Il difficile rapporto tra media e migrazioni sotto la lente delle scienze sociali di Rosa Tagliamonte

Migrazioni e sociologia europea tra identità e sicurezza. È questo il titolo del Convegno Internazionale organizzato dalla sezione Processi ed Istituzioni Culturali dell’Associazione Italiana di Sociologia (PIC AIS), in collaborazione con il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale (CoRis) dell’Università degli Studi di Roma «La Sapienza», svolto il 13 marzo 2019 al Centro Congressi d’Ateneo dell’Università Sapienza di Roma. Un’occasione per parlare delle migrazioni nello sguardo delle scienze sociali e del legame particolare che intercorre tra questi fenomeni e media con studiosi italiani ed europei. Il fine è quello di dare impulso alla riflessione scientifica sui fenomeni delle migrazioni, nel contesto di una cultura della sicurezza potenzialmente capace di ridimensionare l’impatto della percezione in quella che ormai a tutti gli effetti sembra «una società della paura».
Il Convegno è il terzo appuntamento di riflessione critica e discussione pubblica intrapresa dalle Scienze Sociali sul tema delle politiche migratorie degli ultimi anni che, insieme a quello, solo in parte correlato, della sicurezza percepita, raccoglie attenzioni in diverse aree di studio nel complesso atlante scientifico delle Università. Si tratta di tematiche trasversali, di piena titolarità della società civile e del sistema giuridico, che mostrano un carattere di apertura a tutti i territori del sapere. A discuterne a Roma sono tre sociologi con diverse esperienze di ricerca sul tema delle migrazioni: Ursula Apitzsch della Goethe-Universität Frankfurt, Roberto-Luciano Barbeito Iglesias dell’Universitad Rey Juan Carlos di Madrid e Maddalena Colombo dell’Università Cattolica Sacro Cuore di Milano e coordinatrice AIS-Sezione Educazione.


Il punto di partenza di questa riflessione è il contributo offerto dalla Professoressa Apitzsch, focalizzato sui processi migratori che hanno caratterizzato la Germania e la zona metropolitana di Francoforte negli ultimi anni. In quest’area, lo studio delle esperienze e delle biografie delle nuove generazioni coinvolte in tali processi ha rilevato l’esistenza di una familiarizzazione delle migrazioni e la presenza di un fattore di genere nella scelta di emigrare dal proprio paese di origine. Questa decisione, infatti, riguarderebbe maggiormente le donne che, giunte alle seconde generazioni, riuscirebbero a integrarsi nel paese ricevente meglio rispetto alle seconde generazioni di genere maschile. Generalmente la seconda generazione fa da ponte tra la cultura della prima e della terza generazione di immigrati e, se la prima generazione è quella che riscontra le maggiori difficoltà di adattamento al nuovo contesto, la terza generazione risulta essere perfettamente integrata nel paese ricevente.

I flussi migratori sono oggi un argomento oggetto di forte attenzione a tutti i livelli: media e opinione pubblica, dibattito politico interno, cooperazione tra paesi su scala europea e globale. Tuttavia, la discussione risulta non sempre fondata su dati oggettivi, e piuttosto basata su convinzioni ideologiche che poco hanno a che fare con la realtà in cui viviamo. A questo riguardo, l’intervento del Professor Barbeito Iglesias descrive l’immigrazione come una delle issue che più divide l’agenda pubblica nei paesi europei che stanno vivendo una crisi generale su diversi piani, tutti collegati all’attuale globalizzazione neoliberale: ecologico, demografico, tecnologico, economico, sociale, culturale, politico. In un contesto del genere, questa divisione corrisponde a due essenziali quadri interpretativi: da un lato, la difesa degli immigrati basata sulla dottrina dei diritti umani, e, dall’altro, il rifiuto degli immigrati come fonte di insicurezza e di deterioramento del mercato del lavoro e del benessere economico. Questa nuova separazione si esprime attraverso il sistema culturale e, in modo particolare, attraverso i media e i social media, che contribuiscono ad amplificarla, probabilmente a causa di interessi commerciali e della logica spettacolare che contraddistingue il loro operato.

