Riconoscimento e soggettivazione in relazione sincronica di Dario Alparone

Abstract: this paper focuses on the political implications of psychoanalysis regarding the question of the “legal person without powers”. In a psychoanalytical perspective, the subject is a construction deriving from a conglomerate of social interactions. The juridical dimension of the process of social recognition by institutions coincides with the psychoanalytical model of “alienation-separation” which is intrinsic to the construction of the subject. Thus a person can achieve his autonomy in the synchronicity of the juridical institution and the creation of the subject. Without the social (symbolical) recognition, the subject is excluded from the symbolic order, in which the social link consists, and the outcomes can be exemplified in the figures of depression and criminal deviance.

Keywords: Lacanian psychoanalysis – social recognizing – criminology – criminal law – juridical institutions

Questo contributo si propone di mostrare come il riconoscimento sociale che le istituzioni offrono all’individuo possa assumere un valore fondamentale nella costituzione della stessa soggettività. La prospettiva qui presentata del soggetto e del suo costituirsi prende le mosse dalla prospettiva psicoanalitica, e ciò implica che il «soggetto senza diritti» o «senza poteri» non è inteso come un soggetto privato di qualcosa che possiede, dovrebbe possedere, in positivo; piuttosto si tratta di un soggetto che mancando del riconoscimento sociale, e quindi simbolico, non può costituirsi in termini di individuo autonomo. In questo senso il «soggetto senza diritto» o «senza potere» è un soggetto alienato innanzitutto dal riconoscimento simbolico: egli non può accedere a quella dimensione simbolica che lo «umanizzerebbe» riconoscendolo come essere desiderante, cioè uomo portatore di diritti, e ciò comporta che egli abita il legame sociale soffrendo quel disagio che esso inevitabilmente implica per tutti gli uomini in maniera drammaticamente accentuata.
La concezione psicoanalitica del soggetto, che prende le mosse dal modello di «alienazione-separazione» e che mostra come il soggetto sia causato dal discorso dell’Altro (l’ordine simbolico, costituito da significanti), coincide anche con diverse concezioni filosofico-politiche. Ad esempio, una recente ricerca condotta in Brasile mostra come l’autonomia individuale dei soggetti delle classi sociali più povere subisca una modificazione radicale (in senso positivo) dal momento in cui quest’ultimi erano inseriti nel progetto di inclusione economica del governo (Lula) ricevendo un’indennità economica per la propria condizione sociale (Bolsa Familia). In altri termini, il grado di autonomia morale si costituisce materialmente a partire dall’operazione di riconoscimento sociale da parte dell’istituzione, o, in termini psicoanalitici, dal riconoscimento simbolico da parte dell’Altro.
Ciò che in questa sede ci interessa è quando il rapporto tra soggetto e istituzione perde di sincronicità, vale a dire quelle occasioni in cui l’istituzione sociale perde quel valore simbolico di riconoscimento della soggettività cosicché venga meno anche il processo di costituzione del soggetto autonomo. Una questione più che mai attuale, dal momento in cui il valore simbolico delle istituzioni, almeno in certe dimensioni della civiltà occidentale, sembrano attraversare un periodo di crisi che porta, secondo la nostra prospettiva, ad una crisi della soggettività stessa.

