La tutela dell’innocente. Un punto di osservazione sul ruolo della Corte Costituzionale di Salvatore Amato

  • Innocenza ed esistenza   

La riflessione sull’innocenza, come essenza costituiva dell’identità umana e intanto come condizione fondamentale della struttura relazionale del diritto, attraversa tutti gli ultimi scritti di Sergio Cotta. La troviamo in Giustificazione e obbligatorietà delle norme del 1981 che costruisce proprio sull’assunto, «il rispetto dell’innocente è necessario all’esserci dell’esistenza umana», l’idea che sia possibile individuare un fondamento assiologico all’obbligatorietà delle norme: un fondamento che rispecchi e preservi l’innegabile struttura coesistenziale del vivere umano.

Ed è l’innocenza «in sé e per sé» a caratterizzare la «sinolica» struttura ontologica del soggetto umano nelle dense e sofferte pagine di Soggetto umano. Soggetto giuridico del 1997. Riflettendo sulla soggettività giuridica, Cotta riprende e porta a compiuta elaborazione il suo rifiuto della differenza tra individuo e persona che, in maniera diversa, attraverso Scheler, Mounier, Maritain, Marcel, Ricoeur, Sartre aveva segnato la riflessione filosofica della seconda metà del novecento. Le dimensioni affettive e relazionali dell’esistenza avevano trovato nella persona il fondamento dell’identità umana, relegando l’individuo alla mera condizione di entità biologica potenziale, ma in sé ancora insignificante. In qualche modo la nascente bioetica sembrava riprodurre questa contrapposizione nel dualismo tra vita-fatto (dell’individuo?) e vita-valore (della persona?).

Nel rivendicare, invece, l’inscindibile unità dell’essere umano, perché «si “è” individuo, “ci si fa” persona», perché l’individuo è il presupposto ontico di quello sviluppo ontologico che si determina nella persona, Cotta non intende solo indicare quale sia la corretta linea di lettura che da Agostino conduce fino a Kant e Husserl. È soprattutto animato dal timore che l’enfasi sulla persona finisca per lasciare senza rilievo giuridico le dimensioni più fragili dell’esistenza: i minori, gli incapaci, i malati terminali. Le individualità infrante e misconosciute, perché non sono ancora o non sono più definitivamente e compiutamente persona, costituiscono l’espressione del sottile antigiuridismo che attraversa il diritto moderno. Cotta aveva cominciato a riflettere sull’antigiuridismo nel brillante pamphlet sulla violenza del 1978, notando come dietro l’equiparazione tra diritto e violenza vi fosse, anche, la rassegnata accettazione della concezione positivistica del diritto come un insieme di regole che si fonda esclusivamente sulla coazione e quindi sulla dimensione politica dell’effettività del potere, indipendentemente da qualsiasi esigenza morale di rispetto delle dimensioni esistenziali della vita di relazione e in particolare di tutela dell’innocente.

Il progressivo misconoscimento della vita nascente, negli anni della legge sull’aborto e dei primi sviluppi della fecondazione artificiale, gli appariva la manifestazione più evidente di quanto il dualismo tra individuo e persona potesse condurre a smarrire il senso della struttura intimamente relazionale del diritto. La Corte costituzionale aveva avallato, in qualche modo, le sue preoccupazioni, affermando che il nascituro sarebbe individuo, ma non persona; avrebbe rilievo giuridico, ma non meriterebbe tutela. Perché mai, domanda Cotta, l’individuo non dovrebbe avere valore? «E perché mai non dovrebbe avere valore quell’individuo specifico che è il nascituro? Se è la vivente condizione primaria della possibilità umana, non è certo azzardato attribuirgli il massimo del valore, poiché senza di esso non si dà l’uomo e quindi neanche il valore».

La Corte costituzionale avrebbe emesso il suo giudizio con «candida o frettolosa incompetenza». Forse, scrivendo questo, Cotta aveva in qualche modo trovato conferma di una sua convinzione. Una convinzione che non credo abbia mai enunciato esplicitamente, ma che mi sembra trapeli da tanti suoi scritti e dalle numerose discussioni a cui ho avuto la fortuna di partecipare. Mi riferisco alla convinzione che la Corte costituzionale non sia la custode del diritto, nella sua dimensione esistenziale più profonda, ma dell’ordinamento giuridico e quindi in ultima istanza dell’ordine politico.

