN non fosse un nemico, ma una persona onesta. Il passato scompariva per lui, in questo appunto stavano tutta l’implacabilità e tutta la crudeltà del suo carattere. Il passato, quanto c’era di comune con quella persona e che lo univa ad essa, la comune lotta per un’unica causa, un’amicizia che datava da molti anni: tutto questo era come se non esistesse, veniva cancellato da una specie di gesto interiore, incomprensibile, e la persona era condannata. “Ah, tu mi hai tradito” diceva qualcosa nella sua anima, qualche terribile diavolo che lo teneva nelle sue mani “ebbene, io non ti conosco più!”. I vecchi compagni d’attività, i vecchi amici e compagni di battaglia potevano anche fare appello a lui ricordando i loro rapporti d’un tempo, inutilmente! Egli era sordo nei loro confronti. Egli non poteva fare un passo indietro verso di loro. Non esisteva già più la memoria. C’era soltanto un interesse maligno: e come si comporta adesso NN? Ammette i suoi errori?» (S. Alliluieva, 1967, 29 – corsivo dell’autore).
21 Anche qui, a supporto storico-biografico, è opportuno riportare quanto si può leggere nella voluminosa biografia di Stalin consegnataci da B. Souvarine (il saggio apparve, sorprendentemente, già nel 1935, poi pubblicato, con ampliamenti, in Francia nel 1977). La deriva ideologica del pensiero comporta l’asservimento di questo al gioco menzognero dell’apparenza fino all’autoconvincimento ingannevole: «… In mancanza di soddisfazioni reali, Stalin e la sua burocrazia si appagano di chimere e, per una curiosa autosuggestione, man mano che ingannano sempre più i loro sudditi, giungono forse a persuadersi della fondatezza delle loro ipotesi più vaghe. Basta leggere Custine per ritrovare questa tradizione ben radicata: “Non è possibile negare meglio i fatti più evidenti, né farsi gioco con più audacia delle coscienze, cominciando dalla propria”» (B. Souvarine, 1983, 616).
22 Ne fa parola anche colui che rappresenta, nella cultura della Russia sovietica, il padre di quella letteratura concentrazionaria nata dai gulag staliniani. «La natura dell’uomo è, per fortuna, tale che egli sente il bisogno di cercare una giustificazione delle proprie azioni. Le giustificazioni di Macbeth erano fragili e il rimorso lo uccise. Ma anche Jago non era un agnellino: la fantasia e le forze spirituali dei malvagi shakespeariani si limitavano a una buona decina di cadaveri: perché mancavano di ideologia…Grazie all’ideologia è toccato al XX secolo sperimentare una malvagità esercitata su milioni» (A. Solženicyn, 1974, 185 – corsivo dell’autore).
23 V. Strada, 2017, 40.
24 K. Marx, cit. in K. Löwith, 1941, 236-237 (corsivo dello stesso Marx nel testo citato).
25 M. Gorkij, 1924, n. 1.
26 S.L. Frank, 1970, 167-196. «L’ideale astratto d’una felicità assoluta – premette Frank nello stesso testo – in un futuro remoto uccide il rapporto morale concreto dell’uomo verso l’uomo, il vivo sentimento dell’amore per il prossimo, per i contemporanei e per le loro necessità correnti. Il socialista non è un altruista; è vero che anch’egli aspira alla felicità umana, però non le persone vive ma solo la propria idea, cioè l’idea della felicità universale. Sacrificando sé stesso per questa idea, egli non esita a sacrificare anche gli altri. Nei suoi contemporanei egli vede da una parte soltanto vittime del male mondiale che egli sogna di sradicare, dall’altra solo colpevoli di questo male» (Ibidem – corsivo dell’autore).
27 Annota ancora Strada: «Bene ha scritto il poeta Georgij Adamovič, che nel 1923 emigrò in Francia, ironizzando su chi si diceva deluso per l’assenza di libertà nella Russia sovietica: “La verità si è palesata: della libertà non è rimasto nulla, per nessuno, e assolutamente non perché l’ottobre abbia smarito la strada o abbia tradito se stesso, no, al contrario: perché avrebbe tradito se stesso se la libertà non l’avesse annullata”. Cruda verità che solo un narcotico ideologico può far dimenticare» (V. Strada, 2017, 46). Per la documentazione storiografica più criticamente accreditata intorno alla fenomenologia storica della coerente deriva totalitaria in Russia, attendiamo, senz’altro, la pubblicazione in italiano della grande ricostruzione (oltre 10 volumi?!) fattane da una delle vittime di essa: A. Solženicyn (il titolo dovrebbe poter essere, nella trasposizione italiana, «La ruota rossa»).
