L’aborto e le sue implicazioni di Claude Bruaire

L’alternativa

Prima che il parlamento francese approvasse una legge che autorizza l’interruzione della gravidanza, la scena pubblica è stata a lungo occupata dal confronto fra posizioni avverse. Tuttavia, queste posizioni non hanno mai messo in evidenza i loro presupposti. Il dibattito era comunque animato solo dalla posta in gioco filosofica, dalle premesse implicite circa l’essenza dell’essere umano, nascoste all’interno di ciascuna opzione. Poi, il silenzio ha coperto qualcosa che era diventata una questione legislativa chiusa. E, per schivare il dibattito di fondo, per dispensare sostenitori e oppositori dal rivelare i principi che decidono la loro etica rispettiva, il legislatore ha riservato l’obiezione di coscienza al personale medico. Nessuno può sapere, alla lettera della legge, su che cosa possa poggiare una obiezione del genere, né, di conseguenza, in nome di che cosa vi si possa passare sopra legalmente.
Dalla parte del potere che propone la legge, si può certamente invocare la necessità pratica del comando. Nessun governo può permettere l’accumulo di dossiers giudiziari non trattati. E, se questi non lo fossero, probabilmente «l’opinione» lo rifiuterebbe. In larga misura, il potere politico diviene inevitabilmente quel che i cittadini diventano, poiché esso deve rispondere alla loro domanda globale. È incontestabilmente lo stato di questa domanda a fare questione. Infatti, vi si incrocia di netto il problema di verità che qui è posto: Che cosa si fa quando si arresta la vita al suo inizio? Si tratta di un problema che, di rimando, mette in discussione la natura e la funzione del politico, come vedremo in conclusione.
In ogni modo, il problema così posto dissimula il suo dato essenziale: la vita che ha inizio allo stato embrionale è una vita umana in gestazione? Questione ancora troppo imprecisa: ammesso che si discuta della vita umana, questa comporta dei gradi, il più basso e il più alto, di modo che si potrebbe affermare che la vita è «appena umana», poi lo è «un po’ di più» alla nascita, e quasi completamente qualche mese o anno più tardi? Queste precisazioni non sono sussidiarie, perché sono spesso all’ombra dei nostri disagi.
Ora, bisogna porre con chiarezza l’alternativa, bruscamente, senza tergiversare, a rischio di restituire la complessità che può trovarvisi sacrificata nell’immediato. Quando si pratica un’interruzione di gravidanza, si tratta, oppure no, di un omicidio? Un omicidio in senso non equivoco, esclusivo, dove si uccide un essere umano.

Il postulato delle tesi contrapposte

In primo luogo, osserviamo che la problematica è relativamente nuova. Per secoli, si è risposto massicciamente «sì», è un omicidio. Ma non dimentichiamo che questi secoli formano un’epoca determinata. Prima dell’era cristiana, prima che il cristianesimo si imponesse globalmente ai costumi occidentali, l’aborto era correntemente riconosciuto e praticato, come lo era la soppressione di certi bambini appena nati. Non risulta che quanto il cristianesimo ha dato da credere sia racchiuso in una fede religiosa e non possa essere argomentato razionalmente. Ma questo spunto storico aiuta a comprendere che il comune rifiuto dell’aborto ha registrato il regresso che ha interessato recentemente la fede che lo sosteneva. Tuttavia, poiché la messa in discussione è per noi recente, è logico cominciare l’esame dalla proposizione negativa: no, l’aborto non è un omicidio.
Che cosa presuppone questa asserzione? Che quanto costituisce l’umanità dell’uomo, quanto lo mette fuori dalla serie delle altre specie non deve nulla alla natura. Che la natura non potrebbe contenere le caparre dello spirito umano, che è rottura con la vita naturale. Che, di conseguenza, lo spirito umano, ovvero qualsiasi altra espressione usata per designare l’essenza umana, deve tutto a sé stesso e non potrebbe essere contenuto in potenza nel «pacchetto di carne e ossa» che è un feto. Come corollario, l’uomo non è sé stesso senza la sua manifestazione, in particolare senza il linguaggio e la libertà che attestano la sua presenza. L’umano, di conseguenza, se non ha il suo passato nella natura, deve la sua formazione alla società degli uomini già data, all’educazione, quanto meno per l’essenziale. Per l’apparizione di un essere umano non ci sarebbe quindi nulla da attendere dalle necessità della natura. In definitiva, è per questo che l’uomo non è procreatore dell’uomo, ma creatore o formatore dell’autonomia dell’uomo.
Affermare, in tal modo, che l’embrione portato in grembo dalla donna non ha nulla dell’essere umano, che egli si riduce al supporto biologico di una eventuale inoculazione sociale dello spirito, che la libertà non deve niente alla natura, dove essa sorge senza preliminari, senza essere implicata, inviluppata nel «pacchetto di carne ed ossa», equivale pertanto alla tesi generale della modernità: l’uomo, padrone e signore della natura, non ne è condizionato, e neppure plasmato. Qui riconosciamo il principio di divisione, di partizione, tra la materia e lo spirito. Da una parte l’universo materiale che ci è dato, alla mercé delle nostre scienze e delle nostre tecniche. Dall’altra, a distanza, il mondo del pensiero e della libertà. Poco importa, in tal caso, che questa divisione provochi la cancellazione dello spirito e rafforzi il materialismo.
L’essenziale è di sottolineare che la difesa dell’aborto, nella misura in cui trae delle deduzioni dalla libertà sovrana, ratifica, implicitamente ma con forza, la rottura tra l’uomo e la natura, che impegna a trattare ogni individuo in maniera duplice, secondo due registri incomunicabili: il corpo biologico e lo spirito libero.
Tuttavia, per la logica della nostra storia, si deve aggiungere che la tesi del diritto all’aborto rafforza il dualismo natura-spirito solo quando raggiunge la tesi del privilegio dell’età adulta. È importante notarlo, onde evitare, in prima battuta, la mescolanza di posizioni contraddittorie. È difatti possibile sostenere che l’uomo non è l’uomo senza la sua autonomia manifesta, che gli fa prendere posto nei rapporti sociali di libertà. È altresì possibile difendere i diritti del neonato, della prima infanzia, così come difendere l’essere malformato, privo di autonomia nel suo comportamento e nel suo pensiero. Ma non è possibile sostenere simultaneamente le due tesi. In un caso si identifica l’essere umano e l’adulto autonomo. Nell’altro, si rifiuta questa assimilazione. Ora, il privilegio dell’età adulta resta l’eredità più sicura delle filosofie dei Lumi del XVIII° secolo. Sono filosofie del «progresso» che tanta diffusione hanno registrato, e che sono state i migliori amplificatori dell’umanesimo che assistette allo slancio della nostra modernità. L’autosufficienza dell’uomo suscita una duplice apologia: quella dell’umanità illuminata, padrona del suo destino, affrancata, mediante la scienza, dalle credenze e dalle superstizioni; quella dell’uomo autonomo, padrone dei suoi giudizi, che abbandona sentimenti e sogni dell’infanzia.
Ecco quel che ci sembra essere dietro le posizioni favorevoli all’aborto, a prescindere da motivazioni particolari, dalle molteplici espressioni. Solo a titolo esemplificativo, argomentare qui dei diritti della donna, al di fuori dei casi di aborto terapeutico, equivale probabilmente a richiedere che il prezzo dell’esistenza umana sia indipendente dai sessi, così come dalle razze o dalle fortune. Ma, molto spesso, significa anche presupporre che la libertà non sia legata alla maniera particolare della vita naturale che apparentemente la porta in seno.
Prendiamo ora in esame i postulati della posizione contraria, la quale sostiene che qualunque aborto sia un omicidio. Per enunciarli c’è bisogno di fare decisamente astrazione dalle passioni che attribuiscono al conservatorismo un carattere sacro. Si tratta di passioni che non valgono più di quelle che sacralizzano qualsiasi innovazione. Due proposizioni congiunte si rivelano implicate nel rifiuto dell’aborto. La prima trova la sua espressione migliore in una formula di Hegel: «lo spirito, per l’uomo, presuppone la natura della quale esso è la verità». La seconda afferma la realtà dell’«essere in potenza»: tesi, questa, che ha trovato in Aristotele la sua difesa e la sua esposizione. Ma queste due proposizioni difendono una medesima tesi antropologica: l’essere umano non si riduce alla formazione che egli riceve dalla sua famiglia, dalla società, né alle sue manifestazioni, né alla storia dei suoi pensieri e delle sue azioni. Il suo essere peculiare è dunque racchiuso nel segreto della vita del suo corpo, dal quale egli emerge a poco a poco. Esaminiamo allora quest’ultima affermazione per essere in grado di valutare le due precedenti.
Abbiamo noi un essere personale, identico malgrado peripezie della nostra vita, irriducibile all’educazione ricevuta, alla lingua appresa, alle idee che sono le nostre, a tutti i nostri atti e a tutte le nostre prove? Un uomo è quel che egli dice, quel che egli fa, quel che egli decide e quel che egli subisce, oppure è altra cosa, altra cosa dall’essere semplicemente sé stesso? La portata i tali questioni è decisiva. Se un essere umano non è né la somma delle sue formazioni sociali né l’insieme delle sue avventure, vuol dire che egli non deve l’essenziale del suo essere a sé stesso, ai suoi atti di libertà, o agli altri. È evidente che la sua origine è inscritta nell’inizio della sua vita, poiché l’unica cosa certa è che il nostro risveglio a noi stessi e al mondo è avvenuto dall’interno del nostro corpo. Si tratta del fatto forse più sconvolgente dell’esistenza di ciascuno: nessun bilancio psicologico o sociologico permette di conoscere qualcuno. Per questo, c’è bisogno di una decodificazione molto particolare: per decifrare colui del quale facciamo esperienza, cogliendo nel corpo, nel volto, nello sguardo, un’espressione dell’essere intimo che nessun repertorio delle opere o dei pensieri, degli eventi o delle situazioni, può consegnare. Non c’è medico che lo ignori, salvo trascurare decisamente colui che egli cura, e la cui insostituibile realtà sfugge alla ricerca, alla cartella clinica, così come alla pura e semplice configurazione di una individualità biologica.
Se noi non dobbiamo il nostro proprio essere, personale, a ciò che la società fa di noi, né a ciò che noi facciamo di noi stessi, è giocoforza comprendere la formazione dello spirito umano come un divenire che assume, riprende, eleva un essere intimo radicato nell’oscurità della vita del corpo. L’educazione è indispensabile al risveglio di un bambino, ma non lo confeziona. È lenta l’odissea che lo spirito affronta per manifestarsi nel corpo dove è rinchiuso. La sua verità è quindi presupposta nella sua vita. In quanto è libero, lo spirito di ogni uomo può certo rinnegare i suoi presupposti naturali, ma esso nasce solo al termine di un cammino attraverso il quale sorge dalla natura per trasgredirla, inquadrarla, superarla.
Si parla dell’argomento principale. Tocca a ciascuno esaminarsi e valutarlo. E, se è vero, questo argomento verifica ciò che la nostra ragione ammette con la maggiore difficoltà: che un essere possa esistere prima di essere manifesto, prima di essere in atto, che possa in effetti risiedere lì dove è soltanto in potenza, in attesa, e, per così dire, in anticipo su sé stesso. Il punto è che un certo tipo di razionalità rifiuta di riconoscere ciò che non ci sia già, dato, analizzabile, misurabile, ciò che è solamente promessa per l’osservazione, ma già sussiste nella parte nascosta del segreto della sua vita. In ogni modo, non possiamo avere certezze contraddittorie: per la prima, noi siamo divenuti, avvenuti, dal fondo della nostra vita; per l’altra, la vita che comincia non racchiude il divenire dell’essere umano.
Risultano pertanto opposte due filosofie, due antropologie. Per una, la libertà sorge dal nulla, l’uomo deve tutto a sé stesso, individualmente o collettivamente. Per l’altra, noi siamo nient’altro che procreatori, mai creatori, e, se ognuno di noi perviene solo poco per volta alla propria manifestazione, l’essere intimo è tutt’intero in potenza nella vita embrionale. Nel primo caso, l’aborto non è mai un omicidio ma, tutt’al più, la possibilità cancellata di un supporto biologico dell’esistenza umana. E non si approva, allora, ciò che proibisce di sopprimere il bambino che è appena nato e consente di eliminare il corpo che nascerà. Nel secondo caso, a stretto rigore, qualunque aborto è un omicidio. Non si dà una terza via.

