“Misericordia e pensiero. Un percorso nella filosofia contemporanea” di Giuseppe Fidelibus

«Non c’è ideale cui possiamo sacrificarci, perché noi, che non sappiamo affatto che cosa è la verità, conosciamo le menzogne di tutti gli ideali». Così A. Malraux sintetizzava la tentazione dell’Occidente nell’omonima opera del 1926. Ma quella che appariva allora una semplice tentazione, si è resa poi stanchezza e debolezza, quindi scetticismo oscillante tra nihilismo e relativismo. La postmodernità apre così il terzo millennio come forma del pensare ingenerata dall’annunciata «morte di Dio» (Nietzsche) e dalla «liquefazione baumaniana della modernità». Può – così – facilmente suonare come sfida ironica l’inattualità di un «Anno della Misericordia» al cospetto di un pensiero che voglia far valere ancora il suo potenziale critico, quel potenziale critico in cui risiede il massimo contributo di Kant allo strutturarsi della filosofia moderna. Ogni apporto critico dovrà evidentemente trovare verifica nella sua capacità di dare ragione di ogni sacrificio richiesto ed in quella di motivare la conoscenza in termini di verità. Brachilogicamente: in termini di pensiero, di quel pensiero che s’applichi alla condizione dell’uomo contemporaneo.

  1. Quale messa in questione?

«Ci vuole il senno per la misericordia». Il grido di Solženicyn proviene direttamente da quei luoghi aberranti dove sacrifici umani si sono consumati in nome di «idee assassine» ed in modo da scoraggiare l’uomo quanto ad ogni impresa ideale: ove la conoscenza si è trovata armata di menzogna, alimentando ideologicamente solo la prassi degli apparati di una potenza disperata – quella dei lager nazisti come dei gulag comunisti. Debilitazione del pensiero e potere disumanizzante. Risuona perciò pertinente la parola spesa dai due Pontefici odierni per descrivere ogni patologia riversatasi sull’uomo odierno: ferita, l’uomo si sorprende esistenzialmente ferito. In una recente intervista Benedetto XVI ha osservato che: «Sotto la patina della sua sicurezza di sé e della propria giustizia l’uomo di oggi nasconde una profonda conoscenza delle sue ferite e della sua indegnità di fronte a Dio. Egli è in attesa della misericordia» – non di una semplice amnistia – della misericordia, come nella parabola del Buon Samaritano. E ancora Papa Francesco, nel suo recente libro-intervista gli fa eco: «è un’umanità ferita, un’umanità che porta ferite profonde: Non sa come curarle o crede che non sia proprio possibile curarle». Il giudizio di Malraux documenta ed attesta un simile stato di cose; ancora una volta l’uomo, quanto a misericordia, «non sa»; dunque ci vuole il senno non per l’amnistia ma – per la misericordia.

Il presente percorso – senza alcuna pretesa di esaustività né storiografica né tanto meno teoretica – vuole enucleare semplicemente alcune delle più acute esemplificazioni di un tale stato di cose (e sue implicazioni) dalla filosofia degli ultimi secoli al fine di trarne contributi utili ad un approccio criticamente assennato al tema della misericordia. Recepiamo così l’indizione di questo Anno santo come un invito a non ridurre la proposta ad un ennesimo proclama religioso o «chiamata alle armi» per il popolo delle devozioni o delle superstizioni di massa. Pescheremo, pertanto, tre esempi – di diversa connotazione filosofica – di tentativi della ragione per corazzarsi speculativamente e di immunizzarsi esistenzialmente dal rischio di essere, per così dire, «intaccata» dalla azione della misericordia. Contro ogni approccio ideologico-apologetico cercheremo, metodologicamente, proprio nei meandri di questi tentativi di corazzamento e d’immunizzazione le ragioni più attendibili che, più sensibilmente, urgono e richiamano – clamorosamente e dall’interno – la pertinenza della misericordia all’economia stessa dell’esperienza che l’ha avversata. Contiamo proprio così di pervenire ad un qualche acclaramento dei significati della misericordia che ne rendono più viva e pertinente l’attualità al cospetto del pensiero dal cui terreno s’è vista rifiutata. È un modo, questo, per tentare di tesaurizzare intellettualmente la dichiarazione d’apertura di A. Malraux come la sentenza di Solženicyn dal mondo concentrazionario, filiazione diretta del dominio impietoso dell’ideologia; in una parola: la saturazione da amnistie per ideali di cui è esperita la menzogna attende forse una misericordia apportatrice di senno? Se sì, a quali condizioni di pensiero? E potrà forse essere adempiuta una tale attesa senza una qualche riconciliazione – ragionevolmente piena ed affidabile – col vero?…

Con ogni probabilità – ed in positivo – si tratta di rinvenire le ragioni della misericordia come riscossa dalla modernità, dall’interno di essa e delle sue stesse istanze: dunque come riscossa della modernità medesima dalle sue proprie, profonde ferite.

