L’aborto di Bruno Romano

Abstract: a philosophical reflection on the existential meaning of the problem of abortion requires to ask ourselves about the relation between abortion and freedom. In other words, it requires us to think about what vision of truth and freedom makes abortion culturally and socially feasible, legalizing it even if within certain limits. In the cultural context inaugurated by the provocation of nature by modern technology – as the interpretation given by Heidegger suggests – the meaning of abortion is configured as the availability of the existence of the other according to the calculating thought based on the efficiency of computability. The abortionist position is oriented towards an absolutization that finds in the modern tools of mass communication, and in particular in advertising, a powerful factor of operational effectiveness, which becomes a criterion for the validity of choices. This position is the expression of a freedom that, in Sartre’s thought, is indifferent to the truth, and in general to any connection with a possible foundation of individual decisions.

Keywords: Heidegger – Sartre – freedom – truth – calculating thought

Una riflessione sul significato del problema dell’aborto richiede, al livello filosofico, di interrogarsi sul nesso aborto-libertà, richiede cioè di pensare quale visione della verità e della libertà rende proponibile l’aborto, sia pure allo stesso livello di problema.

Per assumere qui un atteggiamento di libertà responsabile verso questo problema è necessario fermarsi su quei significati della verità e della libertà che costituiscono l’orizzonte culturale di quanti hanno detto sì all’aborto.

  1. Quale visione della verità prepara, esige e più giustifica l’aborto come contenuto positivamente normativizzabile? Per rispondere a questo è necessario fermarsi a considerare il modello di verità che alimenta gran parte del mondo ove noi esistiamo. Questo mondo è sostenuto dai fenomeni della tecnica e della scienza. Allora è necessario chiedersi quale visione della verità ha portato a costruire un mondo che si alimenta all’assolutizzazione dei piani della tecnica e della scienza. È necessario chiedersi che cosa è il pensiero che, secondo le analisi di Heidegger, si può chiamare calcolante e che è il fondamento della tecnica e della scienza moderna.

Rispetto alla tecnica e alla scienza greca o medievale la tecnica e la scienza moderna si differenziano e sono tali per la presenza di tre elementi che nel loro significato attuale erano assenti nelle modalità attraverso cui l’uomo si riferiva al mondo. Tecnica e scienza moderna hanno come loro struttura i tre elementi della ricerca, del piano e del metodo.

  1. La ricerca è la posizione di un settore delimitato ove si va investigando. E cioè quell’atteggiamento attraverso cui l’uomo si riferisce ad un aspetto assolutamente parziale e definito del suo mondo per isolarlo dall’armonia del tutto. La ricerca è già l’identificazione della verità con la verità della parte, slegata dalla verità del tutto, presuppone ed esplicita che la verità è da ricercare sul piano del particolare e non dell’universale.
  2. Il piano deve realizzare in quel certo limitato settore di ricerca la garanzia del riferirsi alla delimitazione del campo di ricerca individuale, assicurare la fedeltà rigorosa alla verità del particolare.
  3. Il metodo si concretizza nella tensione a garantire il realizzarsi della ricerca e l’efficienza del piano attraverso una precisa legge: la necessità che sia fissata la variabilità della vita del mondo e dell’uomo ridotta ad oggetti di ricerca. La riduzione della multiforme espressione della verità nella necessità unidimensionale della ricerca e del piano: questa è la prospettiva attraverso la quale ormai appare ogni evento. Questa è la legge del pensiero calcolante, il metodo del suo procedere.

Si può capire che la tecnica e la scienza moderna, che d’ora in avanti chiameremo con Heidegger pensiero calcolante, non si muovono a partire dall’esperienza del mondo, così come si offre all’atteggiamento di meraviglia dell’uomo. L’esperienza non è l’origine della ricerca, anzi d’ora in poi si chiamerà esperienza solo ciò che è reso possibile dal trasformarsi del rapporto di conoscenza della natura in un rapporto di provocazione della natura.

Perché provocazione? Perché tutto il pensiero calcolante – muovendosi non a partire dall’ascolto della verità che appare nel mondo dato all’uomo – è retto da un atteggiarsi verso il mondo che ha come suo carattere costitutivo quello di essere la posizione di un’ipotesi. L’uomo non osserva il mondo per scoprire la verità ma tende ad imporre adesso l’ipotesi di una sua volontà soggettiva. Nella sua direzione del pensiero calcolante l’uomo non si avvia ad incontrare il mondo, sia quello naturale che quello umano, ma tende ad imporre ad esso il contenuto della propria ipotesi. L’unica modalità di pensiero che alimenta questo atteggiamento diviene quella della fisica matematica, ove matematica, secondo l’origine greca del termine, vuol dire che l’uomo già conosce i termini della propria attività conoscitiva, ancor prima di entrarvi in rapporto.