Minaccia e innocenza

Per legiferare, si dovrebbe avere il coraggio di precisare in tal modo le opzioni. Per meno di questo, non si restituisce ciascuno alle sue responsabilità. Ammettiamo la tesi per cui ogni aborto è un omicidio. Quali che siano le difficoltà relative alla sua fondazione filosofica, questa sembra essere la tesi più conforme alla comune esperienza intima. Ne deriva che l’interruzione volontaria della gravidanza debba, in qualunque caso, essere giudicata come un omicidio volontario?
Si deve prendere in osservazione un primo punto, che riguarda il giudizio pubblico, quindi la legge e il diritto. È stata votata una legge, ma il suo preambolo resta non deciso e ne va, a nostro parere, del significato del diritto delle genti, e dunque della missione del potere politico. Se il diritto che garantisce il potere è quello di ogni essere umano, senza riguardo alle forze, alle capacità, al ruolo sociale, se esso deve riconoscere il povero come il ricco, il bambino come il vecchio, allora deve estendersi all’innocente che nascerà. E a nessuna condizione, che non sia il diritto degli altri. È vero, tuttavia, che questa condizione può fondare la legge, purché sia definita in maniera chiara, esplicita, formale:

«Qualunque aborto è un omicidio, ma vi sono casi in cui si deve uccidere».
I casi in cui si deve uccidere sono assimilati, per forza di cose, alla «legittima difesa». E sembra certamente impossibile eliminare la possibilità di quest’ultima. È fuori dubbio che, in una situazione determinata, il venire al mondo di un essere mette in discussione la vita degli altri, e in primo luogo la famiglia interessata. Escludere questa possibilità non equivarrebbe soltanto a escludere l’aborto terapeutico. Sarebbe come tralasciare due ordini di difficoltà gravi. In prima istanza, la difficoltà, in certi casi insuperabile, che si prova nel portare in grembo un essere che verrà. Quando, alla donna interessata, sembra insopportabile il carico in cui si accumulano i problemi personali, familiari, sociali, non si capisce affatto chi, al suo posto, potrebbe giudicare. E il medico che sia rigorosamente nel diritto di non partecipare all’omicidio ha, allo stesso tempo, l’obbligo morale di riconoscere questa situazione. In seconda istanza, la difficoltà di prendere in carico un neonato. Una vita umana che si annuncia può presentarsi come un’aggressione alla vita dell’entourage? Qui non sono determinanti i problemi economici. Ma, quando la vita promessa si annuncia così fragile, così difettiva o così poco umana, che si rivela impossibile accoglierla, allora la legittima difesa acquista un senso, inconsueto ma inconfutabile. Nessuno può quindi sostituirsi a genitori consapevoli che arriverà un bambino malformato. Nessuno lo può, anche se l’esperienza medica insegna che molti genitori di esseri malformati non vorrebbero, per nessuna cosa al mondo, fare a meno del loro bambino.
Tuttavia, se non può essere rifiutata l’applicazione di un principio di legittima difesa, è a condizione di sottolineare bene ciò che la limita, e ciò che il problema politico obbligherebbe a enunciare. Si tratta dello stato d’innocenza dell’essere concepito. Se questo costituisce un’aggressione, la sua colpa è assolutamente «oggettiva», come quella che motiva la «ragion di Stato», al di fuori della responsabilità dell’accusato. E se, al limite, è inevitabile uccidere l’innocente, in guerra come nell’aborto, bisogna comunque prenderne atto lucidamente, e non darsi facilmente «buona coscienza».
Nondimeno è impossibile ravvivare la responsabilità senza prendere coscienza di una pesante motivazione a favore dell’aborto: per l’esattezza, quella che svaluta la libertà e i suoi rischi, che è figlia dell’abbondanza ed erede della nostra comune richiesta di essere «presi in carico», ossia la sicurezza.
Sicurezza, difesa dell’acquisito, richiesta di presa in carico, l’opinione è sempre più piena di queste domande di protezione. Noi tutti ne siamo occupati, e per questo di rado è sincero il loro disprezzo. Va semplicemente riconosciuto che presso il legislatore il loro peso è stato determinante. In particolare, ognuno deve rendersi conto di ciò che preferisce: un essere in più, col quale si deve condividere, oppure un essere in meno, che ridurrebbe la parte di coloro che egli raggiungerà. È un’ultima alternativa, che i più ricchi devono esprimere a sé stessi tanto quanto i più sprovvisti. E non sono questi ultimi i più inclini a scegliere contro la nuova nascita.
Alternativa ultima…ma suscettibile di essere enunciata in termini quantitativi, in cifre demografiche. E la demografia è determinante, perché non è appena tema di specialisti contabili, ma è la realtà bruciante delle nostre società, che elude le metafisiche, ponendo alle nostre città autentici problemi di vita e di morte. Chi non considera questo fenomeno, e ignora il fallimento della contraccezione, non può ambire al «progresso sociale»…
Per la precisione, la coppia che procrea non può ignorare l’incidenza della demografia sulla sua vita. Ma, a nostro avviso, tanto meno può ignorare l’essenziale. L’essenziale è il venire al mondo di un essere imparagonabile, insostituibile, che fa, da solo, tutto un mondo. Quando il concepimento è compiuto, la donna, l’uomo fanno esperienza di sé stessi come dell’occasione di quel che li supera infinitamente: un essere di spirito che, fin dalla loro carne, è promesso al suo proprio destino.