Torno a dire che non sono in grado di citare nessuno scritto in cui sia contenuta questa affermazione, ma proprio in una delle sue opere più importanti, un’opera che contiene il nucleo fondamentale del suo pensiero, Il diritto nell’esistenza. Linee di ontofenomelogia giuridica, Cotta afferma che «…la costituzione è proprio l’elemento di chiusura dell’ordinamento giuridico, ciò che lo delimita in termini spaziali, temporali e personali rispetto agli altri ordinamenti giuridici… In breve l’asserita principalità della costituzione ripete e conferma, nell’esperienza giuridica, la chiusura nella particolarità dell’ente politico». E ricorda, a conferma di queste sue affermazioni, la visione hegeliana della costituzione come «l’organizzazione dello Stato».

Se la costituzione segna il primato della politica sul diritto, non possiamo meravigliarci che la Corte costituzionale lo ribadisca ed asseveri. D’altra parte, anche un giudice emerito di questa istituzione mette a volte da parte l’aplomb e riconosce che, in alcuni casi, ci siamo trovati di fronte a «…una Corte politica, che è consapevole del torto, ma chiude un occhio, mettendo sull’avviso l’autore del misfatto». Seguire gli sviluppi della giurisprudenza costituzionale sui problemi della vita nascente sarebbe, quindi, interessante: un po’ per rintracciare gli orizzonti della soggettività giuridica e un po’ per riflettere, insieme a Cotta, sul senso del diritto, sul senso del diritto nel nostro tempo proprio a partire dagli elementi più cruciali, laddove sono più evidenti le tracce dell’innocenza violata.

  • Non (ancora) vita? 

Dobbiamo partire dall’idea che l’ordinamento giuridico italiano è costruito essenzialmente sulle esigenze di una società di proprietari intenti a gestire i propri beni mediante il libero scambio del mercato. Il soggetto di diritto assume rilievo innanzitutto per i riflessi economici di quanto ha o avrà la capacità di possedere e utilizzare. Questa prevalenza della dimensione economica sulla dimensione esistenziale ha relegato la vita nascente ai margini del contesto normativo. Ai sensi dell’art. 1 del cod. civ., la capacità giuridica si acquisisce con la nascita, «i diritti che la legge riconosce a favore del concepito sono subordinati all’evento della nascita», e quindi al momento in cui gli interessi patrimoniali diverranno attuali. Le poche norme del codice civile, in cui si fa esplicito riferimento al concepito (320, 462, 687, 715, 784), riguardano vari aspetti del diritto ad acquisire beni mediante successione o donazione. Insomma, il legislatore si interessa del nascituro solo se c’è un patrimonio da preservare o gestire.

Questa visione è cambiata per effetto dell’entrata in vigore della Costituzione che non menziona esplicitamente il nascituro, ma delinea una visione variegata e complessa dell’essere umano a cui vanno riconosciuti e garantiti «i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità» (art. 2). Il soggetto entra a far parte dell’esperienza giuridica non solo per quello che ha, ma per quello che è, per quello che desidera e per quello a cui aspira. L’ art. 3 comma 2 afferma che è compito dello Stato «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana». In questo progetto ambizioso di attenzione e cura per tutte le potenzialità inespresse, non può non rientrare anche il nascituro, che, se vogliamo, è la potenzialità inespressa per eccellenza. La Corte costituzionale ha interpretato questa profonda valenza esistenziale nel senso più ampio, estendendo, come vedremo, senza tentennamenti l’applicazione degli art. 2 e 3 alla configurazione giuridica della vita nascente. Il problema è costituito dalla portata di questa tutela dinanzi ad altri interessi, ritenuti di pari, se non di maggior rilievo costituzionale.