In questo scenario culturale, quali sono le risposte che la politica sta offrendo alla sfida del grande flusso migratorio che sta investendo tutta l’Europa? A ben guardare, l’arena politica non fa altro che alimentare a fini elettorali la divisione espressa dal sistema mediale, spingendo l’agenda politica dei partiti tradizionali verso posizioni più restrittive e rafforzando il principale ingrediente dell’agenda dei partiti populisti emergenti. Secondo il Professor Barbeito Iglesias, la polarizzazione generata dai media e la competizione elettorale sul problema dell’immigrazione possono portare a processi di conflitto sociale e, perfino, al collasso degli attuali regimi democratici, poiché essa coincide con un graduale processo di delegittimazione di istituzioni, in generale, e di istituzioni politiche rappresentative, in particolare, che si è intensificato durante la crisi economica.

Quando lo spazio pubblico è ormai compromesso, quando è difficile individuare risposte adeguate al problema dell’immigrazione in Europa, esistono strade da percorrere per risolvere tale questione capitale che segnerà il futuro degli europei e degli abitanti di molti altri paesi? Il Professor Barbeito Iglesias nel suo intervento sostiene che la gestione costruttiva del problema dell’immigrazione può avvenire solo se le istituzioni culturali e politiche prendano coscienza di quanto è in gioco e abbandonino l’uso interessato e semplicistico dei discorsi sull’immigrazione. Allo stesso tempo, afferma che una gestione non conflittuale dell’immigrazione richiede il miglioramento del processo decisionale collettivo e, in definitiva, il miglioramento del processo democratico. A tal fine è necessario attuare innovazioni democratiche capaci di favorire decisioni più rappresentative e consapevoli e, quindi, più legittime e costruttive sull’immigrazione. L’intervento, infine, suggerisce la rettifica da parte dei governi europei delle proprie politiche economiche, in modo che l’occupazione e il benessere tornino a essere obiettivi centrali, rivendicando il ruolo delle istituzioni culturali, in particolare media, social media e il sistema educativo, come strumenti indispensabili per il miglioramento democratico: solo attraverso media e istituzioni educative effettivamente orientate all’interesse comune sarà possibile fornire ai cittadini informazioni veritiere, complete e dettagliate sul problema dell’immigrazione e solo così potranno essere disattivati discorsi semplicistici tesi a generare fronti antagonisti.

Il contributo che le istituzioni culturali possono dare per migliorare la conoscenza sociale del fenomeno migratorio è ben rappresento dall’esperienza di ricerca resa nota dalla Professoressa Colombo nell’ambito del suo intervento Le migrazioni: una sfida per le sociologie dei processi culturali. La studiosa lombarda ha cominciato a studiare i primi «sintomi» della società multiculturale italiana negli anni Novanta attraverso la lente di un centro di ricerca a carattere locale rappresentato dal Centro di Iniziative e Ricerche sulle Migrazioni – Brescia (CIRMiB): l’approccio locale adottato dal centro è stato orientato a costruire una rappresentazione sociale del fenomeno migratorio meno impressionistica ed emotiva di quanto non facessero in parallelo mass media e social media, anche prima dell’interesse elettorale che ha suscitato questo tema nei movimenti e partiti «anti-immigrati», permettendo di giungere a risultati soddisfacenti che hanno rivelato che l’integrazione è un fatto sociale e non una formula politica. Nonostante queste evidenze, la sfida non è stata vincente perché il dato scientifico e l’argomentazione logica passano facilmente in secondo piano di fronte al bisogno di rassicurare l’opinione pubblica con slogan e semplicistiche ricette risolutive che, nella rappresentazione sociale del fenomeno migratorio, concorrono a rafforzare una metafora contrappositiva caratterizzata dai soliti binomi «noi/loro», «inclusi/esclusi», «regolari/irregolari», «buoni/cattivi» cara alle cosiddette ideologie anti-sistema o populiste. L’intercultura, come nuovo paradigma interpretativo dei fenomeni sociali, nonostante non sembri essere un modello facilmente sostenibile in Italia, è in realtà ampiamente praticato in quegli ambienti meno influenzati dalla rappresentazione bellica delle migrazioni come le famiglie miste, le scuole di frontiera, i giovani di seconda generazione, le aziende con impronta transnazionale e le istituzioni religiose che sperimentano, in situazioni pratiche, la dialettica tra contributi culturali alternativi producendo, di fatto, apprendimento reciproco all’interno di una nuova cornice interculturale. Secondo la Professoressa Colombo sono, dunque, l’esperienza e la convivenza che consentono l’integrazione: nel Nord Italia, ad esempio, dove la componente irregolare è meno evidente ed è concentrata nei luoghi in cui sono presenti i Sistemi di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (Sprar), tutte le aree in cui si svolge la vita quotidiana sono pervase da immigrati e di fatto l’integrazione è già avvenuta. Ciò che accade nel Settentrione d’Italia non è diverso da quanto avviene in Germania, dove gli immigrati sono per lo più inseriti nel tessuto sociale e dove, ad esempio, gli ultimi dati dell’ufficio nazionale del lavoro mostrano che circa il 40% degli immigrati siriani arrivati nel Paese nel 2015 risulta occupato e integrato. Il fenomeno della xenofobia continua comunque ad essere presente in Germania, ma è maggiormente diffuso in territori in cui l’immigrazione è più limitata, come nella Germania dell’est dove la popolazione immigrata è pari al solo 2%.