Capacità e neuroscienze cognitive: dialogo per un approccio all’uomo nella sua dimensione globale di Eva Leccese

Abstract: The theme of the of people’s legal capacity is one of the corequestions that emerges, right from the beginning, in all the studies dealing with the relationship between neuroscience and law. Cognitive neurosciences allow to deal with the capacity of the person in a flexible and modular way, in a global and integrated approach that allows, in the operating phase, to make “useful” and more effectively usable the model of protection of incapacity developed by the legislator on the basis of a (necessary) standardization. The current debate on the relationship between neuroscience and social sciences highlights, firstly, how neuroscience aims to uncover the correlations between mental activity and biological substrate that should enable the understanding of brain reactions to external stimuli, brain responses to situations in which a person, in the specificity of physical and age conditions, can find, allowing, in the long term, the development of behavioural models. Here then is the importance of the cognitive foundations of law, the result of a process of integration between juridical models and cognitive sciences that opens a path with a dual direction: on the one hand the understanding of the cognitive and decision-making processes of the subjects to whom the norms are intended, on the other hand the thought and the argument of the legislator and the interpreter. The rereading of the notions, in terms of ability to act, ability and natural incapacity, explains the traditional orientation of the jurist; the neuroscientific approach can provide the interpreter with a broader vision. Studies of cognitive neurosciences, in fact, reveal the role of the affective sphere that interacts with that of reason by composing the dialogue between emotionality and rationality, fundamental in the cognitive process. The difference between the cognitive and the volitive spheres, which, in legal terms, is expressed by the term ability to understand and/or to want and the distinction of which is irrelevant from a legal point of view, becomes relevant in the light of the results of the cognitive neurosciences which have demonstrated as a perfect and integral intellectual capacity (ability to understand) you sometimes have an absolute inability to decide.
Calling into question the traditional model of rational man can paradoxically contribute to create a more efficient and, therefore, more rational system, which ensure an ever-higher level of protection of the individual, in his global – both physical and psychological –dimension, corresponding to the uniqueness of the person. This study requires an integrated approach between disciplines which share a common thread: the man and the quality of his life.

Keywords: Neuroscience – Law – Person – Capacity – Behavioral models

Premessa

Uno dei temi centrali che emerge, sin da un primo approccio al tema, in tutti gli studi che si occupano del rapporto tra neuroscienze e diritto è quello della capacità delle persone. Si discute, così, della capacità, non solo nel diritto civile, e con riferimento all’individuazione della misura di protezione più idonea per gli incapaci ma anche, ad es., nel diritto penale, nell’ambito della problematica relativa all’imputabilità, e, ancora, nel diritto processuale civile.
Nello specifico del tema trattato le neuroscienze cognitive consentono di occuparsi della capacità della persona con modalità elastica e modulare, in un approccio globale ed integrato che permette, nella fase operativa, di rendere «utile» e più efficacemente fruibile il modello di protezione dell’incapace elaborato dal legislatore sulla base di una (necessaria) standardizzazione. Ciò accade, ad es., con riferimento alla capacità o incapacità del minore, sintesi normativa di una situazione o, meglio, relazione tra l’individuo (minorenne) ed il mondo in cui vive, concepita come schema funzionale di protezione per una posizione di «debolezza» definita da nozioni e concetti che ci provengono da altre scienze (biologia, fisiologia).
In un noto studio di molti anni fa, si legge:

«È innegabile che la vita dell’uomo si manifesta come un continuum che si svolge tra la nascita e la morte dell’individuo. Tale periodo può essere suddiviso in varie età, siano esse abbastanza numerose, secondo le teorie della medicina e della psicologia meno moderne, siano esse ridotte a due partizioni soltanto – età evolutiva ed età involutiva – secondo più recenti risultanze di quelle scienze. Ma tanto nella prima quanto nella seconda ipotesi, di estrema e forse insuperabile difficoltà si presenta la determinazione del preciso momento in cui avviene il passaggio dall’una all’altra ovvero si completa un ciclo e se ne inizia uno nuovo. Sulla base di questa incertezza anche i legislatori si sono trovati a seguire vie dissimili nel frazionamento delle diverse età, cui riannodare le corrispondenti capacità giuridiche».

L’autorevolissima dottrina ci iniziava, così, alla riflessione sulla «minorità» nella cui complessità spicca e si staglia l’elaborazione della «capacità di discernimento».
Le parole di allora precorrono i tempi e sembrano esprimere la sintesi del dibattito di oggi sul rapporto tra neuroscienze e diritto. «Se il diritto e le neuroscienze,» – si è affermato – «pur occupandosi dello stesso oggetto d’indagine (che è poi il soggetto umano, i suoi moventi e la sua condotta), potessero continuare ad esercitare un magistero per così dire parallelo, non ci sarebbe alcuna ragione di indagare ulteriormente la questione. Alla scienza i fatti, al diritto i valori. Degli esseri umani si occupano le scienze, al diritto interessano le persone».
Ma uomo e persona coincidono e l’equivalenza uomo-persona, per la quale, cioè, ogni essere umano, in quanto tale, ha la capacità giuridica, rappresenta una tap­pa fondamentale dell’evoluzione degli ordinamenti giuridici moderni da forme primordiali dove la capacità giuridica coincideva, sostanzialmente, con la capacità d’agire del soggetto, all’attuale grado di sviluppo dove, invece, la capacità giuridica di ogni uomo è dato acquisito non solo all’esperienza giuridica, ma alla coscienza politica, sociale, umana di ogni individuo.
Le neuroscienze cognitive, si pone in luce, «rappresentano l’espressione di una visione complessiva della natura umana che, in quanto tale, è destinata ad investire fin dalle fondamenta l’architettura concettuale del sapere giuridico, costringendolo comunque ad un profondo ripensamento». Proprio nelle moderne neuroscienze si indica lo strumento con il quale «il programma di un’integrale unificazione dei saperi sull’uomo e sulla natura giunge a compimento». E questo appare essere il punto di snodo della questione: l’affermazione della globalità dell’uomo, corpo e mente, fisicità e psichicità, che corrisponde all’unicità del valore persona, affermato dalla dottrina da sempre attenta alla tutela della persona nella sua globalità.
Dire con esattezza cosa siano le neuroscienze cognitive, e definire le ripartizioni al loro interno, è compito degli appartenenti alla comunità scientifica che si occupa delle discipline: l’approccio di chi scrive è quello di chi si appresta, con curiosità ed umiltà, a scoprire un mondo nuovo e «altro», sino ad ora, rispetto a quello di appartenenza e a confrontarsi con una dimensione che richiede conoscenze specifiche e capacità di comprensione delle tecniche non sempre di facile assimilazione: ciò che appare chiaro, però, sin dal primo approccio, é che tutte le discipline riconducibili alle neuroscienze cognitive condividono «un fondamentale programma comune: quello di comprendere come il cervello renda possibili i fenomeni mentali e i comportamenti umani». E il diritto ha ad oggetto la regolamentazione di comportamenti umani; l’apporto delle neuroscienze può migliorare sensibilmente la capacità legislativa di regolare le condotte umane e quella dell’interprete di comprenderle, rendendo così più equilibrato, in particolare nel campo specifico che qui ci occupa, quel difficile rapporto tra iperprotezionismo legislativo ed anomia, nel segno del rispetto della dignità dell’uomo che realmente trovi espressioni nelle forme di regolamentazione di aspetti della vita privata.