L’altro elemento di cambiamento è costituito dalle pratiche di fecondazione assistita, e più in generale dalle prospettive aperte dalla tecnoscienza, non soltanto perché hanno imposto al legislatore di intervenire esplicitamente sul rilievo etico e sulla qualificazione giuridica degli embrioni, ma anche perché hanno infranto il dualismo tra madre e figlio e tra vita e non (ancora) vita. Lo statuto giuridico del concepito si fonda su una serie di importanti decisioni emesse, nella seconda metà del novecento, dalle Corti costituzionali dei maggiori paesi occidentali in tema di aborto. La tutela della privacy, il diritto all’autodeterminazione, il divieto di ogni bodily invasion hanno offerto un sufficiente modello argomentativo ai giudici per risolvere il drammatico conflitto tra la volontà (se non addirittura la vita) della madre e la vita del figlio. «Antiabortion laws violate principles of constitutional privacy… because the grounds for such laws are non neutral in the constitutionally forbidden way in an area of the core of the fundamental human rights of intimate personal relationship».

La frattura tra procreazione e gestazione, imposta dalle tecniche di fecondazione assistita, dissolve l’esclusiva intimità personale del dualismo tra madre e figlio, perché moltiplica le possibili figure materne (genetica, gestante, committente) per cui dal rapporto madre/figlio che caratterizza la visione tradizionale della gestazione e si proietta sul problema dell’aborto siamo passati al rapporto madri/figlio oppure madre (committente)/madri/figlio. Nel concepimento assistito il medico ha assunto un ruolo sempre più rilevante, perché decide le condizioni di fertilizzazione, la selezione e l’impianto degli embrioni, ma può anche condizionare, attraverso le possibilità e le responsabilità aperte dalle diagnosi preimpanto e prenatale, l’inizio o la prosecuzione della gravidanza. Questo modello di procreazione asessuata e medicalizzata è ancora più evidente nel caso delle famiglie mono- oppure omo-parentali, in cui l’idea di maschile e femminile svanisce dal contesto esistenziale per emergere solo nell’orizzonte biologico dell’incrocio di gameti. I gameti incrociati dal medico, osservati dal medico nel loro sviluppo, impiantati dal medico se ben sviluppati, determinano una genitorialità indistinta, con genitori che spesso non «generano», ma sono padre o madre o… Al rapporto madre/figlio e a quello madre/madri/figlio si aggiunge il rapporto madre/madri/medico/figlio.

In altri casi l’embrione si svincola non solo dalla madre, ma anche da qualsiasi progetto vitale (embrioni orfani, embrioni soprannumerari, embrioni creati per fini scientifici, embrioni donati alla scienza). Oltre al rapporto madre/figlio, madre/madri/figlio, madre/madri/medico/figlio troviamo, allora, quello madre/madri/medico/scienza/(non)figlio. La centralità della scienza si accentua, seppure in altri termini e con altre prospettive, nel caso dei designer babies e nelle prospettive ancora incerte del gene editing, perché non è facile individuare la soglia che separa la manipolazione dalla terapia.

Non possiamo neppure ignorare il ruolo che svolge il mercato nel proporre soluzioni e nell’ alimentare desideri ed attese: dalle tariffe sulle varie tecniche di fecondazione alla compravendita, laddove è permessa, di gameti; dal commercio delle staminali alla brevettabilità del vivente. Allora la catena si allunga ancora un po’, perché dovremmo parlare di madre/madri/medico/scienza/mercato/figlio.

In questa catena sempre più articolata non vanno ripensati e ridefiniti solo i modelli genitoriali, ma anche la tutela della privacy, la responsabilità del medico, la configurazione giuridica della cessione di «biologia» (il seme, l’ovulo, l’utero). La modificazione del rapporto tra procreazione e gestazione incide pure sul dualismo tra vita e non vita, evidenziando una pluralità di soglie di rilevanza giuridica a misura dei diversi interessi e soggetti coinvolti: oocita, oocita attivato, oocita singamico, ootide o oocita a due pronuclei o pre-zigote, zigote, embrione, embrione congelato, embrione soprannumerario, embrione orfano.  La tutela della vita si perde in una zona indistinta di «non ancora vita» (embrione), «non abbastanza vita» (feto), «non più vita» (materiale biologico).