La «paura dello straniero», come in altri paesi europei, è presente anche in Italia dove però essa assume caratterizzazioni e connotazioni proprie: il nostro Paese accoglie un numero di migranti molto più piccolo della Germania e non si sono verificati, sul nostro territorio nazionale, episodi di attentati terroristici come quelli avvenuti negli ultimi anni, ad esempio, in Francia o in Spagna; una nazione, quest’ultima, in cui, pur se atti terroristici hanno causato vittime innocenti, il terrorismo non viene narrato come fenomeno legato all’immigrazione, come invece succede in Italia. È allora necessario chiedersi dove sia celato l’inghippo narrativo del fenomeno migratorio in Italia e se è possibile adoperare un nuovo registro comune, sanando anche quella schizofrenia comunicativa che, come evidenziato dalla Professoressa Colombo nel suo intervento, porta il mondo imprenditoriale del Nord a votare Lega e a ripetere di non voler immigrati quando poi, di fatto, li impiega nelle proprie imprese.
Nella tavola rotonda su Migrazioni e media svolta nella parte finale del Convegno è possibile ritrovare elementi utili a circoscrivere i tratti peculiari della comune narrazione del fenomeno migratorio in Italia, le sue cause e le sue conseguenze. Punto di partenza è il contributo del Prof. Rolando Marini dell’Università per Stranieri di Perugia, secondo cui il tema politico dell’immigrazione prende forma sin dagli anni ’90 in Italia attraverso una serie di emergenze, che derivano da eventi straordinari o scioccanti, che stabiliscono un legame costante del fenomeno con la cronaca, normalmente la cronaca nera, dalla quale proviene un continuo e mutevole «rifornimento» verso gli spazi del dibattito pubblico. «Omicidi, naufragi, stupri, incidenti, tragedie del mare, salvataggi eroici e aggressioni, dall’una e dall’altra parte, influiscono sulla percezione delle persone»: i naufragi di Lampedusa dell’ottobre 2013 permettono all’opinione pubblica italiana di prendere coscienza dei flussi migratori provenienti dall’Africa; le rapine in villa e gli omicidi commessi da immigrati, tra cui il caso della ragazza smembrata a Macerata da un immigrato nigeriano richiedente asilo e la sparatoria vendicativa ad opera di un italiano, fanno esplodere l’attenzione di tutti i media verso questi casi «memorabili» che, narrati in modo spettacolare da una parte del giornalismo, creano lo sconcerto del pubblico in generale. Se la rappresentazione del tema dell’immigrazione avviene nel nostro Paese mediante esempi scioccanti, è opportuno domandarsi cosa comporti tutto questo per la politica e per i media e soprattutto cosa dovrebbe fare la sociologia per contribuire a una conoscenza più obiettiva possibile del fenomeno. Il Prof. Marini suggerisce di cominciare a indagare il modo in cui agisce il sistema mediale di fronte a questo tipo di eventi e i risultati porteranno a sostenere «l’impossibile elogio dei mezzi di informazione» che propongono sempre gli stessi schemi di rappresentazione e, in particolare, due rituali comunicativi messi in scena a seconda degli orientamenti politico-culturali: da una parte, quello del dolere e della pietà, appartenente generalmente alla stampa cartacea, ad esclusione di quelle testate che contraddicono continuamente alla Carta di Roma, che tende a trattare il fenomeno in un’ottica buonista, facendosi promotrice di un approccio umanitario che si contrappone al secondo