Il soggetto autonomo e le sue implicazioni giuridiche

La nozione di soggetto che qui è evocata trova la propria fondamentale e formale concettualizzazione nell’istituzione giuridica. Quando si parla o ci si occupa di soggetto, si ha a che fare innanzitutto con quel soggetto sancito, istituito dal diritto: per soggetto del diritto si pensi alla personalità giuridica così come la intende l’art. 27 della Costituzione. Tale soggettività è sintetizzabile nel concetto di individuo autonomo, cioè capace di mettere in atto una serie di azioni che esprimono un’intenzionalità intrinseca e che è guidato da motivazioni coscienti: soggetto la cui caratteristica fondamentale è la libertà.
La soggettività libera è una nozione fondamentale per le istituzioni giuridiche di tutto il mondo occidentale e in particolare dei sistemi penali. Per esempio, nel diritto penale «lo schema tradizionale della responsabilità poggia sul presupposto della libertà del volere, il libero arbitrio (e quindi la capacità di intendere e di volere del soggetto)». Quello di soggetto libero e autonomo è un principio logico del diritto penale e sta a fondamento delle istituzioni giuridiche tout court, le quali tendono a riprodurlo nella realtà già nel fatto stesso di riconoscere dei diritti. Dall’altra parte la dimensione reale, e non logica, dell’autonomia soggettiva è trattata dalle scienze sociali e in particolare da quelle psicologiche.
Dal punto di vista psicoanalitico, la soggettività non può essere un semplice risultato di un atto di ratifica, quanto piuttosto è il risultato di un processo di costruzione che coinvolge elementi contestuali alla vita stessa del soggetto. In altre parole si tratta di un processo di causazione della soggettività da parte del discorso dell’Altro: non esiste un individuo-monade che viene al mondo con delle istanze personali e morali già date e sviluppate a prescindere da qualsiasi influenza di carattere ambientale o sociale. D’altra parte, una delle intuizioni fondamentali della psicoanalisi sta proprio nel riconoscere quella condizione fondamentale di indeterminatezza che connota l’umano e che Freud riconosce denominandolo come Hilflosigkeit.
La condizione dell’essere umano è quella della costitutiva indeterminatezza istintuale e dell’assoluta dipendenza primordiale dall’Altro. In questo senso, da un punto di vista antropologico, si è visto nella possibilità di darsi delle regole e delle leggi, nell’acquisizione di abitudini e tradizioni qualcosa di consustanziale all’indeterminatezza degli esseri umani, i quali nel vivere in società ritrovano una direzione precisa e, possibilmente, univoca al proprio «stare nel mondo». Proprio perché l’uomo non è un’entità astratta, la sua «moralità», quale capacità di indirizzare le proprie azioni in vista di uno scopo e tenendo conto della dimensione sociale, va costruita, possibilmente anche per tutta la vita.
La consapevolezza psicoanalitica del fatto che l’essere umano acquisisca la propria autonomia in un processo di soggettivazione ha delle implicazioni molto importanti, tra queste alcune, per esempio, di carattere criminologico. Proprio per questo motivo in psicoanalisi l’esistenza del crimine è possibile solo nel mondo umano, cioè nel dominio simbolico governato dalle leggi: «niente è più umano del crimine». In altri termini il crimine è umano non nel senso di errare humanum est, ma perché l’azione criminale essendo al di là dell’ordine legale è qualcosa di proprio all’umano. È la Legge che fonda la civiltà, con il suo correlativo disagio e, implicitamente, la possibilità di trasgressione.
In questa prospettiva l’insieme di norme (sia scritte, quali quelle istituzionalizzate nell’ordinamento giuridico, che non scritte, cioè quelle immanenti al vivere sociale quotidiano) non servono solo a regolare dall’esterno l’agire del soggetto, come limitazioni funzionali a garantire l’ordine e la sicurezza sociale, ma piuttosto esse hanno un effetto costituente per la stessa soggettività autonoma. Se l’ordinamento simbolico delle regole che organizzano la società fosse qualcosa di esterno alla struttura stessa dell’umano si tratterebbe di una concezione negativa della libertà, la quale

«è proiettata nello stato di natura nella forma di un’insopprimibile tendenza, sicché l’alternativa di partire da legami originari e da una reciproca dedizione non è neppure concepibile; di conseguenza, diventa pressoché scontata la rappresentazione dell’uomo come un essere atomizzato, il cui principale interesse è quello di poter agire senza limitazioni, secondo le proprie preferenze».