All’interno di un orizzonte così variegato la visione meramente patrimoniale della vita nascente non ha più senso. L’art. 1 del codice civile è superato da una serie di decisioni giudiziali che offrono una tutela sempre più intensa alla vita prenatale, in conformità alla spinta esistenziale presente nella costituzione. E’ riconosciuto il diritto alla salute e quindi a nascere sano, il diritto al soccorso e alla diagnosi, il diritto all’identità genetica, il diritto alla dignità umana, il diritto a non essere messo al mondo per soli fini scientifici e anche il diritto a fruire e godere della doppia figura genitoriale. Insomma si viene a definire una sempre più ampia costellazione di diritti che autorizza ad affermare che «l’embrione è uno di noi».

Questa spinta soggettiva entra, però, in collisione con la nuova mentalità imposta dalle tecniche di fecondazione artificiale, dove il generare scivola sempre più verso il progettare e il creare. Il creato e il progettato sono oggetti: oggetti preziosi, desiderati, amati, protetti, ma non sono soggetti. Non lo diventano finché il loro creatore non decide in un certo modo oppure lo diventano solo perché il loro creatore ha preso una determinata decisione. Su questo dato puramente elettivo della condizione fetale il sociologo francese Boltanski ha scritto pagine estremamente interessanti per dimostrare come la grammatica della generazione possa finire per condizionare l’esperienza delle persone, indirizzando il progetto parentale verso esiti profondamente diversi che influenzano le prospettive giuridiche. Nell’immaginario collettivo non esiste più il feto, ma il «feto autentico» (quello che è inserito in un progetto di generazione), il «feto tumorale» (quello che è destinato a essere abortito), il «feto essenzialista» (quello che è avvertito come tale in base a vincoli religiosi), il «feto barbaro» (quello che non rientra in un progetto parentale), il «feto totalitario» (quello la cui nascita è condizionata dalla policy dello Stato), il «tecno-feto» (lo scarto dei processi di fecondazione assistita): ciascuno con il proprio destino già segnato non dalla biologia, ma dalle circostanze sociali che hanno indirizzato la volontà dei «creatori» in un senso o nell’altro.

Nel diritto si trovano a convivere entrambe queste istanze: l’esigenza di attribuire sempre maggior rilevanza ai diritti del nascituro e la tendenza a considerarlo il semplice oggetto di scelte altrui, «a commodity», della cui qualità abbiamo il controllo e la responsabilità. La nascita di un figlio malformato (wrongful birth) diventa la «colpa» per aver permesso una vita sbagliata (wrongful life), rifiutabile se rivelata dai test genetici o comunque se vi è stato un difetto di informazione (wongful conception) e da rifiutare finché è possibile l’aborto (wrongful pregnancy). Questo tipo di azioni giudiziali attraversano da anni la cultura giuridica di tutti i paesi occidentali, segnata da alcune storiche decisioni: negli Stati Uniti il caso Curlender; in Francia il caso Perruche; in Germania una decisione della Corte di giustizia federale del 1986; in Olanda il caso Molenaar; in Italia Tribunale di Verona 4 ottobre 1990. Questo spiega perché spesso le forme di tutela si convertano nel loro opposto. Il diritto alla salute e il diritto a non soffrire si traducono nella pretesa affermazione del diritto a non nascere, perché nothingness è sempre preferibile a nothing of death. Anche la mancanza della doppia figura genitoriale è servita ai giudici italiani come argomento per negare il diritto all’impianto dell’embrione congelato di una coppia separata. Impianto richiesto dalla madre e rifiutato dal padre.

Nessuno nega che il nascituro debba ricevere una tutela sempre più ampia, che va ben oltre i meri interessi economici, ma resta ancora il dubbio se sia un soggetto di diritto e se sia possibile riconoscergli la prima e fondamentale prerogativa del soggetto di diritto il diritto alla vita. Si parla di «non cosa», di «non soggetto», di «non persona», di «centro di interesse giuridico». Sembra quasi che il diritto, una volta eliminata la facile contabilità del rapporto tra dare e avere delle relazioni patrimoniali, non sia in grado di assorbire tutte le profonde implicazioni esistenziali riposte nell’attuazione dei valori costituzionali e preferisca metterle da parte ricorrendo al sistema più semplice per evitare la sofferenza: evitare la vita. La vita nascente resta quindi sospesa tra essere e non essere: è meritevole di tutela, ma è una tutela variabile che non dipende dalle norme, ma dal modo in cui sono lette e adattate alle circostanze, per favorire spesso valori e modelli di vita che non hanno nulla che vedere con il nascituro.