rituale, quello della difesa e della reazione di rifiuto, tipicamente securitario, nazionalista e xenofobo. Questi due rituali riescono a rinsaldare il legame affettivo e fiduciario tra i produttori di informazione e i propri pubblici, che continuano a coltivare questi sentimenti negli spazi orizzontali del web, schierati sui due fronti opposti, senza la necessaria mediazione, da parte di giornalisti, politici ed esponenti della società civile, che dovrebbe ritrovare la cronaca nel suo transito verso la politica. Secondo lo studioso, la causa della mancanza di efficacia della funzione di mediazione va ritrovata nel ripetersi continuo di emergenze, che diventano pretesti per lo scontro simbolico tra due forme di radicalismo culturale, una di stampo umanitario, espressione estrema del pensiero e dei sentimenti universalisti e cosmopoliti dei ceti riflessivi, l’altra di stampo xenofoba e nazionalista, manifestazione massima dei sentimenti di disagio provocati dalla globalizzazione e dal cosmopolitismo espressi dai ceti che soffrono il contraccolpo culturale delle trasformazioni in atto. Si viene, dunque, a creare una nuova frattura politico-culturale ampia e frastagliata che supera la normale divisione tra classi sociali e si insinua tra le due posizioni estreme, coinvolgendo interi settori delle opinioni pubbliche europee sempre più disorientate di fronte al fenomeno migratorio. Questa forma di smarrimento non può essere ricondotta, secondo il Prof. Marini, solo al disagio economico, piuttosto a un aggregato di problemi connessi alle nuove insicurezze che caratterizzano il viver sociale del secolo in corso e che sono riconducibili al concetto di «panico morale» coniato dai sociologi della «Scuola di Birmingham» nello studio sulle ondate di criminalità nelle città inglesi negli anni Settanta: in un contesto in cui l’insicurezza diventa il frame della convivenza sociale e la crescente richiesta di misure di polizia coinvolge ampiamente l’opinione pubblica, questa non solo si sente in allarme e spaventata (panico) ma non riesce più a distinguere giusto/ingiusto ovvero auspicabile/riprovevole ed ecco il panico morale. Il Prof. Marini sostiene che un processo analogo si sta verificando con l’immigrazione: come indicano i dati dell’Osservatorio Europeo sulla Sicurezza (2017), che effettua un monitoraggio periodico sulle diverse facce dell’insicurezza mettendo in relazione percezione, rappresentazione e realtà, sul tema «immigrazione e sicurezza» cresce la percezione di insicurezza degli italiani: il 46% si sente in pericolo, facendo registrare il dato più alto da dieci anni a questa parte. Questo accade perché l’immigrazione è ormai emergenza che divide la società e la politica. Certo, le misure e le vicende contano: l’afflusso dei migranti dall’Africa verso le nostre coste, i fatti di violenza che hanno suscitato sdegno e paura. Tuttavia ad alimentare questi sentimenti concorre l’amplificazione dei media, che dedicano al tema un’attenzione crescente rispetto agli anni passati, e il ruolo della politica che, in un clima da campagna elettorale permanente in cui viviamo dal 2015, è diventata cassa di risonanza delle paure della società. Tutto ciò a dispetto dei numeri che indicano che gli sbarchi dei migranti in Italia sono drasticamente diminuiti negli ultimi tre anni, passando da 76.858 a giugno 2017 ai 2.544 sbarcati nel nostro Paese dal 1 gennaio 2019 al 27 giugno 2019.