Il pensiero calcolante, che è la verità della scienza e della tecnica moderna, richiede quindi un preciso modo di volgersi dell’uomo verso le cose e verso gli altri uomini. Richiede cioè che tutto quanto viene incontrato sia veduto attraverso la dimensione unica di quell’atteggiamento che si costruisce con gli elementi della ricerca, del piano e del metodo. Il risultato finale è che il reale e l’uomo sono incontrati solo come oggetti utilizzabili. Il rapporto verso di essi opera solo come attività che punta a garantire la disponibilità incondizionata di ciò che è stato ridotto ad oggetto utilizzabile. In un tale quadro io posso riferirmi all’altro solo attraverso la prospettiva di un calcolo anticipatore ove l’uomo, nella incondizionata certezza della sua ipotesi, diventa la sola scena ove ha senso il mondo degli altri, il solo tribunale ove avviene un giudizio che è retto nella misura in cui serve alla funzionalità di un tale pensiero, ossia nella misura in cui garantisce la realizzazione del pensiero calcolante.

Gli oggetti, le cose del mondo ed il mondo in generale diventano degli utilizzabili, l’uomo diviene semplicemente materiale umano, qualitativamente indifferente da essi. L’uomo ridotto a materiale umano, ad oggetto utilizzabile – in un pensiero che si orienta ad incontrarlo solo attraverso la funzionalità del calcolo – è l’uomo reso disponibile per ogni calcolo.

È l’uomo che ormai vede dipendere la sua verità e la sua stessa esistenza dal progetto di calcolo degli altri uomini. Questo calcolo può inizialmente interessare solo alcune manifestazioni non essenziali della vita dell’uomo, può nelle fasi successive toccare i momenti della educazione, dell’indottrinamento, ma quando si svolge con coerenza, scoprendo la radicalità del principio che lo sostiene, questo calcolo vorrà disporre anche della stessa vita dell’uomo.

In questo contesto il significato dell’aborto è la disponibilità dell’esistenza dell’altro secondo il pensiero calcolante fondato solo sull’efficienza della calcolabilità.

Ci si è mossi a chiarire il significato della libertà che sceglie l’aborto partendo dalla convinzione che era necessario chiarire, anche se solo per tratti, l’orizzonte della visione della verità ove una tale libertà è potuta crescere e diffondersi. Si può tenere quindi fermo per ora che la qualificazione di una tale verità è quella della verità come precalcolabilità prodotta dal soggettivismo dell’uomo. È cioè la riduzione della verità alla verità-fatto, che niente più ha a che fare con la verità-spirito.

La verità-fatto è la verità precalcolabile, perché quantificabile e organizzabile, ma in essa non è più traccia della condizione esistenziale della libertà, della presenza cioè dell’interiorità non pianificabile dell’io.

Nella verità-fatto l’unica traccia residua della liberà è l’angoscia al livello individuale, la violenza a livello relazionale. Al livello individuale l’angoscia, perché la tensione infinita della libertà-spirito è chiusa nel determinismo del fatto e ne è impedita l’espansione verso la pienezza dello Spirito assoluto, che è Dio. Al livello relazionale la violenza, perché il muoversi all’interno del pensiero calcolante esige la riduzione dell’altro ad oggetto utilizzabile ed una tale riduzione si realizza come esercitazione della violenza sull’altro.

  1. Questo brevi cenni sulla visione della verità che costituisce il nostro mondo come mondo ove il pensiero calcolabile è il valore assoluto, preparano già la esplicitazione del significato della libertà che coerentemente vi si fonda.

Il luogo per vedere nella sia radicale coerenza la proposta di libertà che segue da una tale visione della verità è l’interpretazione di certe posizioni dell’esistenzialismo marxiano, che ha in Sartre l’autore di maggiore rilievo. Per Sartre la libertà si costituisce a partire dalla negazione di una essenza o natura costitutiva dell’uomo. L’esistente è libero solo nella misura in cui si rivolge a sé ed all’altro negando la natura come senso e limite della libertà. Ciò vale sia per la natura propria ad una visione cosmica anonima, sia per la natura creata dal Dio personale.

L’uomo non avendo nessuna natura si muove dal suo nulla ed è libero nella misura in cui il suo nulla non riceve alcun limite. Dice infatti Sartre: «o l’uomo è interamente determinato (…) o l’uomo è interamente libero». La libertà viene così a configurarsi come libertà autentica solo se è libertà assoluta. All’interno di una libertà assoluta l’incontro con l’altro è inizialmente privo di senso e poi dà corpo a questo non senso facendosi violenza. È privo di senso perché, come già diceva S. Tommaso, l’incontro tra due assoluti non è intellegibile, perché non è intellegibile la realtà di due Dei. Diviene violenza perché l’avere rispetto della presenza dell’altro come soggetto, significherebbe riconoscere il limite all’assolutezza delle mie possibilità, significherebbe cioè avviarsi ad avere consapevolezza che il proprio mondo non è il mondo del mio io assoluto ma è un mondo che mi è dato e dove io esisto insieme ad altri. Per rimanere invece fedele alla libertà come libertà assoluta l’altro, dice Sartre, mi appare come il peccato originale, la mia caduta originale, colui che con la sua presenza pone problemi e limiti alla mia assolutezza. Se allora voglio mantenere l’immagine della mia libertà assoluta, del mio non avere natura, che per S. Tommaso significava avere limite, devo negare l’altro come soggetto, perché il riconoscimento dell’altrui soggettività sarebbe la fine dell’assolutezza della mia libertà. Se voglio quindi liberarmi dal peccato, inteso in questo senso, devo liberarmi dall’altro. La libertà si fa quindi un preciso modo di prassi liberatoria, si fa liberazione dall’altro. L’incontro con l’altro non è più l’evento del reciproco crescere nella perfezione, ma è un rapporto di violenza.