  • Il ruolo della Corte costituzionale 

Gli interventi della Corte costituzionale italiana sulla vita nascente si inquadrano all’interno di questi particolari sviluppi. Dobbiamo tenere presente che i giudici entrano a contatto con la realtà e con i valori solo attraverso la mediazione delle norme e dei conflitti che devono risolvere. La loro visione è condizionata dal singolo fatto posto alla loro attenzione. L’oggetto della sentenza della Corte costituzionale italiana del 18.02.1975 n. 27, la sentenza tanto criticata da Sergio Cotta, era la tutela della salute della donna, quando la prosecuzione della gravidanza poteva costituire un pericolo per la sua vita. Il feto costituiva solo l’oggetto indiretto della decisione. La Corte non doveva stabilire cosa fosse e quando iniziasse la vita umana, ma se questa vita in formazione avesse un rilievo giuridico e fosse un limite al diritto all’autodeterminazione della gestante. Messa di fronte al rigido dualismo tra vita della madre e vita del figlio, la Corte non ha avuto esitazioni: «non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare». I giudici hanno avuto il merito di non porre questa decisione sul piano dei fatti, dichiarando che quella del nascituro non è ancora vita, ma sul piano delle scelte di valore: il valore della vita attuale della madre (persona) e il valore della vita, anche questa considerata nell’integrità della sua dimensione biologica ed esistenziale, soltanto potenziale del nascituro (individuo).

Si è raggiunto, insomma, lo strano risultato per cui è proprio la legittimazione dell’aborto ad aver fornito l’occasione per riconoscere la rilevanza costituzionale del nascituro. Se per l’art. 1 del codice civile la tutela giuridica inizia con la nascita, questa sentenza della Corte costituzionale sposta la protezione al momento del concepimento: «l’art. 2 Cost. riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, fra i quali non può non collocarsi, sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie, la situazione giuridica del concepito». È iniziata così, nell’ordinamento giuridico italiano, una situazione ibrida tra essere e non essere, tra individuo e persona, che dura ancora oggi. Il concepito è oggetto di tutela per cui l’aborto può avvenire solo su indicazione medica e «l’intervento deve essere operato in modo che sia salvata, quando ciò sia possibile, la vita del feto». Non è, invece, oggetto di tutela dinanzi al pericolo anche «non immediato» per la salute della gestante.

Dando attuazione a questa sentenza della Corte costituzionale, la legge 22 maggio 1978 n. 194 sulla tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza ripropone integralmente la confusione tra essere e non essere. L’art. 1 sembra riconoscere esplicitamente rilevanza giuridica alla vita nascente: «lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela vita umana dal suo inizio». È vero che il legislatore non chiarisce cosa intenda per inizio della vita (il concepimento? la singamia? la formazione del sistema nervoso?), ma è innegabile che l’affermazione che lo Stato «tutela la vita umana dal suo inizio» abbia un valore simbolico ed etico enorme rispetto a «la capacità giuridica si acquisisce con la nascita» dell’art. 1 del codice civile. Inoltre, la legge impone che l’aborto avvenga solo in strutture pubbliche autorizzate, dopo tutta una serie di consulenze e prescrizioni mediche, e che, dopo i primi novanta giorni, sia possibile solo se la gravidanza o il parto comportino un pericolo che, in questo caso, deve essere «grave» per la vita della donna (art.6).