28 F. Nietzsche, 1979, 175-176 (corsivi dell’autore).
29 AA.VV., 1970 (II ed. 1990), 196.
30 N.A. Berdjaev, 1970, 19.
31 AA. VV., 2017, 273. La continuità con la precedente raccolta antologica del 1909 è presto stabilita nella prefazione del 1918, curata da P. Struve; vi si legge: «L’antologia Vechi, pubblicata nel 1909, è stata un appello e un monito. Nonostante la reazione e la polemica talvolta molto rabbiosa che essa suscitò, questo monito era in effetti soltanto una timida diagnosi dei mali della Russia e un debole presentimento della catastrofe morale e politica che s’andava delineando minacciosa già negli anni 1905-1907 per sopravvenire nel ’17 (…) La maggior parte degli autori di Vechi si ritrovano ora, assieme ad alcuni collaboratori nuovi, per esprimere il loro pensiero sul disastro ormai avvenuto; tutti assieme nonostante la diversità di convinzioni e di sentimenti, perché uniti in un unico dolore e nella confessione di un’unica fede (…) Ma tutti gli autori sono profondamente convinti che i principi positivi della vita sociale sono radicati nella profondità della coscienza religiosa e che strappare questa radice comune è una disgrazia e un delitto. Per loro proprio questo delitto ha causato l’immane disastro morale-politico che ha colpito il nostro popolo e il nostro Stato» (AA. VV., 2017, XI).
32 A.S. Lande, 2017, 140-141. «…Una cosa tira l’altra – aggiunge di seguito Lande – Se i socialisti russi fossero arrivati al potere avrebbero dovuto restare dei semplici ribelli che nulla fanno per realizzare le proprie idee, oppure fare dall’a alla zeta tutto ciò che hanno fatto i bolscevichi. Quando i bolscevichi insistono su questo punto sono irrefutabili; s’è dimostrato vero negli anni 1917-1918 ed è vero anche per il futuro» (Ibidem).
33 Anche la Chiesa ortodossa russa – come abbiamo già avuto modo di vedere – avverte questa urgenza di fronte all’imperante distacco degli apparati ecclesiastici (ormai statalizzati) dalla vita e dalla fede del popolo. Già il Santo Sinodo convocato nel 1905 prende atto di questa situazione in piena temperie rivoluzionaria. «Nel frattempo, nell’agosto del 1917, come motivo di speranza in una situazione sempre più complessa e inquietante, si apre il Concilio locale della Chiesa ortodossa russa, che dopo secoli di asservimento allo Stato affronta un arduo e coraggioso lavoro di riforme che devono ricondurla creativamente alla Tradizione. Questo evento, favorito dagli scossoni rivoluzionari, è stato in realtà preceduto da un lungo travaglio (…) Sia sulla stampa che negli ambienti ecclesiastici e statali si dibatte da tempo il problema della necessità di un cambiamento nella Chiesa ortodossa» (A. Dell’Asta, M. Carletti e G. Parravicini a cura di, 98)
34 S.L. Frank, 2017, 273.
35 Il contesto storico-biografico nel quale quest’espressione vede la luce lo si può trovare ben ricostruito in un pregevole volume sulla sua vita e sulla sua opera: G. Parravicini, 2010, 200.
36 M. Judina, cit. in A. Dell’Asta, M. Carletti e G. Parravicini (a cura di), 2017, 90.
37 La tormentata vicenda di questo testo è ben ricostruita nella sua recente riedizione in italiano (2013): Václav Havel, 2013. Ad essa rimandiamo il lettore e da essa trarremo le citazioni che seguono. Il volume raccoglie anche testi che l’autore ha prodotto nel corso del suo ministero politico di Presidente. Lungi dal voler esaurire, in questa sede, l’intero percorso del saggio, ci permettiamo solo qualche sottolineatura rilevante ai fini della nostra presente ricerca.
38 V. Havel, 2013, 159.
39 Ivi, 133

 

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