L’aborto e le sue implicazioni di Claude Bruaire

L’alternativa

Prima che il parlamento francese approvasse una legge che autorizza l’interruzione della gravidanza, la scena pubblica è stata a lungo occupata dal confronto fra posizioni avverse. Tuttavia, queste posizioni non hanno mai messo in evidenza i loro presupposti. Il dibattito era comunque animato solo dalla posta in gioco filosofica, dalle premesse implicite circa l’essenza dell’essere umano, nascoste all’interno di ciascuna opzione. Poi, il silenzio ha coperto qualcosa che era diventata una questione legislativa chiusa. E, per schivare il dibattito di fondo, per dispensare sostenitori e oppositori dal rivelare i principi che decidono la loro etica rispettiva, il legislatore ha riservato l’obiezione di coscienza al personale medico. Nessuno può sapere, alla lettera della legge, su che cosa possa poggiare una obiezione del genere, né, di conseguenza, in nome di che cosa vi si possa passare sopra legalmente.
Dalla parte del potere che propone la legge, si può certamente invocare la necessità pratica del comando. Nessun governo può permettere l’accumulo di dossiers giudiziari non trattati. E, se questi non lo fossero, probabilmente «l’opinione» lo rifiuterebbe. In larga misura, il potere politico diviene inevitabilmente quel che i cittadini diventano, poiché esso deve rispondere alla loro domanda globale. È incontestabilmente lo stato di questa domanda a fare questione. Infatti, vi si incrocia di netto il problema di verità che qui è posto: Che cosa si fa quando si arresta la vita al suo inizio? Si tratta di un problema che, di rimando, mette in discussione la natura e la funzione del politico, come vedremo in conclusione.
In ogni modo, il problema così posto dissimula il suo dato essenziale: la vita che ha inizio allo stato embrionale è una vita umana in gestazione? Questione ancora troppo imprecisa: ammesso che si discuta della vita umana, questa comporta dei gradi, il più basso e il più alto, di modo che si potrebbe affermare che la vita è «appena umana», poi lo è «un po’ di più» alla nascita, e quasi completamente qualche mese o anno più tardi? Queste precisazioni non sono sussidiarie, perché sono spesso all’ombra dei nostri disagi.
Ora, bisogna porre con chiarezza l’alternativa, bruscamente, senza tergiversare, a rischio di restituire la complessità che può trovarvisi sacrificata nell’immediato. Quando si pratica un’interruzione di gravidanza, si tratta, oppure no, di un omicidio? Un omicidio in senso non equivoco, esclusivo, dove si uccide un essere umano.