In uno scenario così complesso, in cui le percezioni sociali non sempre corrispondono ai dati reali, non bisogna limitarsi a stigmatizzare il comportamento dei media tacciandoli di generare disinformazione, piuttosto è necessario considerare, come fa Marini, che se l’immigrazione genera disorientamento e percezioni di minaccia-insicurezza, anche in chi ha una cultura civica orientata alla solidarietà, è perché si è verificato uno scollamento tra le culture civico-politiche progressiste tradizionali e i problemi della globalizzazione e della sicurezza. Nelle nostre società, insomma, la paura è ormai una categoria politica e la xenofobia attraversa trasversalmente il continuum sinistra-centro-destra con il cosiddetto pregiudizio differenzialista: quest’ultimo fa nascere nelle persone una serie di dubbi circa la compatibilità delle differenze culturali nel momento in cui una data società comincia davvero a diventare multiculturale. Un esempio pratico di come la xenofobia si stia diffondendo in modo trasversale nella politica del nostro tempo potrebbe essere individuato nei risultati delle ultime elezioni politiche in Danimarca, che hanno visto trionfare il Partito Socialdemocratico: una forza di centro sinistra che ha vinto le elezioni impostando in buona parte la campagna elettorale sulla difesa dei diritti e delle tutele dei lavoratori danesi, sulla critica alla globalizzazione e sostenendo una linea dura sull’immigrazione. Il caso danese ha suscitato scalpore nei principali quotidiani europei ed è diventato un argomento nell’eterno dibattito sul futuro della sinistra italiana. Seppur in molti hanno sostenuto che in Danimarca la sinistra abbia vinto grazie alle sue posizioni anti-immigrazione, accademici e giornalisti danesi hanno evidenziato che in realtà la storia che raccontano queste elezioni è ben più complicata di così: il primo problema è dato dal fatto che il Partito Socialdemocratico danese non è cresciuto rispetto alle elezioni politiche di quattro anni prima (in termini numerici ha persino perso qualche voto, passando dai 924 mila voti presi nel 2015 a 914 mila), mentre hanno migliorato il loro risultato i Radicali danesi, pro-Europa e pro-immigrazione, che hanno raddoppiato i loro voti (da 160 a 300 mila), e la sinistra radicale, che complessivamente è passata da 400 a più di 500 mila voti. La vera notizia è stata la grande sconfitta del Dansk Folkeparti (DF), il Partito del Popolo Danese, storico partito di destra radicale, che ha più che dimezzato i suoi consensi a favore di altri partiti. Secondo gli esperti, la sconfitta della destra radicale è dipesa dal fatto che per la prima volta, dopo decenni, la campagna elettorale non ha avuto al centro l’immigrazione, mentre il successo dei partiti di centrosinistra è stato dovuto ai crescenti timori per il clima e per la crisi del welfare state danese. Per quanto la posizione anti-immigrazione dei socialdemocratici abbia raggiunto livelli mai visti in precedenza, non è una completa novità per il Paese che, sotto l’influenza del Partito del Popolo Danese, è passato dall’essere uno dei più aperti ad uno dei più intolleranti d’Europa. Le elezioni danesi dimostrano, quindi, che con la retorica anti-immigrazione un partito socialdemocratico può riuscire a recuperare una parte del voto dei lavoratori preoccupati dagli effetti dell’immigrazione, ma rischia allo stesso tempo di perderne nella classe media più istruita, che inorridisce di fronte a messaggi nazionalistici o di welfare-sciovinista (la promessa di limitare sussidi e benefici a una sola nazionalità).
Nell’analisi di Marini altri due elementi concorrono a generalizzare lo smarrimento e la percezione di insicurezza legati all’immigrazione: da una parte l’indebolimento dell’universalismo dei diritti sociali, che lascia trapelare il rischio della concorrenza sui benefici di welfare comunque in diminuzione, e, dall’altra, la tendenza delle culture del multiculturalismo a fare proprie le regole della «correttezza politica» che danno come risultato la censura del linguaggio e l’inibizione dell’esternalizzazione dei problemi derivanti dal vissuto delle persone. Il disagio non ascoltato crea così un cortocircuito nelle relazioni della mediazione politica, facendo del multiculturalismo una mera declamazione di principi, un’arida retorica a cui manca la capacità di costruire una prassi politica multilivello dell’immigrazione e delle relazioni interculturali nel medio-lungo periodo. In questo contesto, secondo Marini, non sono solo inadeguati i proclami o le denunce indignate, lo sono anche le semplici politiche dell’accoglienza eccessivamente disomogenee e focalizzate sui singoli contesti locali. In conclusione, dai tanto bistrattati mezzi d’informazione, ad eccezione di quelli che combattono con convinzione la battaglia anti-immigrazione, emergono quotidianamente non solo le incertezze derivanti dall’insieme degli episodi che palesano le contraddizioni della convivenza tra autoctoni e stranieri e le inadeguatezze del sistema dell’accoglienza, ma anche l’incapacità della politica nazionale di gestire l’immigrazione e, dunque, l’impossibile elogio di una politica che sostiene la «politica dell’interculturalità» ma che non riesce a darle forma.