Dice infatti Sartre che «il conflitto è il senso originale dell’essere per l’altro», ed ancora che «qualsiasi cosa io faccia per la libertà dell’altro, (…) i miei sforzi si riducono a trattare l’altro come strumento». Tutto ciò è coerente con il pensiero calcolante, che alimenta la tecnica e la scienza, riducendo il mondo a materiale calcolabile, ed esplicita il nesso profondo fra un tale tipo di pensiero e questa visione della libertà, ove l’altro è ridotto appunto a strumento. La relazione con l’altro è tale da essere solo incontro di violenza, dove ognuno orienta la propria libertà ad inglobare in sé l’altro, a ridurre l’altro ad un materiale per le proprie possibilità.

Questa riduzione diviene vera nella sua esigenza totale se coglie l’altro non solo nel suo orizzonte culturale, nell’assetto politico, ma se lo coglie alla radice stessa dell’essere l’altro come soggetto. Ciò vuol dire che io tratterò veramente l’altro come strumento quando disporrò della sua vita. E la proposta dell’aborto che cosa altro è se non la proposta di disporre della vita dell’altro? È uno dei modi per realizzare fino in fondo una relazione con l’altro come relazione di violenza, avendo presente che la relazione di violenza è l’unica risposta coerente con la riduzione della verità-spirito alla verità-fatto, che il pensiero calcolante ha portato alle sue conseguenze estreme.

La libertà, dice Sartre, non riceve «i propri fini (…) né dall’esterno, né da una pretesa “natura” interiore», le scelte della libertà si compiono cioè in modo gratuito, senza attenzione alcuna al fondamento della scelta. La libertà è dunque divenuta la gratuità, cioè la non fondazione del suo divenire. In modo più intenso si può dire che la scelta ora è detta libera ogni qualvolta è negazione di qualsiasi rinvio al fondamento.

La libertà divenuta gratuità è espressa nel linguaggio della banalizzazione del pensiero filosofico con il termine di liberazione. In questo contesto ha infatti senso dire che l’aborto è la liberazione della donna verso una maternità libera. Ciò, per tutto quello che si è detto, ha un solo significato, che l’aborto è l’affermazione della libertà assoluta, che per l’altro è l’esercizio di violenza e per me garanzia del mio procedere gratuito.

Dire che la libertà assoluta è gratuità significa che la libertà ha come sua unica dimensione temporale quella del momento, dell’attimo in cui si esiste il singolo gesto, non fondato, di libertà. La libertà è gratuità infatti se non è legato al passato come possibilità di avvertire la colpa ed al futuro come possibilità di avvertire la responsabilità. La libertà, fattasi gratuità, si riduce alla fruizione del momento, ha come suo unico principio l’etica del godimento, del piacere, della emozionalità. La libertà così concepita non deve fare i conti con il senso profondo della libertà, che è il durare tra la colpa del proprio passato mai perfetto e la responsabilità del proprio futuro. La libertà non è più l’assumersi la responsabilità per la durata del proprio progetto. La libertà-gratuità è la rottura della temporalità omogenea alla dignità del progetto di esistere. È lo svuotamento dei concetti di colpa e responsabilità che hanno il loro unico senso nel durare del progetto di esistenza. La libertà-gratuità se è la negazione della durata del progetto di libertà è la libertà ridotta nella successione slegata dei momenti del godere, dell’usare, dell’utilizzare l’altro. Qual è il senso esistenziale della decisione di abortire o di condividere la liberalizzazione dell’aborto? Se non è quello di decidere di negare durata al progetto responsabile di procreare, per poter vivere disponendo della vita dell’altro che nasce, l’assolutezza della propria libertà nel momento.

Ma la libertà che decide di non esistere nella durata del proprio progettare per lasciarsi vivere momento per momento nella casualità e nella occasionalità non ha più niente della libertà se non la vuotezza del gesto.

La libertà che si orienta per la liberalizzazione dell’aborto ha quindi il suo significato nell’essere la libertà assoluta, che opera come violenza e che ha il suo unico senso nel vivere la puntualità del momento, nel farsi cioè godimento, uso dell’altro, incoerenza coll’esistere solo nel momento. Ma una tale libertà, per poter vivere solo nel momento, deve negare il suo essere libertà che appartiene ad un soggetto, perché una tale libertà si conserverà come tale nella misura in cui si lascerà vivere momento per momento per negarsi sempre nel durare che significa appartenenza ad un soggetto. La libertà allora, scelta la via di darsi realtà nel solo momento per farsi violenza verso, l’altro, uso dell’altro, si coglie come negazione di se stessa.