Scienze cognitive e diritto: il profilo del dibattito

Il dibattito attuale sul tema (del rapporto tra neuroscienze e scienze sociali) pone in luce, in primo luogo, come le neuroscienze si propongano di svelare le correlazioni tra attività mentale e sostrato biologico.
Tali correlazioni dovrebbero consentire di comprendere le reazioni del cervello agli stimoli esterni, le risposte cerebrali alle situazioni in cui una persona, nella specificità delle condizioni fisiche e di età, può trovarsi, permettendo, nel lungo periodo, l’elaborazione di modelli comportamentali. Ecco allora l’importanza dei fondamenti cognitivi del diritto, risultanza di un processo di integrazioni tra modelli giuridici e scienze cognitive che apre un percorso con una duplice direzione: da un lato la comprensione dei processi cognitivi e decisionali dei soggetti cui le norme sono destinate, dall’altro il pensiero e l’argomentazione del legislatore e dell’ interprete.
Le scienze cognitive si affiancano, così, all’analisi economica del diritto, che si colloca nel più limitato campo degli effetti economici delle regole giuridiche, e a questa sono accomunate dal criterio dell’efficienza: efficienza della norma le prime, sotto il profilo della corrispondenza degli effetti all’intenzione del legislatore, efficienza economica la seconda come scelta (razionale) più vantaggiosa nell’applicazione della norma. Entrambe, sinergicamente, disegnano il perimetro di un’area complessiva che abbraccia l’uomo nella sua dimensione globale e il suo agire, la persona e la regolamentazione della sua esistenza. E qui le implicazioni e le applicazioni possono essere davvero tante, quante sono le dimensioni dell’uomo che le scienze giuridiche tentano da sempre di sistemare in categorie e regole, dal sistema di protezione dei soggetti deboli all’esercizio della capacità contrattuale: sotto tale ultimo aspetto, il richiamo, in verità molto utilizzato in tanti studi sul tema, è ai vizi della volontà, alla clausola generale di buona fede, alla legislazione consumeristica (in particolare alla disciplina delle pratiche commerciali sleali), alla tutela risarcitoria, dove spicca, come caso emblematico nel campo del risarcimento del danno non patrimoniale, il danno biologico. Lo specchio delle neuroscienze cognitive riflette la necessità di integrare, nei contenuti, modelli quali, ad es., la diligenza del buon padre di famiglia, la normale diligenza ed il comune apprezzamento nel giudizio di rilevanza dell’errore, la nozione di consumatore medio, tutti schemi, questi, elaborati nell’esperienza giurisprudenziale sulla base di un astratto (prototipo) di uomo razionale.
La constatazione della fallibilità di un modello di uomo razionale, che il legislatore assume a schema di riferimento, è ampiamente dimostrata dalla evoluzione della società e della coscienza sociale che il legislatore fatica ad ingabbiare in schemi normativi; si pensi, ma solo per fare un esempio, alle Unioni civili: ciò che alla coscienza dei più, e al senso comune, poteva apparire contro logica e ragione, è faticosamente divenuta legge dello Stato, espressione, a sua volta, di comportamenti umani accettati e divenuti normali, razionali. Ciò perché, ad avviso di chi scrive, bisogna distinguere la razionalità come capacità di raziocinio, espressione della facoltà di comprendere ed elaborare concetti e di assumere decisioni logiche e conseguenti, dalla razionalità come concetto che esprime la conformità di un comportamento a un modello «secondo ragione»; la prima è un concetto scientifico, estrinsecazione di un’attività cerebrale accertabile e misurabile in quanto espressione della facoltà di comprendere ed elaborare concetti, la seconda sociale, convenzionale, in quanto è influenzata e determinata dalle convenzioni sociali, dagli stereotipi, dal comune senso del pensare o, meglio, del pensare in senso comune.
È importante, dunque, anzi necessario, per il giurista, legislatore o giudice, dotarsi di tecniche e strumenti di comprensione del cervello che ben sappiano riflettere e spiegare i meccanismi che presiedono alle scelte, alle decisioni, e che determinano le condotte, così come è importante per lo psicologo, per lo psicoterapeuta, conoscere i congegni mentali che si instaurano a seguito di traumi ed i meccanismi cerebrali che presiedono alla loro elaborazione, per poter curare e guarire l’uomo dal male dell’anima.
Ciò può valere nel diritto che, come si è detto, ha ad oggetto la regolamentazione di comportamenti umani, ma trova riscontro anche in altri campi; l’ambito di indagine comprende aree più vaste o, meglio, ogni area dove acquista rilevanza la comprensione profonda dei meccanismi che governano le condotte degli uomini: «la scienza – si è affermato – per essere utile all’uomo deve essere umana, e potrà essere tale solo se si fonderà anch’essa sulla conoscenza ed il rispetto delle leggi che regolano la vita e l’evoluzione della coscienza evitando di alterare i delicati equilibri del metabolismo umano ed ambientale». Significativo, in tal senso, il richiamo ai diritti umani e ai valori contenuti nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, i cui fondamenti – si afferma – sono fisiologicamente presenti nel genoma umano e la cui attuazione non può avere altra strada che quella «dell’educazione che deve stimolare lo sviluppo e l’espressione delle potenzialità racchiuse all’interno del cervello umano: questo fa nascere la gioia di vivere».
Esiste, però, il rischio che la medaglia sveli anche l’altro lato, non positivo.
La diffusione sempre crescente degli strumenti di neuromarketing, come forma principale attraverso la quale collocare sul mercato i prodotti di sempre con modalità e strumenti impensabili fino a qualche tempo fa, e le attuali tecniche di conclusione dei contratti di massa inducono a riflettere su come la persona, il suo essere pensante, possa essere utilizzata come strumento di mercato al pari di qualunque altro bene o utilità economica, trasformando, così, l’uomo da soggetto agente ad oggetto di mercato. Il doppio lato della medaglia, dunque, può mostrare, anche, come le neuroscienze e le scienze comportamentali possano trovare applicazione in tecniche funzionali, prevalentemente, alle esigenze del mercato più che alla tutela delle persone. È innegabile, però, che le stesse scienze possano rappresentare il miglior strumento per comprendere le problematiche degli incapaci, dei soggetti deboli, e ritagliare la misura di protezione più idonea.
L’ambito della capacità della persona e delle sue limitazioni sembra essere quello più idoneo all’utilizzo delle valutazioni provenienti dalle neuroscienze cognitive, dove l’approccio, anche intuitivamente, è più immediato: si pensi all’amministrazione di sostegno che sicuramente appare come il campo elettivo di utilizzo degli strumenti di brain imaging perché si tratta di modulare il provvedimento sul singolo caso o stato di capacità/incapacità, non standardizzato come accade, ad es., nell’interdizione e nell’inabilitazione.

La regola generale della capacità delle persone: la capacità giuridica

Un importante studio dell’università di Padova apre evidenziando come il ruolo delle neuroscienze in campo giuridico, sia nell’area civilistica che in quella penalistica, sia divenuto oramai «ruolo chiave» e come, nelle applicazioni sempre maggiori delle competenze neuroscientifiche, la valutazione della capacità occupi un posto di primaria importanza.
Le scienze cliniche ignorano la distinzione, propria del sistema giuridico, tra capacità giuridica, capacità d’agire e capacità d’intendere e volere e indicano nella capacità il concetto che «definisce una serie di eterogenee abilità funzionali, fisiche e, per quanto ci interessa nel presente documento, psichiche che consentono di svolgere le attività della vita quotidiana, di compiere determinate e specifiche azioni o di prendere particolari decisioni. Dal punto di vista giuridico si considera la capacità psichica con riferimento all’ambito penalistico e civilistico».
Differente è l’approccio del giurista.
Occupandoci di incapacità, molti anni fa, constatavamo come, in materia di capacità delle persone il primo, imprescindibile, approccio sia con la capacità giuridica, la cui comune definizione è di attitudine alla titolarità di diritti e doveri, proprio perché la medesima si configura come la regola. La capacità giuri­dica, infatti, si acquista con il solo evento della nascita (art. 1, c.c.) ed è intrinsecamente collegata al soggetto per tutta la durata della sua esistenza: la semplice qualità umana esprime, per­tanto, una potenzialità infinita, la possibilità, cioè, di essere titolari di situazioni che l’ordinamento giuridico riconosce e tutela, destinatari delle norme e portatori degli interessi che le medesime sottendono. La capacità giuridica è, dunque, «astratto attributo di ogni essere umano» sebbene, pur sempre, qualità promanante dall’ordinamento. Tale ultima necessaria specificazione, mentre priva di qualsiasi elemento di diritto naturale la connotazione del concetto, spiega anche l’enfasi dell’affermazione per la quale l’autonomia della capacità giuridica rispetto alla capacità d’agire «deve considerarsi una definitiva conquista della civiltà e segna un fondamentale progresso degli ordinamenti giuridici moderni rispetto agli ordinamenti primitivi».
Esperienze storiche relativamente recenti, ma concettualmente molto lontane da noi, in cui elementi di natura razziale, politica, religiosa condizionavano l’acquisto della capacità giuridica, subordinandolo all’esistenza di requisiti di medesima natura, esplicitano l’appartenenza al diritto positivo, e non naturale, della capacità giuridica, ma la natura intrinseca del nesso che lega quest’ultima alla persona legittima la identificazione tra capacità e soggettività giuridica: al pari della soggettività, infatti, «la capacità giuridica costituisce un carattere intrinseco del soggetto, una qua­lità che ad esso deriva dal fatto di essere titolare potenziale degli interessi tutelati dal diritto».
L’attitudine alla titolarità di diritti e doveri, in quanto astratto attributo di ogni essere umano, qualità giuridica a priori che si estrinseca nell’essere «antecedente logico dei singoli diritti soggettivi»,finisce col rappresentare, dunque, il nucleo essenziale della personalità valore costi­tuzionalmente garantito e protetto. E’ stato evidenziato al riguardo «come sia prevalente in dottrina la posizione che esaurisce l’una nell’altra le nozioni di capacità giuridica e persona, sicché, essere persona, essere soggetto, avere capacità giuridica sono espressioni sinonimiche».
Il diritto, dunque, immagina e descrive, l’uomo, la mente e il cervello: il legislatore prevede e rappresenta comportamenti umani; ogni comportamento è espressione di una funzione cerebrale.