C’è da premettere storicamente che essa s’inaugura sotto un cielo teologico che, alla fine del Medioevo, movimenti ereticali e Riforma provvedono a popolare di proposizioni miranti a superare l’unione tra Dio e mondo, tra Dio e uomo realizzata nell’incarnazione di Cristo, essenza stessa dell’annuncio cristiano custodito per via di una millenaria tradizione. Dinanzi all’alternativa – o negare il mondo o negare Dio – l’opzione prevalente in quei movimenti è stata la prima, rimanendo criticamente inevasa la questione del nesso stesso tra mondo e Dio. Il regime di alternativa tra i due poli determina, all’alba della modernità, il contesto teoretico-normativo in cui s’applica la razionalità filosofica. D’ora in poi la cifra propria di ogni ateismo non risiede tanto nella negazione, in via di diritto, dell’esistenza di Dio bensì in quella del suo nesso col mondo e, reciprocamente del mondo con Dio. Persino il Dio creduto coinciderà con quello del teismo prevalente tra il XVII e XVIII secolo, residuo teologico della sua piena ricomprensione naturalistica nei connotati metafisici del mondo. Sta di fatto che la filosofia imbocca l’altro corno dell’alternativa: negare Dio ricomprendendolo nelle dimensioni intramondane, cosicché teismo ed ateismo vengono a trovarsi come duplice forma del medesimo principio. L’alternativa permane, così, teoreticamente non rimossa, anzi confermata e diffusa, unitamente alla generale espansione delle istanze teologiche della Riforma protestante. Le sorti «negative» della misericordia nel pensiero filosofico moderno corrono, come condizione, sul filo della tenuta di questo regime d’alternativa tra Dio e mondo, tra uomo e Dio.

Procediamo ora, nella nostra ricognizione, attraverso tre tappe che giudichiamo teoreticamente più rilevanti e paradigmatiche.