Questo rigore è più apparente che reale, perché il medico ha solo un ruolo consultivo e non ha nessuno strumento, per tutelare la vita del nascituro, quando ritiene che la decisione della madre sia priva di fondamento. Nei primi novanta giorni l’interruzione della gravidanza è ammessa non solo per motivi terapeutici, ma anche quando la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la salute «psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito» (art. 4). L’aborto terapeutico, che nella decisione della Corte costituzionale appariva indispensabile per salvaguardare la vita della madre, è divenuto un aborto per i motivi più vari: psicologici, economici, sociali, familiari. Motivi che, se posti all’attenzione dei giudici, forse avrebbero determinato un diverso bilanciamento degli interessi. Il «grave pericolo per la vita» sottolineato dalla Corte è divenuto nel testo di legge un pericolo per le condizioni di vita desiderate o supposte, probabili o anche solo ipotizzabili. Gli effetti prodotti dalla legge sono, quindi, molto lontani dal sofferto bilanciamento di interessi e valori adombrato dalla Corte costituzionale: la donna ha un potere insindacabile di decisione a condizione che rispetti le procedure previste.

Essere o non essere? «Essere» dal punto di vista teorico. «Non essere» dal punto di vista pratico. Questo spiega perché la dottrina, pur riconoscendo la rilevanza costituzionale della vita nascente, abbia grosse difficoltà nell’affermare che il nascituro sia un soggetto di diritto. Il nascituro ha «una sorta di “diritto alla vita” in senso descrittivo, non formale, ma fortemente sentito…». La Corte costituzionale ha continuato, nel tempo, a mantenere questa situazione di incertezza, rigettando tutte le richieste di incostituzionalità della L. n. 194 sia quando veniva lamentata l’insufficiente tutela dell’embrione sia quando venivano denunciate le restrizioni al diritto all’autodeterminazione della donna. In particolare la sentenza 10.02.1997 n. 35 ha dichiarato inammissibile la proposta di un referendum che tendeva alla totale liberalizzazione dell’aborto entro i primi novanta giorni, con la relativa abrogazione della suggestiva formula dell’art. 1. La Corte ha affermato che non solo lo Stato non può rinunciare alla tutela del concepito, ma che questa esigenza si è «rafforzata» per effetto delle numerose dichiarazioni internazionali sui diritti del fanciullo. La Corte chiarisce che «si è rafforzata la concezione, insita nella Costituzione italiana, in particolare nell’art. 2, secondo la quale il diritto alla vita, inteso nella sua estensione più lata, sia da iscriversi tra i diritti inviolabili, e cioè tra quei diritti che occupano nell’ordinamento una posizione, per dir così, privilegiata, in quanto appartengono… all’essenza dei valori supremi su cui si fonda la Costituzione italiana». Secondo alcuni si tratta di un’importante evoluzione rispetto alla decisione del 1975. In realtà, non ha cambiato nulla nell’interpretazione della legge n. 194: ha solo accentuato la differenza tra il modello ideale e la sua attuazione pratica.

  • Legge n. 40 versus legge n. 194 

Il legislatore ha cercato di dare veramente attuazione ai principi affermati dalla Corte costituzionale, quando ha regolamentato la procreazione medicalmente assistita. Dinanzi al potenziale conflitto di interessi tra child e childmaker in relazione  alla creazione di embrioni soprannumerari, alla moltiplicazione delle figure genitoriali, alla selezione eugenetica, alla sperimentazione scientifica, alla clonazione, la legge 19 febbraio 2004 n. 40 («Norme in materia di procreazione medicalmente assistita») ha deciso di dare una voce al child, statuendo all’art. 1 che «al fine di favorire la soluzione dei problemi riduttivi derivanti dalla sterilità o dall’infertilità umana è consentito il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, alle condizioni e secondo le modalità previste dalla legge, che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il nascituro». In questo caso l’affermazione non ha un valore puramente teorico, come nell’art. 1 della legge sull’aborto. La tutela del nascituro si è concretizzata in una serie di pesanti limitazioni in ordine alle tecniche da utilizzare (divieto della  donazione di gameti e della clonazione), ai soggetti ammessi (coppia eterosessuale sterile o infertile), al trattamento (divieto di fecondare più di tre embrioni e obbligo di impiantarli) e alla sperimentazione (divieto della produzione di embrioni a fini di ricerca, divieto di ogni forma di selezione a scopo eugenetico e di ogni predeterminazione delle caratteristiche genetiche). L’art. 14 vieta inoltre «la crioconservazione e la soppressione degli embrioni, fermo restando quanto previsto dalla L. 22 maggio 1978, n. 194».