4. La capacità d’agire

La comune e tradizionale definizione di capacità d’agire come ido­neità a porre in essere «l’attività giuridica che riguarda la sfera di interessi propria della persona» racchiude in sé gli ele­menti che caratterizzano, sotto il profilo dei presupposti, l’isti­tuto, ne articolano il rapporto con la soggettività e la distinguono dalla capacità giuridica.
L’attività giuridica relativa alla sfera di interessi propria di ogni soggetto si sostanzia nell’acquisto e nell’esercizio di dirit­ti e nell’assunzione di obblighi; essa presuppone, pertanto, la maturità psicofisica del soggetto agente e la piena capacità di volere, quella, cioè, che altrettanto tradizionalmente si menziona come «ma­turità sufficiente a valutare la convenienza economica degli atti» compiuti. Proprio questa impostazione per la quale la capaci­tà d’agire si fonda sul presupposto della capacità d’intendere, volere e, quindi, valutare la convenienza economica degli atti posti in essere, ha indotto parte della dottrina ad evidenziare la prospettiva quasi esclusivamente economicistica dello studio della capacità d’agire.
Conferma di ciò si ha, ad es., nella disciplina dell’incapacità naturale dove le norme principali di riferimento si occupano dell’attività negoziale dell’incapace e si focalizzano sulla capacità di apprezzare la portata economica dell’atto posto in essere; ma

«la protezione della dignità dell’uomo e la promozione dello sviluppo della sua personalità (…) trovano precipuo svolgimento nelle situazioni giuridiche soggettive personali, in quelle cioè che garantiscono al singolo la realizzazione dei valori (…). In tale contesto, le situazioni giuridiche patrimoniali vanno ad occupare una posizione strumentale e comunque subalterna rispetto a quella in cui si collocano le situazioni personali (…); s’impone la necessità di ribaltare la prospettiva finora seguita, accordando così primaria importanza al momento esistenziale della persona».

Si evidenziava, dunque, già allora l’esigenza di apertura ad altre prospettive di studio della regolamentazione dei comportamenti umani. In questa direzione il contributo delle scienze cognitive può essere determinante non solo, come si è detto, là dove si tratta di ritagliare la misura di protezione più idonea per l’incapace ma, anche, per assumere e migliorare scelte legislative e orientamenti giurisprudenziali. L’idoneità alla cura dei propri interessi assume valenza giuridica ai fini dell’acquisto della capacità d’agire in un momento preciso e determinato dal legislatore: il raggiungimento della maggiore età (art. 2 c.c.). Tale momento segna, infatti, «un criterio netto di demarcazione», il passaggio dall’inca­pacità alla capacità d’agire.
L’art. 2 c.c. fissa il criterio generale della capacità d’agire per tutti coloro che siano maggiorenni e, contestualmente, pone ecce­zioni alla regola: età diversa può essere stabilita per determinati tipi di atti e, in materia di capacità di lavoro, può essere stabi­lita un’età inferiore; anche il minore può essere abilitato all’esercizio dei diritti dipendenti dal contratto di lavoro. Il raggiungimento della capacità di discernimento, di intendere e di volere che è presuppo­sto della capacità d’agire, è fissato dal legislatore al compimento del diciottesimo anno d’età.
Solo chi ha l’idoneità alla gestione dei propri interessi ha, per il diritto, capacità d’agire, quella forma, cioè, attraverso la quale la sogget­tività giuridica troverebbe il suo normale svolgimento consentendo al soggetto incapace «di uscire dalla mera posizione statica che gli deriva dalla capacità giuridica».
La capacità d’agire si acquista unicamente in presenza di un presupposto di fatto; non ogni uomo, infatti, in quanto tale, è ca­pace di agire; essa può essere limitata, parziale, può esservi inca­pacità d’agire e questa, a sua volta, non essere piena, senza che tali mutamenti snaturino il concetto stesso di capacità e con esso si pongano in una logica antinomia. Legata all’interesse della per­sona che agisce essa è suscettibile di specificazioni corrispondenti ad altrettanti campi nei quali l’agire umano opera per l’esercizio e la tutela dei propri diritti: si parla, così, di capacità negoziale, extranegoziale e di capacità di stare in giudizio, designando la prima l’idoneità del soggetto all’autoregolamentazione dei propri interessi attraverso lo strumento negoziale, sia sotto il profilo attivo sia sotto quello della mera ricezione, la seconda sinteticamente definita come «l’idoneità del soggetto al compimento e alla ricezione degli atti giuridici in senso stretto» ed esprimendo, infine, la capacità processuale la possibilità del sog­getto di esperire in giudizio azioni e di opporre eccezioni a tutela dei propri diritti ed interessi.
Così articolata, la capacità d’agire rappresenta la regola nei va­ri campi in cui essa opera, pur essendo, diversamente dalla capaci­tà giuridica, disciplinata da singole norme che subordinano l’acqui­sto, le modifiche e la perdita a situazioni di fatto: come qualità giuridica, ed indipendentemente dal compimento di alcun atto, si ac­quista col maturare di una determinata situazione corrispondente al raggiungimento di «uno stato psichico di idoneità a intendere e vo­lere», normativamente fissato al raggiungimento della maggio­re età. Si è sottolineato come l’attenzione che il l’ordinamento riserva alla capacità del minore, soprattutto il sistema della legislazione speciale in tema di adozione e di affidamento condiviso, consenta di fuoriuscire dallo schema rigido dell’età per dar rilievo alla capacità, all’inclinazione naturale, senza mai racchiudere, nelle strette maglie di una definizione generale ed astratta, la definizione di capacità «essendo la stessa destinata a modellarsi – per precisa scelta normativa – sulle singole fattispecie concrete, sul singolo minore e sulle sue peculiari caratteristiche». Il che, aggiungiamo noi, può raggiungersi anche, e forse soprattutto, grazie ad indagini comportamentali, studi e strumenti che ci provengono dalle scienze cognitive il cui contributo può apprezzarsi, tangibilmente e immediatamente, nel campo delle incapacità.