Politica e mezzi di informazione: una relazione che caratterizza la democrazia e che condiziona percezioni, pensieri e comportamenti delle persone in maniera diversa a seconda del modo in cui essa si forma e si esprime. Due elementi, quelli della politica e dell’informazione, che è impossibile elogiare oggi in Italia quando il tema trattato è quello dell’immigrazione: la narrazione identitaria e securitaria che prende sempre più spazio nei media e soprattutto nei social, così come la ricerca continua di consenso su questi temi da parte dei partiti e dei movimenti populisti e sovranisti, alterano la percezione degli italiani, come registrato dai sondaggi, contribuendo ad alimentare nell’opinione pubblica il senso di insicurezza. Secondo il Professor Massino Ghirelli dell’Università degli Studi Roma Tre, intervenuto alla tavola rotonda, tutto questo equivale a un fallimento, soprattutto per i giornalisti e gli operatori della comunicazione, ma anche per gli insegnanti nelle scuole e i docenti nelle università, che si manifesta attraverso il trionfo delle fake news, degli sfoghi viscerali su Facebook e dei cinguettii del razzismo di governo. Un fallimento che ha tra le sue cause principali quella di non avere creduto fino in fondo nella battaglia per i diritti dei migranti, neanche quelli di seconda generazione, che si sono trovati davanti a tanti «no» (al voto, allo jus soli, ai diritti apparentemente acquisiti come quelli dei richiedenti asilo) e a cui è stata concessa una cittadinanza dimezzata realizzata senza investimenti sull’integrazione sociale, politica e culturale. Ed è proprio dalla costruzione di percorsi chiari e sostenibili di integrazione, formazione, inclusione e interscambio culturale che bisogna ripartire, individuando anche un nuovo modello di accoglienza, capace di governare i flussi e di programmare gli arrivi come accade in piccolo con i corridoi umanitari. A tutto questo bisogna poi affiancare nuove narrazioni: Ghirelli parla di un vero e proprio «New Deal della comunicazione», che dovrebbe investire il giornalismo, il cinema, l’arte, l’università e gli operatori culturali, capace di narrare la bellezza della democrazia, sull’esempio di quello della democrazia americana che sapeva raccontarsi e convincere anche attraverso Disney o Frank Capra. Secondo lo studioso, di fronte all’arroganza di certi rappresentanti politici e all’ignoranza dilagante che in televisione e su Facebook raccontano un Italia brutta, chiusa e incattivita, è necessario un uso più consapevole dei media, degli strumenti culturali che si hanno a disposizione e dei percorsi universitari nell’ambito dei quali è doveroso avere e trasmettere più passione agli studenti per questi temi, spronandoli a partecipare e mostrando loro che l’Italia è altro: è un Paese composto da piccole città di cultura che hanno saputo aprirsi e accogliere, tutelando in questo modo anche il territorio nazionale da azioni terroristiche.