È difficile trovare nella storia della cultura giuridica italiana una legge che, come quella sulla «procreazione medicalmente assistita», abbia ricevuto critiche tanto violente e reiterate. Si è parlato di «mostruosità normativa», «(in)civiltà umane alimentate dal fanatismo religioso», «insulto all’intelligenza», «assurdità scientifica». Senza entrare nel merito di questi giudizi, va osservato che il limite di questa legge è il suo valore: cercare di scogliere il nodo tra essere e non essere, eliminando tutti gli elementi potenzialmente pregiudizievoli al nascituro, presenti nella pratica della fecondazione assistita. «Ci troviamo infatti di fronte ad una legge che non può essere valutata sotto un profilo tecnico, se prima non la si sia valutata sotto un profilo bioetico». Dal punto di vista etico la legge 40 ha costituito una sorta di riflettore acceso sulle contraddizioni del passato, accesso su una soggettività giuridica riconosciuta al concepito e subito negata dal diritto di aborto, acceso su tutta una serie di diritti progressivamente attribuiti al nascituro (alla salute, ai genitori, al risarcimento del danno, alla successione) senza che gli venisse esplicitamente riconosciuto il diritto alla vita, da cui tutti questi diritti dipendono.

Accendere il riflettore non è servito a eliminare i problemi. Come va interpretato, ad esempio, l‘art. 1 quando afferma che la legge assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti «compreso» il nascituro? È l’inconfutabile riconoscimento, al concepito, di una soggettività giuridica piena con l’integrale attribuzione di tutti i relativi diritti e, in particolare, del diritto alla vita?  È una soggettività giuridica attenuata, «tagliata su misura del corpo che nasce», non valutabile alla stregua del principio della parità di trattamento con i soggetti adulti? È una soggettività giuridica relativa a determinate situazioni (non essere oggetto di commercio, non essere formato solo per la ricerca scientifica) che consente, se non emergono interessi contrastanti, di considerare il nascituro «portatore diretto di interessi protetti, ovvero nostro simile»? La legge n. 40 ribadisce continuamente che non intende toccare gli aspetti disciplinati dalla legge sull’aborto. Ma è possibile? Procreazione e aborto sono strutturalmente legati. Se l’embrione diventa un soggetto di diritto per la procreazione non può essere un oggetto di disposizione per l’aborto e viceversa. È questo il vicolo cieco in cui si è infilata la legge n. 40. Se si collega l’art. 1 all’art. 14 che vieta la crioconservazione degli embrioni e prevede un «unico e contemporaneo impianto» di tutti gli embrioni formati, ci troviamo di fronte al paradosso che l’embrione, una vita che si sta per sviluppare, non può essere mai distrutto, mentre il feto, una vita già ampiamente sviluppata, può essere soppressa a certe condizioni. Portando fino alle estreme conseguenze questa interpretazione, una donna avrebbe l’obbligo di subire l’impianto degli embrioni, anche contro la sua volontà, ma potrebbe chiedere successivamente di essere autorizzata ad abortire. Una situazione grottesca che mette in luce come il problema è costituito dal fatto che è impossibile praticare la fecondazione assistita, senza che emergano forme di pregiudizio per il nascituro. Gli embrioni soprannumerari, la cessione di gameti, la selezione embrionale non sono elementi accidentali, ma strutturali nella «nascita artificiale».

Ne ha preso atto la sentenza 08. 05. 2009 n, 151 della Corte costituzionale che, pur ribadendo il fondamento costituzionale della tutela dell’embrione in virtù dell’2 Cost., ha ritenuto che questa tutela   si «affievolisca» in caso di conflitto con altri interessi di pari rilievo costituzionale, come già affermato nel caso dell’aborto. Insomma la salvaguardia del childmaker ha determinato, ancora una volta, il sacrifico del child, perché «la tutela dell’embrione non è comunque assoluta, ma limitata dalla necessità di individuare un giusto bilanciamento con la tutela delle esigenze di procreazione». La creazione di embrioni in soprannumero, il loro impianto, la diagnosi preimpianto sono  lasciati esclusivamente alla valutazione del medico e alla volontà dei pazienti, perché, sostiene la Corte, la previsione legislativa della creazione di un numero di embrioni non superiore a tre, in assenza di ogni considerazione delle condizioni soggettive della donna che di volta in volta si sottopone alla procedura di procreazione medicalmente assistita, si pone in contrasto «con l’art. 3 Cost., riguardato sotto il duplice profilo del principio di ragionevolezza e di quello di uguaglianza, in quanto il legislatore riserva il medesimo trattamento a situazioni dissimili; nonché con l’art. 32 Cost., per il pregiudizio alla salute della donna».