Piuttosto, pensare le istituzioni e la libertà individuale in termini di correlazione apre a una concezione della Legge come strutturante il legame sociale e costitutivo per la soggettività medesima. In questo senso non è propriamente esatto parlare di “natura umana”, proprio nel senso che l’umano è per sua propria caratteristica definito a partire dalla dimensione sociale e contestuale che lo fa esistere in quanto tale. Gli istinti che caratterizzano gli animali, guidandoli nel loro mondo-ambiente (Umwelt) non esistono nell’uomo, il quale è abitato piuttosto da pulsioni il cui oggetto è l’elemento più variabile. Pertanto, concepire l’autonomia individuale nei termini di capacità di realizzare la propria libertà naturale nel mondo esterno implica la sua riduzione ad una sorta di istinto animale, e le norme morali sociali che ne derivano vengono intese come elemento «aggiunto» alla libertà individuale. Sempre in quest’ottica l’aspetto regolativo delle norme viene concepito come un elemento essenziale al funzionamento della società poiché composta da individui liberi nella loro singolarità, ma al tempo stesso come elemento ad essa trascendente. A questa concezione della Legge sono riconducibili quelle interpretazioni che sottolineano soprattutto l’aspetto punitivo e retributivo della pena.
Una morale pensata con tali caratteristiche, come «esterna» all’individuo, è stata riconosciuta dalla psicoanalisi nella specifica istanza del Super-io, quale risultato di un processo di introiezione delle regole e dei precetti morali (per mezzo di fondamentali identificazioni), sulle quali si fonda il vivere sociale. Concezione che fu abbracciata pienamente peraltro dagli psicoanalisti postfreudiani e dai teorici dell’adattamento dell’individuo alla società, i quali spiegavano, ad esempio, la condotta criminale in termini di «disfunzione» del Super-Io:

«c’è un tipo criminale, poco descritto in psicoanalisi, che presenta appunto la caratteristica di avere un Super-Io poco sviluppato per cause costituzionali, anche quando i modelli (genitori, educatori, ambiente sociale) siano stati tali da poter determinare la formazione di un Super-Io normale. In questo tipo c’è anche uno scarso sviluppo dell’Io, il che ha per conseguenza che la funzione di mediazione tra Es e mondo esterno non può efficacemente compiersi: da qui aderenza al principio del piacere, cui l’Io è incapace di rinunciare».

Il crimine come risultato di un deficit di sviluppo del Super-Io è stata una concezione diffusa nel freudismo e, in effetti, molto confacente con certo senso comune; si pensi a quelle interpretazioni criminologiche che vedono nel criminale semplicemente qualcuno che mette in atto delle azioni immorali, quindi un soggetto che non tiene conto delle leggi, delle regole della società in cui vive. Una posizione che gli sviluppi della scienza psicoanalitica hanno poi rivisitato e che sono stati ampiamente criticati dalla psicoanalista infantile Melanie Klein. Ella affermava infatti, sviluppando la linea di pensiero del «delinquente per senso di colpa» di Freud, che l’atto criminale fosse il risultato di una condizione angosciosa incontenibile da parte del soggetto e legata a delle fantasie inconsce sadiche risvegliate dalle esperienze reali, attuali. L’angoscia che precede l’atto criminale è interpretata quindi, secondo la Klein, come legata alla formazione di un Super-Io ipertrofico che attanaglia il soggetto fino a farlo esplodere nell’atto violento, e non ad un Super-Io debole come volevano i post-freudiani e gli psicologi dell’adattamento. Una concezione che a modo suo Lacan riprenderà quando comparerà il rigore dell’etica kantiana all’assolutezza del godimento sadiano, accostamento dal quale risulterà che «l’esigenza della pulsione si presenta come una legge, con le stesse caratteristiche della legge morale». La legge intesa come assoluto dovere razionale, che risiede dietro il concetto di autonomia come legge morale individuale, porta con sé un lato paradossale per cui il suo essere formale, astratta e assoluta cela il rimosso della dimensione più pulsionale e dirompente del godimento. Dietro l’imperativo categorico kantiano, in cui prende forma la legge superegoica e alla quale affianchiamo l’interpretazione giuridica della pena in senso punitivo e retributivo, risiede un nucleo pulsionale sadico. Nella formalità della legge kantiana, cioè la legge del Super-Io quale istanza morale esterna interiorizzata, non vi è contenuto e il suo valore noumenico sta proprio nell’essere astratta e vuota, e in quanto tale essa è descrivibile come un significante senza significato, rappresentazione di un rimosso fondamentale, di un’esperienza di soddisfacimento non più rinvenibile nel mondo esterno.
In questo senso è possibile affermare che la legge nella sua funzione interdicente e regolativa si organizza in due aspetti abbastanza distinti, uno dal carattere supereogico (la legge astratta) e che al livello individuale è di carattere riflessivo; l’altro sociale, che organizza simbolicamente l’esistenza umana in istituzioni e attorno al riconoscimento reciproco. Quest’ultima non è esterna al soggetto, alla società (per poi prendere i connotati pulsionali distruttivi più profondi), ma anzi garantisce all’essere umano una qualche consistenza offrendogli un posto nell’ordine simbolico. È riguardo a questa legge di carattere sociale che, per esempio, il principio (giuridico) dell’inammissibilità o non giustificabilità dell’ignoranza della legge assume un valore psicoanalitico molto profondo: la legge sociale strutturando la stessa soggettività è un principio immanente allo stesso vivere civile, quindi non è alienabile dalla condotta soggettiva. La legge è un principio inconscio all’azione stessa, essendo essa immanente al vivere in civiltà.
Nella legge sociale del riconoscimento reciproco il soggetto accede alla dimensione simbolica ottenendo un posto all’interno del legame sociale e interagendo, nelle relazioni sociali, entro un orizzonte simbolico in cui è possibile reperire un Terzo. Questa componente simbolica della Legge permette al soggetto di accedere in un rapporto di mediazione alla propria dimensione pulsionale, avendo anche degli effetti pacificanti. In questo senso vi è un certo rapporto di