  1. K. Marx: tra «corazzamento» metafisico e «ferite» antropologiche

«Quante più cose l’uomo trasferisce in Dio, tanto meno egli ne ritiene in se stesso». In analogia al fenomeno di estraniazione che si verifica nel lavoro, Marx, nei Manoscritti economico-filosofici del 1884, dispone così la sua critica alla religione. Egli rivendica (sulla scia di Feuerbach) lo stesso regime d’alternativa tra uomo e Dio, mirando alla destituzione di senso di ogni ateismo: l’uomo deve riappropriarsi, per via naturalistica, di ciò che egli stesso ha alienato in Dio. L’istanza antropologica è, ancora una volta, alternativa a quella teologica. La condizione è che questa perda di senso a vantaggio di quella: «Un essere si considera indipendente soltanto quando è padrone di sé, ed è padrone di sé soltanto quando è debitore a se stesso della propria esistenza (…) Io vivo completamente della grazia altrui quando sono debitore verso l’altro non soltanto del sostentamento della mia vita, ma anche quando questi ha oltre a ciò creato la mia vita; e la mia vita ha necessariamente un tale fondamento fuori di sé, quando non è la mia propria creazione». Marx annovera dunque la creazione tra i pregiudizi più difficili da sradicare dalla coscienza del popolo a motivo della difficoltà a concepire «che la natura e l’uomo possano esistere per opera propria». L’autoreferenzialità marxiana di natura e uomo a se stessi – esistere per opera propria – costituisce il baluardo ontologico-metafisico, di principio ad ogni relazione costitutiva tra Dio e uomo/mondo. È la destituzione di senso di ogni «fondamento» del mondo dell’uomo che abbia ontologicamente luogo «fuori di sé»: la radicale negazione di ogni possibile «altro». La preclusione alla misericordia ha questa radice metafisica su cui Marx edifica la sua stessa concezione rivoluzionaria: l’essere del mondo e dell’uomo sono opera degli stessi. Questa destituzione (negazione/preclusione) – si direbbe – è epistemicamente preminente tanto da precedere anche l’opzione atea: significa postulare l’impossibilità dell’altro alla radice della vita dell’uomo e della natura, ovvero dell’uomo come natura. Ciò indicherebbe la radice stessa del pensiero con evidenti ricadute gnoseologiche ed antropologiche: «Quando tu poni la domanda intorno alla creazione della natura e dell’uomo, fai astrazione dall’uomo e dalla natura. Tu li poni come non esistenti (…) Ed io ora ti dico: se rinunci alla tua astrazione, devi rinunciare pure alla tua domanda (…) e se pensi l’uomo e la natura come non esistenti, allora pensa come non esistente anche te stesso, perché tu stesso sei natura e uomo. Non pensare, non interrogarmi…». L’uomo nuovo socialista s’edifica su questo condizionante divieto di porre domande e di… «pensare» quanto al senso della natura e dell’uomo; per l’uomo socialista di Marx tale interrogativo è, in ultima analisi, una impossibilità pratica, un «non-senso». Così «è diventato praticamente improponibile il problema di un essere estraneo, di un essere superiore alla natura e all’uomo, dato che questo problema implica l’ammissione della inessenzialità della natura e dell’uomo. L’ateismo – conclude Marx – in quanto negazione di questa inessenzialità, non ha più alcun senso; infatti l’ateismo è, sì, una negazione di Dio e pone attraverso questa negazione l’esistenza dell’uomo, ma il socialismo in quanto tale non ha più bisogno di questa mediazione. Esso comincia dalla coscienza teoreticamente e praticamente sensibile dell’uomo e della natura nella loro essenzialità». Marx, si può dire, non pensa in termini di «rifiuto-della misericordia» in Dio ma lavora sulla sua perdita di senso nelluomo, laddove, cioè, si è visto da sempre annidarsene l’esigenza e porne la questione. L’operazione è sì metafisica ma in senso genuinamente antropologico-naturalistico. Teismo o ateismo?… un’alternativa filosoficamente priva di senso. Piuttosto – per dirla con Péguy – auto-teismo. Non ce n’è bisogno, non se ne vede la domanda, dunque non ha voce in capitolo: l’umano è marxianamente esperito senza neanche la questione di Dio, senza l’ombra dell’altro», senza l’esigenza della relazione, fuori dalla classica alternativa. Su ciò il padre del socialismo scientifico fa cadere un assoluto silenzio normativo: un silenzio teoretico non meno che pratico. La corazza di un tale silenzio investe anche la semplice ipotesi della «misericordia», ogni via antropologica per le sorti dell’amore. Ma è proprio nel nucleo centrale di questo corazzamento che Marx appunta la sua penna, lasciandovi una crepa antropologicamente evidente, un’ennesima riprova di quella «ferita profonda» di cui ha parlato Papa Francesco.