Si chiarisce così che la libertà si salva se è la libertà esistita con gli altri nella trascendenza di un dove e che ne orienta il divenire, mentre si perde se si fa libertà assoluta, che è negazione simultanea dell’altro e della trascendenza della legge che li accomuna nel reciproco rispetto.

  1. III.Chiarito così il significato della proposta di liberalizzazione dell’aborto, riconducendo il fenomeno aborto in quelle qualificazioni della verità e della libertà che lo hanno reso possibile nella cultura contemporanea, c’è ora da chiedersi: se la proposta di liberalizzazione dell’aborto ha la sua origine in certi atteggiamenti del pensiero filosofico contemporaneo, in che modo possa essere divenuta qualche cosa che non appartiene più ad un ristretto circolo di intellettuali.

Per rispondere a ciò bisogna un po’ ritornare a quanto detto all’inizio sulla riduzione della verità-spirito alla verità-fatto, operata dall’avvento del pensiero calcolante che sostiene il nostro tempo, come epoca della tecnica e della scienza. Ridotta la verità a verità-fatto la verità dell’io non è certamente ormai la sua interiorità spirituale. Lo spirito non è il semplice fatto. La verità-fatto esige quindi che la verità dell’io sia costruita anch’essa come la verità-fatto. Il primo passo verso una tale costruzione è lo svuotamento della realtà spirituale dell’io che il pensiero classico ha nominato la realtà dell’interiorità dell’uomo. Compiuto questo passo, la stessa verità dell’io diventa l’insieme della verità dei fatti. La verità dell’io diviene, una volta negata l’interiorità, l’insieme dello spettacolo del mondo, dei fenomeni che in modo casuale si combinano nella realtà mondana.

La verità dell’io diventa la sua esteriorità. La riduzione della verità-spirito alla verità-fatto ha chiesto prima quindi l’espulsione della sfera dell’interiorità dell’io ed ha poi costruito un io coerente con tale espulsione: l’io che consapevolezza di avere come unica verità l’esteriorità che il mondo casualmente gli offre come contenuto della sua storia. Affermata quindi come verità dell’io l’esteriorità del mondo, è ormai preparato il terreno per rendere l’io manipolabile da chi ha la lucida consapevolezza di tutto questo processo.

Infatti se la verità dell’io non è la sua interiorità irrepetibile, se non è la sua anima individuale ed eterna nel suo destino, allora la verità dell’io è l’insieme del mondo, è il tutto degli avvenimenti del mondo. Per chi ha compreso questo meccanismo ormai è facile manipolare il singolo uomo e l’insieme della comunità umana. In che modo? È sufficiente invero fare intendere che l’insieme degli avvenimenti del mondo, che il tutto dei fatti mondani si orienta verso una certa direzione per poi pretendere da singolo di sentirsi in colpa se anch’egli non si trova nell’interno di questo falso tutto che sono i fatti del mondo.

Si può così capire che è possibile ad una élite di pochi e mediocri intellettuali far divenire patrimonio comune le proposte meno intellegibili, come questa stessa dell’aborto.

Una volta preparato il terreno, una volta cioè diffusa la convinzione che la mia verità non è la verità della mia interiorità avente un destino eterno, ma è la verità dei fatti del mondo che si esauriscono nel fluire del tempo, diviene chiaramente possibile fare apparire come verità dell’io quella che pochi falsamente propongono come la verità del mondo. A questo punto si tratta solo di avere consapevolezza di questi nessi teoretici relativi al rapporto tra l’uomo, la verità, la libertà, per usare poi gli strumenti della tecnica di comunicazione di massa, che consentono al progetto di pochi di realizzarsi nell’insieme di una intera società.

Su questo stesso terreno ha acquistato senso la pubblicità, che non a caso è un evento peculiare del nostro tempo. La pubblicità non avrebbe avuto nessuna efficacia nel mondo greco-medievale, nello stesso mondo rinascimentale, non perché mancavano gli strumenti tecnici della comunicazione di massa, ma perché non avrebbe trovato un terreno adatto: lo svuotamento dell’interiorità dell’io e la riduzione della verità dell’uomo nella esteriorità dello spettacolo del mondo. Con questo stesso metodo che sorregge la pubblicità, la proposta di pochi mediocri intellettuali di liberalizzare l’aborto è potuta divenire una realtà che ormai interessa la nostra intera società.

Per prendere coscienza di questo fenomeno è necessario considerare ancora brevemente il modo di operare della pubblicità. Si pensi ad esempio ad un gruppo che opera nel campo dei detersivi. Un tale gruppo, che è un insieme di poche persone, si indirizza alla totalità dei possibili acquirenti avendo consapevolezza di potere utilizzare la riduzione della verità del loro io autentico nella esteriorità del mondo.