«opposizione tra la Legge (pubblica e simbolica) e il Super-Io. La legge pubblica tollera silenziosamente “tra le righe” – o persino incoraggia- quel che il suo testo esplicito proibisce (per esempio l’adulterio), mentre l’ingiunzione del Super-Io che ordina la jouissance, proprio per la franchezza del suo ordine, ostacola l’accesso del soggetto ad essa in modo molto più efficace di qualsiasi proibizione».

L’imperativo superegoico è un imperativo di godimento, al quale il soggetto è costretto a rispondere, in una condizione di assoluto assoggettamento, mentre la legge sociale, simbolica, permette al soggetto di avere degli spazi di libertà soggettiva entro cui poter realizzare il proprio desiderio, il quale può esprimersi come desiderio di trasgredire le leggi: «in questo contesto, è facile individuare il potenziale liberatorio dell’essere sollevati dal godimento: in questa direzione, si viene sollevati dal mostruoso dovere di divertirsi».
L’azione criminale (in particolare quella violenta) è il risultato di un passaggio all’atto, quale espressione di un’esigenza di soddisfacimento pulsionale immediato, dunque di un imperativo supereogico, e, in questo senso, essa esprime un’impasse nelle capacità di autocontrollo, e quindi di autonomia, del soggetto. L’atto criminale esprime cioè, proprio in quanto scarica di energia psichica, una forte componente pulsionale che non è regolata dall’ordine simbolico, da quella legge del riconoscimento che sola può permettere al soggetto di raggiungere quella capacità regolativa delle proprie azioni. Si tratta di una questione che peraltro appare abbastanza evidente in certe forme di violenza giovanile nella società contemporanea:

la risposta alla carenza di legge nell’esperienza del soggetto contemporaneo tende ad andare in due direzioni che sono fra loro legate. Da un lato va verso un rafforzamento della dimensione immaginaria, cioè della dimensione speculare, di quell’aspetto del legame sociale più legato al versante identificatorio, dell’essere tra simili e molto meno nella relazione del soggetto con la dimensione simbolica come tale. L’altro versante compulsivo dell’agire del soggetto, cioè del versante che porta l soggetto a compiere degli agiti o dei passaggi all’atto, quindi delle risposte, per esempio, a una situazione di disagio che possono andare nella direzione di una azione sconsiderata, di una azione non regolata dalla legge. Lo si vede in modo evidente negli ambienti scolastici dove sembra che le scuole siano diventate dei luoghi di regolazione in cui la funzione docente si degrada a un lavoro di contenimento pulsionale, cioè a fare in modo che il compagno non faccia violenza sull’altro compagno.