La Corte non ha fatto un passo indietro sulla rilevanza costituzionale dell’embrione, ma nel bilanciamento degli interessi ha svuotato ancora un poco i valori affermati di principio: prima era la condizione psico-fisica della madre ora sono le «esigenze della procreazione» a segnare la sorte del nascituro. Le esigenze della procreazione sono un valore costituzionale? Sembra di sì, secondo un’altra sentenza della Corte costituzionale, 10.06.2014 n. 162, con cui è stato dichiarato incostituzionale il divieto di donazione di gameti. Facendo riferimento alla decisione del 2009, i giudici hanno dichiarato che le «giuste esigenze della procreazione» sono un nuovo valore costituzionale che impone di tutelate la libertà fondamentale della coppia di formare una famiglia con dei figli.

La Corte è tornata su questo problema nella decisione del 21 ottobre-11 novembre 2015 n. 229 sulla legittimità delle sanzioni penali previste per la selezione, crioconservazione e soppressione di embrioni (art. 13, commi 3, lettera b), e 4, e dell’art. 14, commi 1 e 6, della legge 40). La selezione degli embrioni, e quindi la distruzione di quelli inutilizzati, è considerata legittima all’interno del disegno procreativo delle coppie infertili, perché è l’unico strumento per consentire l’accesso alle tecniche di fecondazione assistita di queste coppie. Sarebbe stato contraddittorio dichiarare incostituzionali le limitazioni poste dalla legge n. 40 alla possibilità di avere un figlio sano e poi punire la condotta del sanitario che procedeva alla selezione degli embrioni proprio per escludere l’esistenza di malattie genetiche ereditarie.

La Corte ribadisce, però, che, quando non ricorrono questi presupposti, tutti i limiti e i vincoli previsti dalla legge restano immutati, perché la malformazione non giustifica «un trattamento deteriore rispetto a quello degli embrioni sani …si prospetta, infatti, l’esigenza di tutelare la dignità dell’embrione, alla quale non può parimenti darsi, allo stato, altra risposta che quella della procedura di crioconservazione. L’embrione, infatti, quale che ne sia il, più o meno ampio, riconoscibile grado di soggettività correlato alla genesi della vita, non è certamente riducibile a mero materiale biologico».

Emergono sempre nuove «esigenze», quella della madre prima e quelle della procreazione poi, per relegare l’embrione ai margini dell’esperienza giuridica. La distruzione degli embrioni per sviluppare la ricerca sulle staminali embrionali troverà tra qualche anno il proprio fondamento costituzionale nelle «esigenze della scienza»? La distruzione degli embrioni per ricavare cellule staminali per le terapie geniche troverà fondamento costituzionale nella tutela del diritto alla salute? Sembra che vi siamo sempre meno ragioni per tutelare l’embrione, quanto più emerge l’attenzione nei suoi confronti come «progetto genitoriale», come «modello di conoscenza», come «nucleo dei meccanismi vitali». Può una società profondamente condizionata dalla logica del mercato escludere un residuo inviolabile che si sottragga all’ottica dei desideri, delle utilità, degli scambi? A maggior ragione, se questo residuo sta all’origine stessa dell’identità umana ed è quindi il fondamento ideale della libertà? Ecco l’importanza di sottolineare la funzione anche simbolica che la tutela degli embrioni umani riveste per tutti coloro che «non possono difendere se stessi né argomentare in prima persona». Può l’innocenza violata continuare a restare ai margini della nostra riflessione sul senso e sul ruolo del diritto? Cotta non ha solo posto questa domanda, ma ha anche offerto una veste teoretica e un fondamento filosofico alle possibili risposte.

 

  • RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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