In questa prospettiva un tale gruppo utilizza alcuni dati che sono indifferenziatamente riferibili ad ogni possibile acquirente e punta a far capire a ciascuno che si è prodotto un vasto processo di unificazione di consensi sul prodotto che interessa la loro attività. Si dirà: tutti usano il tale detersivo. Il mancato acquirente, una volta che ormai non ha la sua verità nell’interiorità del suo io, ma nella anonimia dei tutti del mondo, si sentirà accusato e si avvertirà in colpa per essere rimasto escluso ed emarginato dal partecipare a quel comportamento che la pubblicità gli presenta come il comportamento di tutti.

Paradossalmente si avvertirà colpevole, si sentirà infelice perché la verità del suo io più autentico non si è ancora lasciata pienamente manipolare sino ad identificarsi con quella verità esteriore che pochi propongono come la verità a cui tutti partecipano.

In questo quadro la comunicazione interpersonale diviene non una comunicazione di verità che interessa l’interiorità delle singole persone, ma la comunicazione di una ipotesi falsa – il consenso di tutti, l’esteriorità degli eventi del mondo – che si indirizza ad un io privato nella sua più propria autenticità.

Se la proposta di liberalizzazione dell’aborto ha il suo orizzonte culturale nei legami con una certa qualificazione della verità e della libertà, prima analizzati, ha la sua efficacia operativa nell’utilizzare i meccanismi di comunicazione appena descritti.

È necessario allora prendere consapevolezza del significato profondo di questi insieme di fenomeni ed analisi e poter così riguardare quella libertà che consente di non lasciare che il rapporto con l’altro scada ad un rapporto di semplice utilizzazione e violenza: un rapporto che, attraverso la parola aborto, porta ad usare e violentare l’altro che nasce, decidendone in modo gratuito la morte.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Sartre Jean-Paul, 1943, L’être et le néant. Gallimard, Paris.

L’aborto e le sue implicazioni di Claude Bruaire

L’alternativa

Prima che il parlamento francese approvasse una legge che autorizza l’interruzione della gravidanza, la scena pubblica è stata a lungo occupata dal confronto fra posizioni avverse. Tuttavia, queste posizioni non hanno mai messo in evidenza i loro presupposti. Il dibattito era comunque animato solo dalla posta in gioco filosofica, dalle premesse implicite circa l’essenza dell’essere umano, nascoste all’interno di ciascuna opzione. Poi, il silenzio ha coperto qualcosa che era diventata una questione legislativa chiusa. E, per schivare il dibattito di fondo, per dispensare sostenitori e oppositori dal rivelare i principi che decidono la loro etica rispettiva, il legislatore ha riservato l’obiezione di coscienza al personale medico. Nessuno può sapere, alla lettera della legge, su che cosa possa poggiare una obiezione del genere, né, di conseguenza, in nome di che cosa vi si possa passare sopra legalmente.
Dalla parte del potere che propone la legge, si può certamente invocare la necessità pratica del comando. Nessun governo può permettere l’accumulo di dossiers giudiziari non trattati. E, se questi non lo fossero, probabilmente «l’opinione» lo rifiuterebbe. In larga misura, il potere politico diviene inevitabilmente quel che i cittadini diventano, poiché esso deve rispondere alla loro domanda globale. È incontestabilmente lo stato di questa domanda a fare questione. Infatti, vi si incrocia di netto il problema di verità che qui è posto: Che cosa si fa quando si arresta la vita al suo inizio? Si tratta di un problema che, di rimando, mette in discussione la natura e la funzione del politico, come vedremo in conclusione.
In ogni modo, il problema così posto dissimula il suo dato essenziale: la vita che ha inizio allo stato embrionale è una vita umana in gestazione? Questione ancora troppo imprecisa: ammesso che si discuta della vita umana, questa comporta dei gradi, il più basso e il più alto, di modo che si potrebbe affermare che la vita è «appena umana», poi lo è «un po’ di più» alla nascita, e quasi completamente qualche mese o anno più tardi? Queste precisazioni non sono sussidiarie, perché sono spesso all’ombra dei nostri disagi.
Ora, bisogna porre con chiarezza l’alternativa, bruscamente, senza tergiversare, a rischio di restituire la complessità che può trovarvisi sacrificata nell’immediato. Quando si pratica un’interruzione di gravidanza, si tratta, oppure no, di un omicidio? Un omicidio in senso non equivoco, esclusivo, dove si uccide un essere umano.