Se la «cultura» e le esperienze delle comunità e dei piccoli centri della nostra penisola continuano a difendere anche l’onore dell’Italia in questo controverso ambito delle migrazioni e dell’accoglienza, la conoscenza è la sola arma di cui si possa disporre per combattere la paura e superare il divario tra realtà, rappresentazioni e percezioni veicolato dai media. Secondo la Professoressa Michaela Gavrila dell’Università Sapienza di Roma, questo divario è quello con cui dobbiamo fare i conti quando, ad esempio, pensiamo alle immagini che abbiamo dei migranti: anche se i media ci propinano per lo più volti di giovani uomini, in realtà sono molto di più le donne a migrare tanto da poter parlare di una femminilizzazione del fenomeno migratorio. Vi è poi il timore rappresentato dal presunto furto ai danni dei cittadini italiani in termini di occupazione, smentito da una vasta gamma di studi, svolti prima sul mercato del lavoro statunitense e successivamente su quello europeo, che hanno mostrato come nella maggior parte dei casi la relazione tra forza lavoro nativa e immigrata sia di sostanziale complementarità e che l’aumento della presenza di lavoratori immigrati tende a favorire la riallocazione dei lavoratori nativi verso professioni qualificate. Ulteriori analisi economiche hanno mostrato come la disponibilità di lavoratrici straniere nell’ambito dei servizi di cura alle famiglie, e in particolare agli anziani, faciliti la partecipazione femminile al mercato del lavoro e che gli immigrati danno un contributo importante alla produzione di reddito attraverso le proprie imprese e il versamento delle tasse e dei contributi all’erario italiano. Senza contare che la popolazione straniera è in media più giovane di quella italiana (34 anni in media): questo si traduce in una minore domanda di servizi sanitari da parte degli immigrati, in un importante contributo alla natalità complessiva (dato il forte calo della fecondità tra gli italiani rispetto alle famiglie di origine straniera) e, in futuro, in contributi previdenziali per ogni lavoratore. L’immigrazione rappresenta per il nostro Paese, nonostante l’emergenza degli anni passati, un’opportunità dal punto di vista sociale ed economico, si pensi, ad esempio, che il saldo tra entrate e uscite imputabili all’immigrazione (es. le spese sostenute dal Ministero dell’Interno per il sistema dell’accoglienza, le operazioni di soccorso in mare e i Centri di identificazione ed espulsione, etc.) è positivo e pari a 1,7 miliardi di euro, anche in un anno come il 2016 che ha visto lievitare i costi dell’accoglienza a causa del numero record di sbarchi sulle coste del nostro Paese. Per quanto riguarda i media, il divario tra realtà, rappresentazioni e percezioni da loro veicolato rende evidente il fallimento di una comunicazione che influisce pesantemente sulle percezioni delle persone e che, insistendo sul frame della sicurezza e su quello degli sbarchi, fa prevalere il sentimento della paura, che ci restituisce il migrante come il diverso/nemico e il tema del confine noi/loro. Ad ogni modo, non tutti i media trattano il fenomeno migratorio alla stessa maniera: se da una parte, infatti, i social sono più divisivi, dall’altra il cinema svolge una funzione di socializzazione positiva del fenomeno. Come riportato dalla Professoressa Gaia Peruzzi dell’Università Sapienza di Roma nel corso del suo intervento alla tavola rotonda, in Italia sta emergendo un tema nuovo, ancora minoritario, legato alla narrazione umanitaria compiuta dalle Organizzazioni non governative (Ong) sui loro siti web. Anche questa narrazione, comunque, pone dei problemi dovuti al fatto che i migranti non vengono narrati come persone, con proprie storie individuali e relazioni sociali, piuttosto sono presentati come una categoria debole composta da tanti individui invisibili. Se, dunque, anche queste narrazioni positive adottano una strategia narrativa del tutto simile a quella che caratterizza i frame negativi, in cui si racconta l’altro senza renderlo mai individuo, come del resto accade quando si parla di «razza», di «donne» e di «neri», allora è possibile affermare che esiste un problema culturale, irrisolvibile fintantoché saranno utilizzati sempre gli stessi paradigmi interpretativi. Cosa è possibile fare per tentare di cambiare lo stato delle cose? Agire sui paradigmi, ribaltandoli completamente, facendo passare queste narrazioni in altri luoghi e contesti, come la scuola ad esempio, dando voce alle persone, perché la storia di una vittima è più efficace della storia di un’intera categoria.