La legge sociale ha dunque un effetto di regolazione pulsionale per il soggetto, distinguendosi così da quella Legge inconscia che piuttosto preme sul soggetto in direzione del godimento; contrapposizione che struttura così una sorta di duplicità della Legge. La legge sociale nel suo aspetto sostanziale di reciprocità ha una funzione pacificante per il soggetto, di fronte all’angoscia superegoica. È nel riconoscimento che egli si costruisce come soggetto autonomo, cioè come soggetto connotato innanzitutto da capacità di valutare il significato delle proprie azioni e di determinarne gli esiti (e quindi in senso giuridico un soggetto capace di intendere e di volere). In questo senso la soggettività in quanto tale è costituita come autonoma nella

«consapevolezza che rende ragione del sentirsi libero, giacché la libertà non è arbitrio assoluto, né spazio vuoto in cui ci si può muovere come all’interno di una monade senza porte né finestre. La libertà è relazione, è costruzione consapevole di rapporti altri, governo e misura di questi rapporti, codeterminazione della forma dell’essere individuale e dell’essere insieme».

In tale capacità, la quale può essere sviluppata solo socialmente, il soggetto può raggiungere quell’autonomia che potrà permettergli anche di trasgredire le leggi sociali compiendo nel contempo una scelta etica. La moralità del soggetto, nella sua riflessività, può aprire quest’ultimo ad essere indipendente dalla legge sociale, dalla legge istituita. In questa possibilità di indipendenza il soggetto può trovare anche la possibilità di oltrepassare le leggi istituite, cioè di non identificarsi ad esse alla stregua del paranoico, e compiendo delle scelte etiche.
Nell’ottica psicoanalitica le istituzioni hanno un ruolo centrale nella costituzione del soggetto, permettendone il riconoscimento innanzitutto quale individuo possessore di diritti e di doveri, e garantendogli con ciò l’accesso a quella libertà che gli è sincronicamente riconosciuta. È nell’essere riconosciuto socialmente come soggetto da parte di un Altro che l’individuo può abitare il legame sociale, e senza riconoscimento simbolico egli è costretto a confrontarsi con l’angoscia di una legge solipsistica di marca superegoica. Privato del suo diritto, del riconoscimento simbolico, il soggetto è come se abitasse il legame sociale da estraneo, le leggi corrispondono a delle frustrazioni del proprio desiderio e le sanzioni inflitte nel momento della trasgressione delle leggi hanno un carattere unicamente punitivo, non di restituzione o riparazione di un danno, esse non aprono a nuove possibilità di entrare a far parte del legame sociale:

l’assenza di regolatori sociali ed istituzionali (dalla scuola, al lavoro, ai circoli culturali, sportivi, sindacali, politici (nel senso della polis), crea una condizione di instabilità e fragilità, un terreno recettivo o potenzialmente fertilizzabile che può venire invaso dalla mala pianta dell’esclusione, della marginalità, della ghettizzazione e da qui si origina un’angoscia impastata alla violenza che prende il sopravvento.

In questo senso il venir meno del valore simbolico delle istituzioni produce una tale fragilità soggettiva, che non è detto sia possibile per un individuo accedere all’autonomia individuale, la quale può esprimersi anche in un senso di cittadinanza, di appartenenza politica ad una comunità.