5. L’incapacità d’agire (tra uomo e persona)

Alla regola generale della capacità legale d’agire si contrappone l’incapacità cioè «l’inidoneità del soggetto ad assumere comportamenti giuridici validi».
L’incapace di agire è soggetto di diritto e, come tale, potenziale destinatario di effetti giuridi­ci; è titolare di situazioni giuridi­che che non può gestire proprio perché tale condizione implica l’inidoneità ad assumere validamente comportamenti giuridici, ma gli atti eventualmente compiuti producono effetti anche se contestual­mente nasce la possibilità di rimuoverli. L’incapacità d’agi­re trova il suo fondamento nel dato positivo – poiché per l’art. 2 c.c. incapace d’agire è chi, in linea generale, non abbia raggiun­to la maggiore età – e si ricollega essenzial­mente all’incapacità d’intendere e volere.
Incapace d’agire è, in primo luogo, il minore: opera, in questa ipotesi, indipendentemente dalla concreta attitudine alla cura dei propri interessi, una presunzione legale di immaturità psichica e, conseguentemente, di inidoneità a porre validamente in essere com­portamenti giuridicamente rilevanti.
Si tratta di una forma di inca­pacità generale relativa a tutti gli atti leciti ed ai negozi, per i quali la legge non preveda un’età diversa, i cui effetti non possono stabilmente entrare a far parte della sfera giuridico patrimoniale del minore se non attraverso l’istituto della rappresentanza, ove, ovviamente, la natura dell’atto lo consenta. I negozi posti in essere dal minore sono annullabili né questa azione è subordinata alla dimostrazione che l’atto sia pregiudizievole per l’incapace: l’incapacità legale è, infatti, istituto essenzialmente finalizzato alla tutela dell’incapace. Medesima sorte su­biscono gli atti posti in essere dall’interdetto giudiziale sebbene l’istituto, pur essendo ugualmente finalizzato alla tutela dell’in­capace, si fondi non su una presunzione legale di inidoneità alla cura dei propri interessi ma sul presupposto della concreta incapacità di intendere e volere. Accanto a tale forma di incapacità le­gale assoluta, che accomuna, pur nella diversità dei presupposti, il minore e l’interdetto giudiziale, si delinea, nella disciplina civilistica, una forma più attenuata di incapacità, un’incapacità rela­tiva che si sostanzia nella limitata capacità dell’emancipato e dell’inabilitato.
L’emancipazione, che si acquista col matrimonio (art. 390 c.c.), attribuisce al minore una capacità d’agire piena per ciò che concer­ne gli atti di ordinaria amministrazione e gli atti di natura perso­nale, e limitata relativamente agli atti di straordinaria ammini­strazione; questi ultimi necessitano del consenso del curatore e dell’autorizzazione del giudice tutelare o, in alcuni casi, del tri­bunale (art. 394 c.c.).
Ipotesi particolare è quella dell’emancipato autorizzato dal tribu­nale all’esercizio di un’impresa commerciale: in tal caso il minore può compiere da solo tutti gli atti che eccedono l’ordinaria ammini­strazione anche se estranei all’esercizio d’impresa (art. 397 c.c.).
Al di là di quest’ultima, specifica, ipotesi la limitata capacità dell’emancipato determina l’annullabilità degli atti posti in essere senza le formalità prescritte né, ai fini dell’esperimento dell’azione, è richiesto l’ulteriore requisito di un particolare pregiudizio derivante al minore dall’atto.
Il medesimo stato di ridotta capacità d’agire caratterizza la condizione dell’inabilitato, pur essendo, nella sostanza, profondamen­te differenti i presupposti dei due istituti. Mentre con l’emanci­pazione si attribuisce una limitata capacità d’agire a chi non abbia ancora raggiunto, per l’ordinamento, la piena capacità d’intendere e di volere, con l’inabilitazione si dichiara, invece, giudizialmente lo stato di «ridotta capacità di agire della persona maggiorenne che, per le sue condizioni mentali o fisiche, non è pienamente in grado di curare i propri interessi economici». Gli atti dell’inabilitato, così come quelli dell’emancipato, possono essere annullati se compiuti senza le prescritte formalità: anche in questo caso non si richiede l’esistenza di alcun pregiudizio derivante dall’atto all’incapace dichiarato.
Appare evidente come, fatta eccezione per l’amministrazione di sostegno, il legislatore dell’incapacità operi una sorta di «standardizzazione» dell’incapacità o, meglio, delle potenzialità dell’incapace che non riflette il concetto scientifico per il quale «la coscienza e la consapevolezza vanno intese dal punto di vista neuroscientifico, non come una componente statica, ma si inseriscono nel contesto dell’interazione tra funzionamento cognitivo, risposte psicologiche e psicofisiologiche individuali, influenze socio-ambientali e culturali».
Così, in relazione al minore, ci troviamo di fronte ad una condizione di transizione verso l’età adulta caratterizzata da fasce di età a cui corrispondono, in archi temporali limitati, maturità e capacità differenti che variano non solo in funzione dell’età ma anche del sesso. La fase adolescenziale, ad esempio, presenta tratti e periodi differenti a seconda che si tratti di maschi o di femmine; ancora, mentre non sembrano esistere differenze apprezzabili, quanto a maturità, tra un diciottenne e un diciassettenne, notevole, invece, può essere la diversità di un solo anno in una fascia di età più bassa. Tale differenza non esiste, né potrebbe esistere, per l’ordinamento giuridico che non può delineare, in via generale ed astratta, tante capacità quante sono le fasi della maturità. Per l’ordinamento giuridico un ragazzo di diciotto anni raggiunge piena maturità poiché diviene capace di agire; «per la scienza, invece, le facoltà cognitive non si perfezionano al compimento della maggiore età, ma sono ancora in fase di sviluppo e maturazione insieme alle competenze sociali e affettive e alle caratteristiche personologiche, almeno fino ai 20 anni di età (…). Partendo da questo assunto, la valutazione del giovane adulto dovrebbe tener conto di questo importante e oggettivo dato scientifico».
In quanto maggiorenne, il soggetto, anche se diciottenne, ha l’idoneità ad autoregolamentare i propri interessi, quindi capacità decisionali che si traducono in atti giuridicamente validi.
La prospettiva neuroscientifica ci mostra una valutazione della capacità decisionale, attraverso strumenti di indagine neuropsicologica volti a verificare le seguenti funzioni cognitive: a) attenzione, b) memoria, c) funzioni esecutive, d) linguaggio, e) abilità visuo- spaziali. In ogni caso, la valutazione della capacità, in tutte le sue sfaccettature, deve implicare un approccio multidimensionale di tipo neuropsicofisiologico. In tale itinerario la valutazione della capacità segue l’articolato percorso della raccolta di informazioni relative alla storia personale del paziente, della somministrazione di test psicovalutativi, dell’apprezzamento delle singole e specifiche capacità e dell’interpretazione dei risultati.
È di immediata percezione il divario, di percorsi e misure, tra realtà giuridica e prospettiva neuroscientifica, dislivello che si traduce nella rigidità del binomio giuridico capacità/incapacità.
A ben riflettere, però, il divario è meno profondo di quello che sembra e proprio nella disciplina del contratto del minore troviamo un’indicazione per la costruzione di un percorso atto a ridurre il distacco ed integrare il sistema. Il contratto del minore è valido se egli ha occultato con artifizi e raggiri la minore età; l’apprezzamento dell’artifizio e del raggiro altro non è che una valutazione della capacità di discernimento, che nella maggior parte dei casi i minori possiedono, come la prassi evidenzia. Sono di tutta evidenza, ed appartengono oramai all’esperienza comune, gli esempi di acquisti conclusi dai minori in via telematica, utilizzando il computer e la rete, che possono andare da cifre modifiche a cifre (relativamente) consistenti e la cui invalidità è subordinata alla dimostrazione anche di requisiti che concorrono tutti alla dimostrazione dell’assenza (o presenza) della capacità di comprendere la portata economica dell’atto posto in essere.
La standardizzazione operata dal legislatore con l’incapacità legale del minore non rende, almeno nel campo della invalidità del contratto, rappresentazione fedele della realtà della minorità (che va da zero a diciotto anni): altro è, ad es., l’acquisto posto in essere da un ragazzo la cui fascia di età si collochi tra i dieci e i tredici anni, altro è l’acquisto posto in essere da un ragazzo che abbia invece un’età compresa tra i sedici e i diciotto anni. Proprio i risultati degli studi e delle ricerche neuroscientifiche possono dare utili indicazioni per l’elaborazione di modelli più aderenti alla realtà ed idonei a «porre fine alla discordanza tra quanto sancito nelle norme e ciò che si verifica nella prassi».
Con l’amministrazione di sostegno la distanza tra scienza e diritto, piano biologico (livello cognitivo) e piano giuridico (limitata capacità del beneficiario), uomo e persona, è sicuramente minore e la saldatura tra sistema biologico e sistema giuridico è più solida e mostra meno evidente il segno della demarcazione.
L’ordinamento giuridico disegna, dunque, il sistema dell’incapacità legale sia assoluta sia relativa ed esprime, così, istituti volti a tutelare essenzialmente l’incapace, e ciò sia in una fase preventiva, attraverso i meccanismi di prote­zione di cui si è detto, sia in un momento successivo, con la di­sciplina dell’invalidità degli atti compiuti dall’incapace, annulla­bili senza la necessità che siano produttivi di effetti dannosi.
Principi differenti operano in materia di incapacità naturale dove il parallelismo tra neuroscienze e diritto sembra davvero scomparire fino ad arrivare al punto di convergenza.