Il postulato delle tesi contrapposte

In primo luogo, osserviamo che la problematica è relativamente nuova. Per secoli, si è risposto massicciamente «sì», è un omicidio. Ma non dimentichiamo che questi secoli formano un’epoca determinata. Prima dell’era cristiana, prima che il cristianesimo si imponesse globalmente ai costumi occidentali, l’aborto era correntemente riconosciuto e praticato, come lo era la soppressione di certi bambini appena nati. Non risulta che quanto il cristianesimo ha dato da credere sia racchiuso in una fede religiosa e non possa essere argomentato razionalmente. Ma questo spunto storico aiuta a comprendere che il comune rifiuto dell’aborto ha registrato il regresso che ha interessato recentemente la fede che lo sosteneva. Tuttavia, poiché la messa in discussione è per noi recente, è logico cominciare l’esame dalla proposizione negativa: no, l’aborto non è un omicidio.
Che cosa presuppone questa asserzione? Che quanto costituisce l’umanità dell’uomo, quanto lo mette fuori dalla serie delle altre specie non deve nulla alla natura. Che la natura non potrebbe contenere le caparre dello spirito umano, che è rottura con la vita naturale. Che, di conseguenza, lo spirito umano, ovvero qualsiasi altra espressione usata per designare l’essenza umana, deve tutto a sé stesso e non potrebbe essere contenuto in potenza nel «pacchetto di carne e ossa» che è un feto. Come corollario, l’uomo non è sé stesso senza la sua manifestazione, in particolare senza il linguaggio e la libertà che attestano la sua presenza. L’umano, di conseguenza, se non ha il suo passato nella natura, deve la sua formazione alla società degli uomini già data, all’educazione, quanto meno per l’essenziale. Per l’apparizione di un essere umano non ci sarebbe quindi nulla da attendere dalle necessità della natura. In definitiva, è per questo che l’uomo non è procreatore dell’uomo, ma creatore o formatore dell’autonomia dell’uomo.
Affermare, in tal modo, che l’embrione portato in grembo dalla donna non ha nulla dell’essere umano, che egli si riduce al supporto biologico di una eventuale inoculazione sociale dello spirito, che la libertà non deve niente alla natura, dove essa sorge senza preliminari, senza essere implicata, inviluppata nel «pacchetto di carne ed ossa», equivale pertanto alla tesi generale della modernità: l’uomo, padrone e signore della natura, non ne è condizionato, e neppure plasmato. Qui riconosciamo il principio di divisione, di partizione, tra la materia e lo spirito. Da una parte l’universo materiale che ci è dato, alla mercé delle nostre scienze e delle nostre tecniche. Dall’altra, a distanza, il mondo del pensiero e della libertà. Poco importa, in tal caso, che questa divisione provochi la cancellazione dello spirito e rafforzi il materialismo.
L’essenziale è di sottolineare che la difesa dell’aborto, nella misura in cui trae delle deduzioni dalla libertà sovrana, ratifica, implicitamente ma con forza, la rottura tra l’uomo e la natura, che impegna a trattare ogni individuo in maniera duplice, secondo due registri incomunicabili: il corpo biologico e lo spirito libero.
Tuttavia, per la logica della nostra storia, si deve aggiungere che la tesi del diritto all’aborto rafforza il dualismo natura-spirito solo quando raggiunge la tesi del privilegio dell’età adulta. È importante notarlo, onde evitare, in prima battuta, la mescolanza di posizioni contraddittorie. È difatti possibile sostenere che l’uomo non è l’uomo senza la sua autonomia manifesta, che gli fa prendere posto nei rapporti sociali di libertà. È altresì possibile difendere i diritti del neonato, della prima infanzia, così come difendere l’essere malformato, privo di autonomia nel suo comportamento e nel suo pensiero. Ma non è possibile sostenere simultaneamente le due tesi. In un caso si identifica l’essere umano e l’adulto autonomo. Nell’altro, si rifiuta questa assimilazione. Ora, il privilegio dell’età adulta resta l’eredità più sicura delle filosofie dei Lumi del XVIII° secolo. Sono filosofie del «progresso» che tanta diffusione hanno registrato, e che sono state i migliori amplificatori dell’umanesimo che assistette allo slancio della nostra modernità. L’autosufficienza dell’uomo suscita una duplice apologia: quella dell’umanità illuminata, padrona del suo destino, affrancata, mediante la scienza, dalle credenze e dalle superstizioni; quella dell’uomo autonomo, padrone dei suoi giudizi, che abbandona sentimenti e sogni dell’infanzia.
Ecco quel che ci sembra essere dietro le posizioni favorevoli all’aborto, a prescindere da motivazioni particolari, dalle molteplici espressioni. Solo a titolo esemplificativo, argomentare qui dei diritti della donna, al di fuori dei casi di aborto terapeutico, equivale probabilmente a richiedere che il prezzo dell’esistenza umana sia indipendente dai sessi, così come dalle razze o dalle fortune. Ma, molto spesso, significa anche presupporre che la libertà non sia legata alla maniera particolare della vita naturale che apparentemente la porta in seno.