Il postulato delle tesi contrapposte

In primo luogo, osserviamo che la problematica è relativamente nuova. Per secoli, si è risposto massicciamente «sì», è un omicidio. Ma non dimentichiamo che questi secoli formano un’epoca determinata. Prima dell’era cristiana, prima che il cristianesimo si imponesse globalmente ai costumi occidentali, l’aborto era correntemente riconosciuto e praticato, come lo era la soppressione di certi bambini appena nati. Non risulta che quanto il cristianesimo ha dato da credere sia racchiuso in una fede religiosa e non possa essere argomentato razionalmente. Ma questo spunto storico aiuta a comprendere che il comune rifiuto dell’aborto ha registrato il regresso che ha interessato recentemente la fede che lo sosteneva. Tuttavia, poiché la messa in discussione è per noi recente, è logico cominciare l’esame dalla proposizione negativa: no, l’aborto non è un omicidio.
Che cosa presuppone questa asserzione? Che quanto costituisce l’umanità dell’uomo, quanto lo mette fuori dalla serie delle altre specie non deve nulla alla natura. Che la natura non potrebbe contenere le caparre dello spirito umano, che è rottura con la vita naturale. Che, di conseguenza, lo spirito umano, ovvero qualsiasi altra espressione usata per designare l’essenza umana, deve tutto a sé stesso e non potrebbe essere contenuto in potenza nel «pacchetto di carne e ossa» che è un feto. Come corollario, l’uomo non è sé stesso senza la sua manifestazione, in particolare senza il linguaggio e la libertà che attestano la sua presenza. L’umano, di conseguenza, se non ha il suo passato nella natura, deve la sua formazione alla società degli uomini già data, all’educazione, quanto meno per l’essenziale. Per l’apparizione di un essere umano non ci sarebbe quindi nulla da attendere dalle necessità della natura. In definitiva, è per questo che l’uomo non è procreatore dell’uomo, ma creatore o formatore dell’autonomia dell’uomo.
Affermare, in tal modo, che l’embrione portato in grembo dalla donna non ha nulla dell’essere umano, che egli si riduce al supporto biologico di una eventuale inoculazione sociale dello spirito, che la libertà non deve niente alla natura, dove essa sorge senza preliminari, senza essere implicata, inviluppata nel «pacchetto di carne ed ossa», equivale pertanto alla tesi generale della modernità: l’uomo, padrone e signore della natura, non ne è condizionato, e neppure plasmato. Qui riconosciamo il principio di divisione, di partizione, tra la materia e lo spirito. Da una parte l’universo materiale che ci è dato, alla mercé delle nostre scienze e delle nostre tecniche. Dall’altra, a distanza, il mondo del pensiero e della libertà. Poco importa, in tal caso, che questa divisione provochi la cancellazione dello spirito e rafforzi il materialismo.
L’essenziale è di sottolineare che la difesa dell’aborto, nella misura in cui trae delle deduzioni dalla libertà sovrana, ratifica, implicitamente ma con forza, la rottura tra l’uomo e la natura, che impegna a trattare ogni individuo in maniera duplice, secondo due registri incomunicabili: il corpo biologico e lo spirito libero.
Tuttavia, per la logica della nostra storia, si deve aggiungere che la tesi del diritto all’aborto rafforza il dualismo natura-spirito solo quando raggiunge la tesi del privilegio dell’età adulta. È importante notarlo, onde evitare, in prima battuta, la mescolanza di posizioni contraddittorie. È difatti possibile sostenere che l’uomo non è l’uomo senza la sua autonomia manifesta, che gli fa prendere posto nei rapporti sociali di libertà. È altresì possibile difendere i diritti del neonato, della prima infanzia, così come difendere l’essere malformato, privo di autonomia nel suo comportamento e nel suo pensiero. Ma non è possibile sostenere simultaneamente le due tesi. In un caso si identifica l’essere umano e l’adulto autonomo. Nell’altro, si rifiuta questa assimilazione. Ora, il privilegio dell’età adulta resta l’eredità più sicura delle filosofie dei Lumi del XVIII° secolo. Sono filosofie del «progresso» che tanta diffusione hanno registrato, e che sono state i migliori amplificatori dell’umanesimo che assistette allo slancio della nostra modernità. L’autosufficienza dell’uomo suscita una duplice apologia: quella dell’umanità illuminata, padrona del suo destino, affrancata, mediante la scienza, dalle credenze e dalle superstizioni; quella dell’uomo autonomo, padrone dei suoi giudizi, che abbandona sentimenti e sogni dell’infanzia.
Ecco quel che ci sembra essere dietro le posizioni favorevoli all’aborto, a prescindere da motivazioni particolari, dalle molteplici espressioni. Solo a titolo esemplificativo, argomentare qui dei diritti della donna, al di fuori dei casi di aborto terapeutico, equivale probabilmente a richiedere che il prezzo dell’esistenza umana sia indipendente dai sessi, così come dalle razze o dalle fortune. Ma, molto spesso, significa anche presupporre che la libertà non sia legata alla maniera particolare della vita naturale che apparentemente la porta in seno.