6. L’incapacità naturale: la disciplina codicistica

In materia di incapacità naturale, il sistema di protezione degli incapaci che il dato positivo ci consente di ricostruire assume una posizione autonoma e del tutto peculiare con caratteristiche sue proprie e affatto differenti dall’incapacità legale, anche nella più ampia diversificazione che la legge istitutiva dell’amministrazione di sostegno (L. 9 gennaio 2004, n. 6) ha realizzato. La norma fondamentale e caratterizzante resta tuttora l’art. 428 c.c. che non ha subito modifiche e che subordina l’annullabilità degli atti e dei contratti dell’incapace naturale alla sussistenza del grave pregiudizio per l’incapace e della concorrente malafede dell’altro contraente; la disposizione, nella formulazione che il testo definitivo del codice civile del 1942 ci ha consegnato, ha segnato in materia di incapacità naturale il punto di evoluzione dell’impianto normativo attuale rispetto a quello previgente. La scelta normativa è indicativa di un sistema giuridico più evoluto che accoglie al suo interno quell’ampia zona che ricomprende situazioni mentali abnormi, dovute ad es. ad alcoolismo, uso di sostanze stupefacenti, deficienze o infermità mentali non abituali che consentono, comunque, stati di lucidità, condizioni di disagio e fragilità mentali che la mutata sensibilità contemporanea ritiene comunque rilevanti ai fini della tutela.
La dialettica tra dottrina e giurisprudenza sul problematico rapporto tra il primo e il secondo comma è indice di una visione economicistica del problema.
L’orientamento della giuri­sprudenza prevalente individua nel dettato dell’art. 428 c.c. due ipotesi differenti e tra loro distinte. Tale posizione trova ampio riscontro in dottrina. Si sostiene, così, che il principio dettato dal primo comma vada riferito esclusivamente agli atti e non ai contratti e che, pertanto, in relazione a questi ultimi l’incapacità di intendere o volere divenga rilevante se ac­compagnata dalla malafede che può, ma solo in via eventuale, risul­tare dal pregiudizio derivato all’incapace non dichiarato, così come può desumersi dalla natura del contratto o altrimenti . Con il primo ed il secondo comma, inoltre, si tutelerebbero interessi diversi e, preci­samente, l’integrità del patrimonio dell’infermo di mente, per ciò che concerne la disciplina dei negozi unilaterali, e la buona fede del terzo nei contratti sicché il grave pregiudizio sarebbe condizione necessaria per l’annullamento dei soli atti unilaterali, dove l’esigenza di tutelare l’affidamento è debole, e non dei contratti, richiedendosi, invece, per questi ultimi, la ma­lafede dell’altro contraente; tale conclusione troverebbe conforto nel tenore letterale della norma che al secondo comma menziona il pregiudizio unicamente come uno degli indici sintomatici della malafede dell’altro contraente.
La contrapposta opinione che individua nel grave pregiudizio per l’incapace un requisito essenziale per l’annullamento anche dei con­tratti e non solo, quindi, degli atti unilaterali, muove da una con­siderazione unitaria della norma e degli interessi ad essa sottesi. Il primo comma dell’art. 428 c.c. esprimerebbe un principio generale, di per se stesso idoneo a disciplinare tutta l’attività giuridicamente rilevante dell’incapace, ma non sufficiente a garantire la tutela dell’altrui affidamento; quest’ultima esigenza verrebbe soddisfatta dalla enunciazione del secondo comma per la quale accanto al pregiudizio si richiede il requi­sito della malafede della controparte, limite, quest’ultimo, all’impugna­tiva posto a tutela dell’altrui affidamento. L’incapace naturale, dunque, verrebbe tutelato solo tamquam laesus costituendo – si è sostenuto – il pregiudizio «la ratio della sanzione di an­nullamento», l’elemento «che consente di verificare una ragione obiettivamente grave che mini profondamente il contenuto dell’atto di autonomia della parte».
Sulla sussistenza del grave pre­giudizio rilevante unitamente alla malafede ai fini dell’annullamen­to del contratto si consolida, dunque, la dottrina che inter­preta il secondo comma dell’art. 428 c.c. come una specificazione del primo e conclude per il cumulo dei due requisiti ai fini dell’annullamento.
La dialettica prospettazione del dubbio interpretativo posto dal rapporto tra il primo e il secondo comma dell’art. 428 c.c. è indicativa di una prospettiva esclusivamente economicistica del problema, alla quale anche chi scrive aveva aderito, che va mutata, perché lontana dai principi costituzionali di tutela della persona; l’art. 428 c.c. necessita, oggi, di una rilettura costituzionalmente orientata, come già proponeva la dottrina che, nell’accogliere la tesi della sufficienza della sola malafede ai fini dell’annullamento anche dei contratti, argomentava come tale soluzione fondasse le basi sul necessario raccordo di questa disposizione con i «valori interferenti» che sono, nella specie, l’art. 32 della Costituzione ed il principio di eguaglianza sostanziale sancito dall’art. 3 cost., entrambi attuativi del più generale dettato costituzionale della solidarietà sociale (art. 2 Cost.).
Quando la norma è nata non c’era ancora la Costituzione, ma la Costituzione era già vigente quando il nostro legislatore, con la legge sull’amministrazione di sostegno, ha rivisitato il titolo XII del libro I del codice non mostrando sensibilità in tal senso: la l. n. 9/ 2004, ha inserito nell’intitolazione del Capo II, Titolo XII, libro I del cod. civ., la locuzione incapacità naturale, integrando l’originaria formulazione ma lasciando invariato l’art. 428 c.c.; si è persa, con ciò, l’occasione di riscrivere la norma alla luce dell’art. 2 cost..
L’incapace è persona, soggetto debole, prima di essere parte contrattuale e il termine incapace nel contesto della disposizione normativa di cui all’art. 428 c.c. non esprime l’essenza del fenomeno della debolezza del soggetto, della sua impossibilità, per diversificate limitazioni psico-fisiche, di partecipare in condizioni di eguaglianza sostanziale alla vita sociale, di svolgere, in condizioni di parità, tutte quelle situazioni soggettive attive che l’ordinamento gli riconosce nelle forme di interesse protetto.
La protezione dell’incapace, del soggetto debole, è pilastro della tutela della persona, nerbo e costrutto fondamentale della categoria dell’essere, ma non sempre è supportata da adeguati strumenti normativi: le neuroscienze cognitive possono fornire contributi fondamentali per la rielaborazione di regole giuridiche che siano reali strumenti di tutela per l’incapace naturale.