Prendiamo ora in esame i postulati della posizione contraria, la quale sostiene che qualunque aborto sia un omicidio. Per enunciarli c’è bisogno di fare decisamente astrazione dalle passioni che attribuiscono al conservatorismo un carattere sacro. Si tratta di passioni che non valgono più di quelle che sacralizzano qualsiasi innovazione. Due proposizioni congiunte si rivelano implicate nel rifiuto dell’aborto. La prima trova la sua espressione migliore in una formula di Hegel: «lo spirito, per l’uomo, presuppone la natura della quale esso è la verità». La seconda afferma la realtà dell’«essere in potenza»: tesi, questa, che ha trovato in Aristotele la sua difesa e la sua esposizione. Ma queste due proposizioni difendono una medesima tesi antropologica: l’essere umano non si riduce alla formazione che egli riceve dalla sua famiglia, dalla società, né alle sue manifestazioni, né alla storia dei suoi pensieri e delle sue azioni. Il suo essere peculiare è dunque racchiuso nel segreto della vita del suo corpo, dal quale egli emerge a poco a poco. Esaminiamo allora quest’ultima affermazione per essere in grado di valutare le due precedenti.
Abbiamo noi un essere personale, identico malgrado peripezie della nostra vita, irriducibile all’educazione ricevuta, alla lingua appresa, alle idee che sono le nostre, a tutti i nostri atti e a tutte le nostre prove? Un uomo è quel che egli dice, quel che egli fa, quel che egli decide e quel che egli subisce, oppure è altra cosa, altra cosa dall’essere semplicemente sé stesso? La portata i tali questioni è decisiva. Se un essere umano non è né la somma delle sue formazioni sociali né l’insieme delle sue avventure, vuol dire che egli non deve l’essenziale del suo essere a sé stesso, ai suoi atti di libertà, o agli altri. È evidente che la sua origine è inscritta nell’inizio della sua vita, poiché l’unica cosa certa è che il nostro risveglio a noi stessi e al mondo è avvenuto dall’interno del nostro corpo. Si tratta del fatto forse più sconvolgente dell’esistenza di ciascuno: nessun bilancio psicologico o sociologico permette di conoscere qualcuno. Per questo, c’è bisogno di una decodificazione molto particolare: per decifrare colui del quale facciamo esperienza, cogliendo nel corpo, nel volto, nello sguardo, un’espressione dell’essere intimo che nessun repertorio delle opere o dei pensieri, degli eventi o delle situazioni, può consegnare. Non c’è medico che lo ignori, salvo trascurare decisamente colui che egli cura, e la cui insostituibile realtà sfugge alla ricerca, alla cartella clinica, così come alla pura e semplice configurazione di una individualità biologica.
Se noi non dobbiamo il nostro proprio essere, personale, a ciò che la società fa di noi, né a ciò che noi facciamo di noi stessi, è giocoforza comprendere la formazione dello spirito umano come un divenire che assume, riprende, eleva un essere intimo radicato nell’oscurità della vita del corpo. L’educazione è indispensabile al risveglio di un bambino, ma non lo confeziona. È lenta l’odissea che lo spirito affronta per manifestarsi nel corpo dove è rinchiuso. La sua verità è quindi presupposta nella sua vita. In quanto è libero, lo spirito di ogni uomo può certo rinnegare i suoi presupposti naturali, ma esso nasce solo al termine di un cammino attraverso il quale sorge dalla natura per trasgredirla, inquadrarla, superarla.
Si parla dell’argomento principale. Tocca a ciascuno esaminarsi e valutarlo. E, se è vero, questo argomento verifica ciò che la nostra ragione ammette con la maggiore difficoltà: che un essere possa esistere prima di essere manifesto, prima di essere in atto, che possa in effetti risiedere lì dove è soltanto in potenza, in attesa, e, per così dire, in anticipo su sé stesso. Il punto è che un certo tipo di razionalità rifiuta di riconoscere ciò che non ci sia già, dato, analizzabile, misurabile, ciò che è solamente promessa per l’osservazione, ma già sussiste nella parte nascosta del segreto della sua vita. In ogni modo, non possiamo avere certezze contraddittorie: per la prima, noi siamo divenuti, avvenuti, dal fondo della nostra vita; per l’altra, la vita che comincia non racchiude il divenire dell’essere umano.
Risultano pertanto opposte due filosofie, due antropologie. Per una, la libertà sorge dal nulla, l’uomo deve tutto a sé stesso, individualmente o collettivamente. Per l’altra, noi siamo nient’altro che procreatori, mai creatori, e, se ognuno di noi perviene solo poco per volta alla propria manifestazione, l’essere intimo è tutt’intero in potenza nella vita embrionale. Nel primo caso, l’aborto non è mai un omicidio ma, tutt’al più, la possibilità cancellata di un supporto biologico dell’esistenza umana. E non si approva, allora, ciò che proibisce di sopprimere il bambino che è appena nato e consente di eliminare il corpo che nascerà. Nel secondo caso, a stretto rigore, qualunque aborto è un omicidio. Non si dà una terza via.