Temi delicati come quello dell’immigrazione richiedono, inoltre, conoscenza del fenomeno e analisi di rigore scientifico, ed è qui che il mondo della ricerca deve fornire il suo contributo per rendere possibile un dibattito informato, basato sull’osservazione della realtà piuttosto che su stereotipi e paure che ne condizionano e ne distorcono la percezione. Un grande intellettuale del nostro tempo, Umberto Eco, si è soffermato spesso sulla distanza tra conoscenza e informazione e su come, nel mondo di oggi, ci si ritrovi immersi in un flusso tale di informazioni da generare rumore. In un tempo di troppe parole ostili e fake news è importante, dunque, che si aiuti a dissipare questo rumore per aprire la strada alla conoscenza. In questo processo il giornalismo può giocare un ruolo chiave, specialmente se utilizza la comunicazione come «strumento per costruire, non per distruggere; per incontrarsi, non per scontrarsi; per dialogare, non per monologare; per orientare, non per disorientare; per capirsi, non per fraintendersi; per camminare in pace, non per seminare odio; per dare voce a chi non ha voce, non per fare da megafono a chi urla più forte»: una comunicazione, dunque, che cerchi la verità e non si accontenti della superficie, che non costruisca stereotipi o slogan, che non smerci disinformazione ma il pane buono della verità. Lo ha sottolineato Papa Francesco nel suo discorso sulla comunicazione e sul giornalismo rivolto il 18 maggio scorso ai circa 400 membri dell’Associazione della Stampa Estera in Italia ricevuti in Sala Clementina, nel corso del quale ha ricordato ai giornalisti la necessità di calibrare le parole in un tempo in cui, specialmente nei social media, molti usano un linguaggio violento e spregiativo. In quell’occasione il Papa ha ringraziato i giornalisti per l’aiuto che danno a non dimenticare che «chi è costretto da calamità, guerre, terrorismo, fame e sete a lasciare la propria terra non è un numero, ma un volto, una storia, un desiderio di felicità», esortando a ricordare che il Mediterraneo si sta trasformando in «cimitero». Centrale è, poi, il raccontare il bene anche se il male fa più notizia: «Vi prego, continuate a raccontare anche quella parte della realtà che grazie a Dio è ancora la più diffusa: la realtà di chi non si arrende all’indifferenza, di chi non fugge davanti all’ingiustizia, ma costruisce con pazienza nel silenzio». Nel discorso all’Associazione Stampa Estera, il Papa sottolinea che il ruolo «indispensabile» del giornalista richiede grande responsabilità nella cura delle parole, delle immagini, di quanto si condivide sui social media, come peraltro sottolineava anche Benedetto XVI ricordando che i mass media tendono a farci sentire spettatori, come se il male riguardasse solo gli altri, mentre siamo tutti «attori» del bene come del male. In analogia a quanto affermato da Papa Bergoglio, si può sostenere che anche il ruolo indispensabile del rappresentante politico richiede grande responsabilità nella cura delle parole, delle immagini, di quanto si condivide sui social media, specialmente se in gioco è la dignità umana. Riportare al centro l’importanza delle parole in tutti i processi umani potrebbe contribuire a creare le condizioni per conoscere e comprendere appieno i diversi fenomeni che caratterizzano il nostro tempo, tra cui quello migratorio: un’informazione che fa leva sul ragionamento più che sull’emotività, sulla riflessione più che sulla violenza può agevolare la formazione di pensiero critico nelle persone sui vari fatti che condizionano il viver sociale. È allora più che dalla Rete, l’elemento vero di cambiamento può essere rappresentato dall’educazione che rappresenta lo strumento culturale più potente di cui ancora disponiamo per aumentare il livello culturale, migliorare i processi democratici e garantire una più armonica convivenza sociale. Scuola, università e media: tre attori che se ben coordinati possono fornire a ogni persona le abilità cognitive per orientarsi nel grande mare della disinformazione.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2019/may/documents/papa-francesco_20190518_stampaestera.html.

Donnini Debora, 2019, Il Papa ai giornalisti: umili e liberi per costruire, al servizio della verità. In Vatican News, 18 maggio 2019.
https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2019-05/papa-francesco-giornalisti-associazione-stampa-estera-italia.html.

Ghirelli Massimo, 2019, Intervento alla Tavola Rotonda Migrazioni e media. Book of Abstract Migrazioni e sociologia europea tra identità e sicurezza, Convegno internazionale organizzato dal PIC AIS in collaborazione con il Dipartimento CoRiS, Sapienza Università di Roma, 13 marzo 2019, 8-9.

Marini Rolando, 2019, La forma dell’immigrazione: tra emergenze e scontro simbolico. Book of Abstract Migrazioni e sociologia europea tra identità e sicurezza, Convegno internazionale organizzato dal PIC AIS in collaborazione con il Dipartimento CoRiS, Sapienza Università di Roma, 13 marzo 2019, 10-14.

Osservatorio Europeo sulla Sicurezza, Sondaggio Demos & Pi per Fondazione Unipolis. Settembre 2017. http://www.demos.it/a01427.php.

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