7. Lo stato di incapacità naturale: un possibile punto di convergenza

Proprio l’art. 428 rappresenta l’occasione, per la giurisprudenza, per l’affermazione di concetti la cui sistemazione potrebbe avvalersi del contributo, importantissimo, delle neuroscienze cognitive. Così, ad es., e in tema di definizione dello stato di incapacità naturale, emerge che la possibile transitorietà dello stato psichico rappresenta l’elemento costante della definizione di incapacità naturale e, al contempo, il carattere che consente di distinguere l’incapacità na­turale da quella che può dar luogo ad interdizione dove, invece, tale condizione, come emerge dal dato testuale dell’art. 414 c.c., deve avere il requisito dell’abitualità. Più sfumata, invece, sotto il profilo del fatto, la differenza con la situazione psico-fisica che può dar luogo ad amministrazione di sostegno.
L’aggettivo compare anche nella relazione al codice ove si legge che il grado di intensità del vizio di mente «deve essere di tale gravità da togliere la capacità d’intendere e di volere, qualunque ne sia la causa, anche cioè se di carattere transitorio».
La giurisprudenza, utilizzando come sinonimi­che le locuzioni «incapacità di intendere o volere» e «incapacità naturale» ha esplicitato tale condizione come uno stato psichico ab­norme, pur se improvviso e transitorio e non dovuto ad una tipica infermità mentale, che abolisca o scemi notevolmente le facoltà intellettive o volitive, in modo da impedire od ostacolare una seria valutazione degli atti stessi o la formazione di una volontà cosciente, facendo quindi venire meno la capacità di piena autodeterminazione del soggetto e la completa consapevolezza in ordine all’atto che sta per compiere ma non necessariamente tale da annullare le facoltà psichiche del soggetto. È questo l’orientamento attuale, pur con qualche oscillazione dovuta certamente alla natura dell’atto impugnato.
L’ampia gamma di situazioni riconducibili alla nozione di incapacità naturale evidenzia come l’art. 428 c.c. sottintenda una nozione di incapacità più ampia di quella tradizionalmente accolta come incapacità legale. Questa medesima circostanza, per la quale una vasta e diversificata pluralità di situazioni può essere ricompresa nell’ampia dizione della norma, ha indotto parte della dottrina ad interrogarsi sulla portata dell’espressione «incapacità di intendere o volere» e ad orientarsi per un’interpretazione, se non restrittiva, quantomeno limitativa della stessa e riconducibile, sostanzialmente, alle ipotesi di inidoneità all’apprezzamento della portata dell’atto ma non tale da coincidere con l’assenza di un contenuto minimo di volontà. Ulteriore interrogativo che ha caratterizzato il dibattito della dottrina sul punto è quello relativo al valore della disgiuntiva «o» che, nella dizione dell’art. 428 c.c., sembra separare la capacità di intendere da quella di volere. Il rilievo comune per il quale l’incapacità di intendere e di vo­lere, che esprime una situazione del soggetto di incapacità «ad intendere l’importanza e la portata dell’atto e delle sue conseguenze, ed a volere l’atto ed il risultato pratico conseguibile con lo stes­so», può essere dovuta a cause transitorie che non giustifiche­rebbero la perdita della capacità d’agire, si arricchisce di ulteriori connotazioni relative alla sua funzione non solo, secondo alcuni, «viziante, ostativa della volontà» ma tale da determi­nare anomalie nella dichiarazione, come, ad esempio, nel caso di ipnosi o sonnambulismo.
L’osservazione per la quale, comunque, la volontà non può supplire alla menomazione dell’intelligenza e la mancanza di volontà impedisce al soggetto, anche se intelligente, una libera determinazione ha indotto la dottrina a ritenere irrilevante sul piano dell’art. 428 c.c. la distinzione ed a reputare sufficiente, ai fini dell’annullamento dell’atto, che una sola delle due capacità sia menomata, dal momento che entrambe le incapacità, sia singolarmente sia unitamente considerate, non consentono al soggetto di «gerire da sé i propri interessi»; la distinzione, comunque, troverebbe una sua ra­gione d’essere nelle situazioni che, in concreto, possono determi­narsi: nelle tossicodipendenze, ad esempio, alla capacità di inten­dere non corrisponde una parallela capacità di determinarsi all’azione. La giurisprudenza utilizza indifferentemente le due congiunzioni (e/o); le neuroscienze possono dirci se tale impiego indifferenziato sia corretto o meno poiché operano sul piano concreto delle tecniche individualizzate di tutela e non su quello astratto delle categorizzazioni. All’irrilevanza giuridica della distinzione corrisponde una significativa rilevanza della differenza tra capacità di intendere e capacità di volere sotto il profilo cognitivo/decisionale. E l’approccio neuroscientifico è differente.
Studi di neuroscienze cognitive, infatti, fanno emergere il ruolo della sfera affettiva che interagisce con quella della ragione componendo il dialogo tra emotività e razionalità, fondamentale nel processo cognitivo.
Il riconoscimento del ruolo delle emozioni nell’ambito di un percorso raziocinante, e la loro interazione con il pensiero razionale, con il ragionamento, non può essere ignorato dal giurista, interprete o studioso.
Così, la differenza tra la sfera cognitiva e quella volitiva, che in termine giuridici si esprime con la locuzione capacità d’intendere e/o volere – e la cui distinzione è irrilevante sotto il profilo giuridico sicché (in)capacità/ di intendere e/o volere altro non appare essere che un’endiadi – diviene rilevante se riguardata alla luce dei risultati delle neuroscienze cognitive. In molti studi che si occupano del tema e del ruolo delle emozioni nei processi decisionali, sotto diversi profili e con differenti implicazioni, si descrivono i risultati di importanti ricerche ed esperimenti in campo neuroscientifico che hanno dimostrato come ad una perfetta ed integra capacità intellettiva (capacità d’intendere) si correli, talora, una assoluta incapacità di decidere (quindi capacità di volere); tra i casi di studio più noti, vi è il caso Elliot. Il sig. Elliot era affetto da grave patologia tumorale alla corteccia prefrontale e prima di essere sottoposto all’operazione neurochirurgica per la rimozione della lesione fu sottoposto a test cognitivi per stabilire l’integrità delle funzioni cognitive che risultarono integre, sia prima che dopo l’intervento. A seguito dell’intervento, però, e pur avendo mantenuto intatte le capacità intellettive, di attenzione e di memoria, Elliot aveva perso la capacità di provare emozioni; il che ebbe conseguenze rilevanti sotto il profilo economico poiché la mancanza di emozioni, tra le quali il timore di perdere del denaro, lo rendeva indifferente al rischio economico inducendolo a fare investimenti molto rischiosi: era, quindi, capace di volere ma non d’intendere; così, e per esemplificare con riferimento al contratto, pur avendo Elliot la capacità di volere il contratto che si apprestava a concludere non aveva la capacità di valutarne le conseguenze economiche. Esperimenti successivi volti ad evidenziare il ruolo delle emozioni nella decisione razionale mostrarono come soggetti sani sotto il profilo cerebrale (che non avevano subito alcun danno), sottoposti ad esperimenti finalizzati ad individuare e misurare la propensione al rischio nel gioco delle carte, manifestavano comunque, dopo alcuni minuti di gioco e senza l’acquisizione di informazioni ulteriori ma in maniera del tutto esperienziale, un’autonoma capacità di apprezzare la maggiore o minore rischiosità della scelta di una carta. Test simili furono riproposti a soggetti che avevano subito la compromissione della sfera emotiva, dovuta a danni cerebrali nella corteccia prefrontale ventromediale, coinvolta nell’elaborazione del rischio e della paura, e rivelarono che tali soggetti, pur particolarmente intelligenti, sceglievano le carte in maniera totalmente casuale, con indifferenza rispetto alle conseguenze della scelta, dimostrandosi, così, incapaci di decidere. La ricerca, condotta per un ventennio, ha consegnato alla conoscenza un differente ruolo delle emozioni e dei sentimenti che non restano confinate nella sfera del sentire ma sono strumento del capire: le emozioni, dunque, assolvono a una funzione cognitiva insostituibile. La comprensione, pertanto, unita all’emotività determina scelte consapevoli e conseguenti.
Il Memorandum Patavino spiega che a «livello cognitivo, la capacità di agire presuppone che il soggetto abbia capacità decisionale, ciò significa che egli: (I) sia in grado di comprendere, ovvero ritenere, le informazioni a disposizione per poter compiere la scelta; (II) sia in grado di articolare un ragionamento di pro e contro su tale informazione; (III) sia in grado di valutare tale informazione in relazione al suo caso specifico; (IV) sia in grado di esprimere una scelta consapevole».

8. Riflessioni conclusive

La riproposizione delle nozioni sopra esposte, in tema di capacità d’agire, capacità e incapacità naturale, esplicita l’orientamento tradizionale del giurista; l’approccio neuroscientifico può fornire all’interprete una visione più ampia. Mettere in discussione il modello tradizionale dell’uomo razionale può contribuire, paradossalmente, a creare un sistema più razionale, perché più efficiente, che consenta, con nuovi strumenti sofisticati e complessi che richiedono conoscenze e tecniche specialistiche, una tutela sempre più elevata, dell’uomo nella sua complessità.
Così, per tornare al tema della capacità del minore, alla domanda «quando un minorenne diventa effettivamente responsabile delle proprie azioni? Quando acquista la capacità di discernimento?» sembra opportuno rispondere che una corretta impostazione della risposta richiede una preventiva definizione del «quando» ciò accade «neuropsicologicamente» e che cosa debba intendersi per maturità e responsabilità, per capacità d’intendere e di volere.
Ciò agevola sicuramente il passaggio dal diritto alla persona:

«tramontata la visione tradizionale degli status; ridefinita dal progresso medico la nozione di capacità giuridica, l’uomo, svestito della diversità che gli deriva dall’appartenenza ad una determinata categoria, si presenta al cospetto del diritto e ne rivendica la protezione. Ed il diritto, in questa dimensione che non conosce divisioni di razza, di sesso, di cittadinanza, di opinioni politiche, culturali, religiose, indugia e si sofferma sull’emergere delle sue “condizioni personali e sociali” in quanto momenti ineludibili di una tutela che possa e debba dirsi efficace (…). Lungo le coordinate della dignità umana, del libero sviluppo della personalità, del principio di eguaglianza, si svolge così la tutela di chi è debole, svantaggiato, minore, anziano, morente, malato, povero, consumatore (…). Ma è proprio un simile atteggiamento a conferire al diritto quella duttilità che gli consente, da un lato, di rispondere alle istanze di protezione dei “nuovi deboli”; dall’altro di ripensare incessantemente la tutela di quelli tradizionali (…). Se “la persona identifica l’uomo che è, che esiste giuridicamente”, il legislatore non può che seguirne la continua evoluzione (…). Dal diritto, dunque, alla persona».

Dalla persona al «sistema uomo», aggiungiamo noi, sistema, cioè come dimensione globale e totalizzante il cui studio richiede un approccio integrato tra discipline che hanno un comune denominatore: l’uomo e la qualità della sua vita.

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