Minaccia e innocenza

Per legiferare, si dovrebbe avere il coraggio di precisare in tal modo le opzioni. Per meno di questo, non si restituisce ciascuno alle sue responsabilità. Ammettiamo la tesi per cui ogni aborto è un omicidio. Quali che siano le difficoltà relative alla sua fondazione filosofica, questa sembra essere la tesi più conforme alla comune esperienza intima. Ne deriva che l’interruzione volontaria della gravidanza debba, in qualunque caso, essere giudicata come un omicidio volontario?
Si deve prendere in osservazione un primo punto, che riguarda il giudizio pubblico, quindi la legge e il diritto. È stata votata una legge, ma il suo preambolo resta non deciso e ne va, a nostro parere, del significato del diritto delle genti, e dunque della missione del potere politico. Se il diritto che garantisce il potere è quello di ogni essere umano, senza riguardo alle forze, alle capacità, al ruolo sociale, se esso deve riconoscere il povero come il ricco, il bambino come il vecchio, allora deve estendersi all’innocente che nascerà. E a nessuna condizione, che non sia il diritto degli altri. È vero, tuttavia, che questa condizione può fondare la legge, purché sia definita in maniera chiara, esplicita, formale:

«Qualunque aborto è un omicidio, ma vi sono casi in cui si deve uccidere».
I casi in cui si deve uccidere sono assimilati, per forza di cose, alla «legittima difesa». E sembra certamente impossibile eliminare la possibilità di quest’ultima. È fuori dubbio che, in una situazione determinata, il venire al mondo di un essere mette in discussione la vita degli altri, e in primo luogo la famiglia interessata. Escludere questa possibilità non equivarrebbe soltanto a escludere l’aborto terapeutico. Sarebbe come tralasciare due ordini di difficoltà gravi. In prima istanza, la difficoltà, in certi casi insuperabile, che si prova nel portare in grembo un essere che verrà. Quando, alla donna interessata, sembra insopportabile il carico in cui si accumulano i problemi personali, familiari, sociali, non si capisce affatto chi, al suo posto, potrebbe giudicare. E il medico che sia rigorosamente nel diritto di non partecipare all’omicidio ha, allo stesso tempo, l’obbligo morale di riconoscere questa situazione. In seconda istanza, la difficoltà di prendere in carico un neonato. Una vita umana che si annuncia può presentarsi come un’aggressione alla vita dell’entourage? Qui non sono determinanti i problemi economici. Ma, quando la vita promessa si annuncia così fragile, così difettiva o così poco umana, che si rivela impossibile accoglierla, allora la legittima difesa acquista un senso, inconsueto ma inconfutabile. Nessuno può quindi sostituirsi a genitori consapevoli che arriverà un bambino malformato. Nessuno lo può, anche se l’esperienza medica insegna che molti genitori di esseri malformati non vorrebbero, per nessuna cosa al mondo, fare a meno del loro bambino.
Tuttavia, se non può essere rifiutata l’applicazione di un principio di legittima difesa, è a condizione di sottolineare bene ciò che la limita, e ciò che il problema politico obbligherebbe a enunciare. Si tratta dello stato d’innocenza dell’essere concepito. Se questo costituisce un’aggressione, la sua colpa è assolutamente «oggettiva», come quella che motiva la «ragion di Stato», al di fuori della responsabilità dell’accusato. E se, al limite, è inevitabile uccidere l’innocente, in guerra come nell’aborto, bisogna comunque prenderne atto lucidamente, e non darsi facilmente «buona coscienza».
Nondimeno è impossibile ravvivare la responsabilità senza prendere coscienza di una pesante motivazione a favore dell’aborto: per l’esattezza, quella che svaluta la libertà e i suoi rischi, che è figlia dell’abbondanza ed erede della nostra comune richiesta di essere «presi in carico», ossia la sicurezza.
Sicurezza, difesa dell’acquisito, richiesta di presa in carico, l’opinione è sempre più piena di queste domande di protezione. Noi tutti ne siamo occupati, e per questo di rado è sincero il loro disprezzo. Va semplicemente riconosciuto che presso il legislatore il loro peso è stato determinante. In particolare, ognuno deve rendersi conto di ciò che preferisce: un essere in più, col quale si deve condividere, oppure un essere in meno, che ridurrebbe la parte di coloro che egli raggiungerà. È un’ultima alternativa, che i più ricchi devono esprimere a sé stessi tanto quanto i più sprovvisti. E non sono questi ultimi i più inclini a scegliere contro la nuova nascita.
Alternativa ultima…ma suscettibile di essere enunciata in termini quantitativi, in cifre demografiche. E la demografia è determinante, perché non è appena tema di specialisti contabili, ma è la realtà bruciante delle nostre società, che elude le metafisiche, ponendo alle nostre città autentici problemi di vita e di morte. Chi non considera questo fenomeno, e ignora il fallimento della contraccezione, non può ambire al «progresso sociale»…
Per la precisione, la coppia che procrea non può ignorare l’incidenza della demografia sulla sua vita. Ma, a nostro avviso, tanto meno può ignorare l’essenziale. L’essenziale è il venire al mondo di un essere imparagonabile, insostituibile, che fa, da solo, tutto un mondo. Quando il concepimento è compiuto, la donna, l’uomo fanno esperienza di sé stessi come dell’occasione di quel che li supera infinitamente: un essere di spirito che, fin dalla loro carne, è promesso al suo proprio destino.

I nostri recapiti

Redazione

Via delle Rosine, 15 - 10123 Torino

Sede di studio

Via delle Rosine, 11 - 10123 TORINO

 

ISSN

ISSN 2421-4302

powered by