Prendiamo ora in esame i postulati della posizione contraria, la quale sostiene che qualunque aborto sia un omicidio. Per enunciarli c’è bisogno di fare decisamente astrazione dalle passioni che attribuiscono al conservatorismo un carattere sacro. Si tratta di passioni che non valgono più di quelle che sacralizzano qualsiasi innovazione. Due proposizioni congiunte si rivelano implicate nel rifiuto dell’aborto. La prima trova la sua espressione migliore in una formula di Hegel: «lo spirito, per l’uomo, presuppone la natura della quale esso è la verità». La seconda afferma la realtà dell’«essere in potenza»: tesi, questa, che ha trovato in Aristotele la sua difesa e la sua esposizione. Ma queste due proposizioni difendono una medesima tesi antropologica: l’essere umano non si riduce alla formazione che egli riceve dalla sua famiglia, dalla società, né alle sue manifestazioni, né alla storia dei suoi pensieri e delle sue azioni. Il suo essere peculiare è dunque racchiuso nel segreto della vita del suo corpo, dal quale egli emerge a poco a poco. Esaminiamo allora quest’ultima affermazione per essere in grado di valutare le due precedenti.
Abbiamo noi un essere personale, identico malgrado peripezie della nostra vita, irriducibile all’educazione ricevuta, alla lingua appresa, alle idee che sono le nostre, a tutti i nostri atti e a tutte le nostre prove? Un uomo è quel che egli dice, quel che egli fa, quel che egli decide e quel che egli subisce, oppure è altra cosa, altra cosa dall’essere semplicemente sé stesso? La portata i tali questioni è decisiva. Se un essere umano non è né la somma delle sue formazioni sociali né l’insieme delle sue avventure, vuol dire che egli non deve l’essenziale del suo essere a sé stesso, ai suoi atti di libertà, o agli altri. È evidente che la sua origine è inscritta nell’inizio della sua vita, poiché l’unica cosa certa è che il nostro risveglio a noi stessi e al mondo è avvenuto dall’interno del nostro corpo. Si tratta del fatto forse più sconvolgente dell’esistenza di ciascuno: nessun bilancio psicologico o sociologico permette di conoscere qualcuno. Per questo, c’è bisogno di una decodificazione molto particolare: per decifrare colui del quale facciamo esperienza, cogliendo nel corpo, nel volto, nello sguardo, un’espressione dell’essere intimo che nessun repertorio delle opere o dei pensieri, degli eventi o delle situazioni, può consegnare. Non c’è medico che lo ignori, salvo trascurare decisamente colui che egli cura, e la cui insostituibile realtà sfugge alla ricerca, alla cartella clinica, così come alla pura e semplice configurazione di una individualità biologica.
Se noi non dobbiamo il nostro proprio essere, personale, a ciò che la società fa di noi, né a ciò che noi facciamo di noi stessi, è giocoforza comprendere la formazione dello spirito umano come un divenire che assume, riprende, eleva un essere intimo radicato nell’oscurità della vita del corpo. L’educazione è indispensabile al risveglio di un bambino, ma non lo confeziona. È lenta l’odissea che lo spirito affronta per manifestarsi nel corpo dove è rinchiuso. La sua verità è quindi presupposta nella sua vita. In quanto è libero, lo spirito di ogni uomo può certo rinnegare i suoi presupposti naturali, ma esso nasce solo al termine di un cammino attraverso il quale sorge dalla natura per trasgredirla, inquadrarla, superarla.
Si parla dell’argomento principale. Tocca a ciascuno esaminarsi e valutarlo. E, se è vero, questo argomento verifica ciò che la nostra ragione ammette con la maggiore difficoltà: che un essere possa esistere prima di essere manifesto, prima di essere in atto, che possa in effetti risiedere lì dove è soltanto in potenza, in attesa, e, per così dire, in anticipo su sé stesso. Il punto è che un certo tipo di razionalità rifiuta di riconoscere ciò che non ci sia già, dato, analizzabile, misurabile, ciò che è solamente promessa per l’osservazione, ma già sussiste nella parte nascosta del segreto della sua vita. In ogni modo, non possiamo avere certezze contraddittorie: per la prima, noi siamo divenuti, avvenuti, dal fondo della nostra vita; per l’altra, la vita che comincia non racchiude il divenire dell’essere umano.
Risultano pertanto opposte due filosofie, due antropologie. Per una, la libertà sorge dal nulla, l’uomo deve tutto a sé stesso, individualmente o collettivamente. Per l’altra, noi siamo nient’altro che procreatori, mai creatori, e, se ognuno di noi perviene solo poco per volta alla propria manifestazione, l’essere intimo è tutt’intero in potenza nella vita embrionale. Nel primo caso, l’aborto non è mai un omicidio ma, tutt’al più, la possibilità cancellata di un supporto biologico dell’esistenza umana. E non si approva, allora, ciò che proibisce di sopprimere il bambino che è appena nato e consente di eliminare il corpo che nascerà. Nel secondo caso, a stretto rigore, qualunque aborto è un omicidio. Non si dà una terza via.