Il decadimento dell’istituzione e il soggetto depresso

Da quanto fin qui si è avuto modo di mostrare si può concludere che l’essere umano può costruirsi come soggetto solo all’interno di un ordine simbolico che garantisce delle relazioni di reciprocità, nel cui riconoscimento l’individuo è irretito da una trama simbolica che in qualche modo lo struttura nella sua identità e lo sostiene nel legame sociale. È infatti all’interno di un ordine simbolico, che gli assegna e riconosce un posto nel legame sociale, che il soggetto si costituisce e può accedere a un desiderio che lo orienta nel mondo esterno, nei termini di interesse o rifiuto verso gli oggetti.
Sull’altro versante, nella modalità di abitare il legame sociale, per così dire, «dall’esterno», ci si confronta con l’aspetto pulsionale della Legge, la quale funziona secondo lo schema binario «dovere-proibizione». Qui si inserisce una questione chiave nella costituzione del soggetto in psicoanalisi: se la legge è vista essenzialmente come un limite alla propria libertà naturale (libertà in negativo) si rientra nella logica psicoanalitica classica della contrapposizione tra principio di realtà e principio di piacere. Nella psicoanalisi degli inizi il rapporto tra questi due principi fondamentali del funzionamento psichico rappresentava il conflitto tra le pulsioni (intese più nella loro componente di derivazione istintuale) che non vogliono incontrare dei freni al proprio soddisfacimento e la realtà esterna che pone sempre dei limiti oggettivi, sia materiali (fisici) che simbolici (sociali), alla libertà. Le nevrosi pertanto sarebbero secondo questa contrapposizione il risultato del conflitto tra le due tendenze psichiche del principio di realtà e il principio di piacere, e saranno tanto più gravi quanto è maggiore il grado di frustrazione più o meno elevato che il soggetto esperisce. In questo modello di riferimento il Super-Io ha la stessa funzione di quello che si è descritto dinanzi nel caso degli psicoanalisti postfreudiani: rappresentante interiore delle istanze morali e delle richieste sociali, censore delle tendenze libidiche provenienti dalla dimensione più animalesca dell’uomo.
La rivisitazione lacaniana di tale contrapposizione apre una modalità inedita di ripensare la clinica (con le sue implicazioni inesorabilmente politiche) secondo questi due principi fondamentali del funzionamento psichico e di riformulare la sofferenza in termini di mancanza di sincronicità dell’incontro tra soggetto e istituzioni.
L’esperienza clinica mostra infatti un rapporto di continuità tra i due principi psichici suddetti, per esempio in quei casi in cui il paziente trova sempre propositi irrealistici da desiderare e impedimenti reali (spesso descritti come di natura casuale ma necessaria) al raggiungimento dello scopo prefissato. A leggere Lacan:

«il principio di realtà è costituito solo da quel che è imposto, per il suo soddisfacimento, al principio di piacere, ne è solo il prolungamento e, inversamente, implica nella sua dinamica e nella sua ricerca di fondo la tensione fondamentale del principio di piacere. Resta però il fatto che tra i due, ed è l’essenziale dell’apporto della teoria freudiana, c’è una frattura, che non ci sarebbe motivo di distinguere se l’uno fosse semplicemente la continuazione dell’altro. Il principio di piacere, in effetti, tende a realizzarsi in formazioni profondamente irrealistiche, mentre il principio di realtà implica l’esistenza di un’organizzazione o di una strutturazione diversa e autonoma, che comporta che ciò che essa coglie può appunto essere fondamentalmente diverso da ciò che è desiderato».

Il porre in stretta connessione principio di piacere e di realtà (definiti in termini di prolungamento) risulterà essere rivoluzionario in psicoanalisi, anche considerando poi gli sviluppi di questa concezione dualistica in ambito psicologico (soprattutto in quella psicologia del senso comune). La riformulazione di questi due principi da parte di Lacan opera, sempre a partire dall’esperienza clinica, in direzione di una «depsicologizzazione» della psicoanalisi. In effetti, capita spesso di ascoltare il paziente lamentarsi dell’impossibilità per ragioni reali (spesso di natura apparentemente casuale) di attualizzare un proposito e dall’altro lato l’aspettativa sempre irrealizzabile, e dunque frustrata, di portare a termine dei progetti. In questa doppia impossibilità di accedere alla realizzazione di un desiderio, principio di piacere e principio di realtà di fatto svolgono la medesima funzione: entrambi alienano il soggetto dalla soddisfazione (sempre mortificata nella dimensione sociale) del proprio desiderio. In entrambi i casi l’aspettativa risulta essere posta in astratto e non in dialettica con il legame sociale, dall’altro i limiti che la realtà impone ai propri desideri sono incontrati nella misura in cui essi sono irrealizzabili. In questo senso vi è una coincidenza tra desiderio irrealizzabile e limiti reali: si desidera qualcosa proprio per non ottenerlo.
Lasciando da parte le questioni puramente psicoanalitiche e ritornando alle loro ricadute politiche, si può articolare la contrapposizione tra principio di piacere e principio di realtà con la questione del riconoscimento simbolico per il medio istituzionale, in quanto l’individuo non articola il proprio desiderio entro il discorso sociale, nella dialettica del riconoscimento e dunque la tensione pulsionale non entra in relazione al principio di realtà in maniera armonica (cosa che di fatto non è mai possibile essendo il disagio nella civiltà costitutivo alla stessa) ma con uno scarto importante:

«nella relazione di riconoscimento il soggetto incontra un elemento (a sua volta soggettivo) della realtà attraverso il quale egli si vede legittimato, o addirittura incoraggiato, a realizzare le intenzioni maturate riflessivamente; infatti, solo mediante questa realizzazione può a sua volta venire soddisfatto quell’elemento oggettivo, poiché anch’esso, come il soggetto, persegue obiettivi il cui conseguimento implica che si attuino le intenzioni della controparte».

Il rapporto dialettico tra principio di piacere e principio di realtà, come è riportato da Lacan, rappresenta in maniera molto precisa e profonda in cosa consiste psichicamente l’esclusione del soggetto dalla dimensione simbolica del legame. Una volta privati del rapporto di riconoscimento reciproco nessuno può realizzare le proprie intenzioni, i propri desideri, i propri progetti maturati riflessivamente, in quanto questi sono tutti possibili nella presupposizione che vi sia una reciprocità sociale (che sostanzia la realtà in cui si vive), che ci sia insomma un Altro che nel suo posto svolga una funzione tale da permetterci di realizzare le nostre intenzioni.
È una questione che si vede in maniera molto precisa nella figura del depresso così come si manifesta, con aspetti endemici, nelle società occidentali contemporanee. Il soggetto depresso, caratterizzato dall’insufficiente capacità di realizzarsi e di esprimere il proprio Sé, tende a sostituire quello nevrotico in conflitto con se stesso. La figura del soggetto depresso come individuo-insufficiente ricalca la questione dinanzi esposta sul soggetto che non riesce a soddisfare le spinte pulsionali rispondenti al principio di piacere nell’incontro con un principio di realtà. Egli è un soggetto che tende a idealizzare degli obiettivi che sono, proprio in quanto idealizzati, irrealizzabili. Il rapporto di impossibilità che incontra il depresso nel non poter realizzare le proprie intenzioni al livello del riconoscimento sociale può essere ricondotto a quell’intreccio tra principio di piacere e principio di realtà che di fatto ingabbiano il desiderio individuale. In altre parole, avere un posto nel mondo sociale significa avere il diritto di accedere alla realizzazione del proprio desiderio («intenzioni maturate riflessivamente»), cioè che esso venga riconosciuto e quindi inserito in una dimensione di reciprocità. A partire dalla figura del depresso come categoria socio-politica e della sua diffusione nelle nostre società si potrebbe anche spiegare (psicoanaliticamente) certe questioni propriamente politiche, quali l’astensionismo o la fortuna di certi movimenti politici la cui organizzazione assomiglia sempre più a quella della massa primaria descritta da Freud:

«nella misura in cui l’ideale della massa, il leader primario, la cui ascesa è simultanea alla formazione di una massa primaria, consente di abrogare un ideale dell’Io poco sviluppato e insidioso, figure melanconiche, depresse, come quelle che affollano le nostre città, resteranno in attesa o andranno persino a caccia come altrettanti sonnambuli di un capo che le faccia arretrare, regredire vertiginosamente alla condizione umana più arcaica».

In conclusione si può rilevare come sia l’atto criminale che l’atteggiamento depresso siano cifra di un certo effetto del decadimento della funzione sociale del riconoscimento che fondano il valore simbolico dell’istituzione. Prima di essere entità psichica affetta da psicopatologia o deviante, il soggetto è il risultato di un processo di costruzione che parte innanzitutto dall’intervento esterno del mondo sociale, dell’Altro simbolico che dà consistenza alla sua domanda. È in questo senso che bisogna intendere l’inconscio in psicoanalisi, cioè «come ciò che è dell’interno del soggetto, ma che si realizza solo all’esterno, vale a dire in quel luogo dell’Altro dove, soltanto, può assumere il proprio statuto».

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ISSN 2421-4302

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