Minaccia e innocenza

Per legiferare, si dovrebbe avere il coraggio di precisare in tal modo le opzioni. Per meno di questo, non si restituisce ciascuno alle sue responsabilità. Ammettiamo la tesi per cui ogni aborto è un omicidio. Quali che siano le difficoltà relative alla sua fondazione filosofica, questa sembra essere la tesi più conforme alla comune esperienza intima. Ne deriva che l’interruzione volontaria della gravidanza debba, in qualunque caso, essere giudicata come un omicidio volontario?
Si deve prendere in osservazione un primo punto, che riguarda il giudizio pubblico, quindi la legge e il diritto. È stata votata una legge, ma il suo preambolo resta non deciso e ne va, a nostro parere, del significato del diritto delle genti, e dunque della missione del potere politico. Se il diritto che garantisce il potere è quello di ogni essere umano, senza riguardo alle forze, alle capacità, al ruolo sociale, se esso deve riconoscere il povero come il ricco, il bambino come il vecchio, allora deve estendersi all’innocente che nascerà. E a nessuna condizione, che non sia il diritto degli altri. È vero, tuttavia, che questa condizione può fondare la legge, purché sia definita in maniera chiara, esplicita, formale:

«Qualunque aborto è un omicidio, ma vi sono casi in cui si deve uccidere».
I casi in cui si deve uccidere sono assimilati, per forza di cose, alla «legittima difesa». E sembra certamente impossibile eliminare la possibilità di quest’ultima. È fuori dubbio che, in una situazione determinata, il venire al mondo di un essere mette in discussione la vita degli altri, e in primo luogo la famiglia interessata. Escludere questa possibilità non equivarrebbe soltanto a escludere l’aborto terapeutico. Sarebbe come tralasciare due ordini di difficoltà gravi. In prima istanza, la difficoltà, in certi casi insuperabile, che si prova nel portare in grembo un essere che verrà. Quando, alla donna interessata, sembra insopportabile il carico in cui si accumulano i problemi personali, familiari, sociali, non si capisce affatto chi, al suo posto, potrebbe giudicare. E il medico che sia rigorosamente nel diritto di non partecipare all’omicidio ha, allo stesso tempo, l’obbligo morale di riconoscere questa situazione. In seconda istanza, la difficoltà di prendere in carico un neonato. Una vita umana che si annuncia può presentarsi come un’aggressione alla vita dell’entourage? Qui non sono determinanti i problemi economici. Ma, quando la vita promessa si annuncia così fragile, così difettiva o così poco umana, che si rivela impossibile accoglierla, allora la legittima difesa acquista un senso, inconsueto ma inconfutabile. Nessuno può quindi sostituirsi a genitori consapevoli che arriverà un bambino malformato. Nessuno lo può, anche se l’esperienza medica insegna che molti genitori di esseri malformati non vorrebbero, per nessuna cosa al mondo, fare a meno del loro bambino.
Tuttavia, se non può essere rifiutata l’applicazione di un principio di legittima difesa, è a condizione di sottolineare bene ciò che la limita, e ciò che il problema politico obbligherebbe a enunciare. Si tratta dello stato d’innocenza dell’essere concepito. Se questo costituisce un’aggressione, la sua colpa è assolutamente «oggettiva», come quella che motiva la «ragion di Stato», al di fuori della responsabilità dell’accusato. E se, al limite, è inevitabile uccidere l’innocente, in guerra come nell’aborto, bisogna comunque prenderne atto lucidamente, e non darsi facilmente «buona coscienza».
Nondimeno è impossibile ravvivare la responsabilità senza prendere coscienza di una pesante motivazione a favore dell’aborto: per l’esattezza, quella che svaluta la libertà e i suoi rischi, che è figlia dell’abbondanza ed erede della nostra comune richiesta di essere «presi in carico», ossia la sicurezza.
Sicurezza, difesa dell’acquisito, richiesta di presa in carico, l’opinione è sempre più piena di queste domande di protezione. Noi tutti ne siamo occupati, e per questo di rado è sincero il loro disprezzo. Va semplicemente riconosciuto che presso il legislatore il loro peso è stato determinante. In particolare, ognuno deve rendersi conto di ciò che preferisce: un essere in più, col quale si deve condividere, oppure un essere in meno, che ridurrebbe la parte di coloro che egli raggiungerà. È un’ultima alternativa, che i più ricchi devono esprimere a sé stessi tanto quanto i più sprovvisti. E non sono questi ultimi i più inclini a scegliere contro la nuova nascita.
Alternativa ultima…ma suscettibile di essere enunciata in termini quantitativi, in cifre demografiche. E la demografia è determinante, perché non è appena tema di specialisti contabili, ma è la realtà bruciante delle nostre società, che elude le metafisiche, ponendo alle nostre città autentici problemi di vita e di morte. Chi non considera questo fenomeno, e ignora il fallimento della contraccezione, non può ambire al «progresso sociale»…
Per la precisione, la coppia che procrea non può ignorare l’incidenza della demografia sulla sua vita. Ma, a nostro avviso, tanto meno può ignorare l’essenziale. L’essenziale è il venire al mondo di un essere imparagonabile, insostituibile, che fa, da solo, tutto un mondo. Quando il concepimento è compiuto, la donna, l’uomo fanno esperienza di sé stessi come dell’occasione di quel che li supera infinitamente: un essere di spirito che, fin dalla loro carne, è promesso al suo proprio destino.

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