In una lettera alla sua donna (Jenny), del giugno1856, Marx scrive: «Io mi sento di nuovo un uomo, perché provo una grande passione, e la molteplicità in cui lo studio e la cultura moderna ci impigliano, e lo scetticismo con cui necessariamente siamo portati a criticare tutte le impressioni soggettive e oggettive, sono fatti apposta per renderci tutti piccoli e deboli e lamentosi e irresoluti. Ma l’amore non per l’uomo di Feuerbach, non per il metabolismo di Moleschott, non per il proletariato, bensì l’amore per l’amata, per te, fa dell’uomo nuovamente un uomo». Chi scrive si scopre evidentemente vittima di una cultura che egli stesso ha contribuito a creare e i cui elementi sono riconosciuti come fatti apposta per renderci tutti piccoli e deboli e lamentosi e irresoluti. Ciò ci restituisce la figura di un uomo filosofo che sotto la patina della sua sicurezza di sé e della propria giustizia… nasconde una profonda conoscenza delle sue ferite. Egli ritrova se stesso, al momento insieme al «senno», sotto l’azione di un grande amore: Ma l’amore non per l’uomo di Feuerbach, non per il metabolismo di Moleschott, non per il proletariato, bensì l’amore per l’amata, per te, fa dell’uomo nuovamente un uomo. Qui il silenzio imposto al pensiero per via analitica ritrova la sua parola per via di ragioni che attendono di essere riconosciute ed accolte nell’esperienza. È vero che non vi si parla di Dio ma è vero soprattutto che vi si parla di quel livello dell’esperienza del pensiero in ragione del quale si rende antropologicamente pertinente e ragionevolmente situabile la questione dell’altro, l’insorgere della possibilità stessa della relazione. Marx accusa su di sé l’insufficienza radicale, per la sua vita di uomo (l’amore non per l’uomo di Feuerbach…bensì l’amore per l’amata, per te), di quell’impianto di pensiero: l’esperienza dell’amore lo abilita ad un giudizio critico quanto a tutta la cultura moderna su cui esso è fatto poggiare. La constatazione della debilitazione dell’umano che si verifica sotto il suo regime di pensiero (renderci tutti piccoli e deboli e lamentosi e irresoluti) costituisce il primo passo per l’insinuarsi di un diverso, ulteriore orizzonte antropologico. Nel crogiolo dell’esperienza del pensiero la partita della possibilità stessa della misericordia si riapre in termini criticamente pertinenti al percorso maturato: quello che dalle premesse poteva essere ritenuto un «corpo estraneo» alla vita, ora  è intravisto alla radice del ritrovarsi, al cospetto di se stesso, «di nuovo un uomo». Qui l’uomo bisognoso, poiché mendicante d’amore, soppianta l’idea stessa dell’uomo socialista naturalisticamente autosufficiente. Ora, proprio nello spazio metafisico dell’autosufficienza – di uomo e natura – si fa largo il principio di un altro logos, quello dell’amore: è la logica della relazione personale, dell’essere come relazione, vale a dire il contesto nel quale si muove e vive la misericordia. Tutti sappiamo come questo principio non troverà sviluppi teoretici nel pensiero di Marx. Egli, di fatto, consegnerà i destini del suo «uomo nuovo» allo svolgimento storico delle leggi economiche legate al sistema capitalistico ed alle sue contraddizioni. Rimane così un divario che apre un’ulteriore alternativa epistemica: non più – e solo – quella tra Dio e uomo, tra Dio e mondo ma quella tra ragione ed esperienza. Marx, qui, esperisce qualcosa a cui la sua ragione rifiuta di sottomettersi, in nome di quella stessa autosufficienza ontologica che rimuove da sé il primo tra gli atti annoverabili nel registro della misericordia: il dono dell’essere dal/al nulla, cioè la creazione. È rilevante osservare come il padre del materialismo dialettico, per corazzare il suo «uomo nuovo», sia dovuto intervenire preliminarmente con armi di alta rilevanza metafisica. Ancora una volta, dunque: Ci vuole il senno non l’amnistia per la misericordia; il senno che nasce da una ragione disposta in relazione ricettiva ai campi benefici dell’esperienza. L’episodio della lettera alla sua donna rimarrà, in Marx più come una «amnistia» che come un atto di avveduta assennatezza. Vi si riaffaccia, tuttavia, come legittima e non più estranea, da un granitico occultamento speculativo, la possibilità stessa della relazione da/ad altro da sé, come spazio di scoperta di se stessi. Non estraneazione ma presenza: di qualcuno a se stessi e, reciprocamente, di sé a qualcuno. La ferita permane misteriosamente ma realmente benefica nel centro normativo dell’esercizio del pensiero.

  1. F. Nietzsche: la volontà di potenza tra risentimento metafisico ed istanza relazionale

F. Nietzsche nasce proprio nel 1844, l’anno in cui escono i Manoscritti economico-filosofici di K. Marx. Colui che s’è posto esplicitamente e dichiaratamente «al di là del bene e del male», il fustigatore delle morali plurisecolari, il consacratore nihilistico della «volontà di potenza» e della nascita del «Superuomo» è certamente colui dalla cui penna sono scaturiti gli strali più esplicitamente incandescenti contro la misericordia. «Ahimè – esclama interrogativamente stizzito nel suo Zarathustrachi mai sulla terra commise maggiori follie dei misericordiosi? E che cosa recò al mondo maggior danno che le follie dei misericordiosi? Guai – sentenzia subito dopo – a tutti coloro che amano e non sanno elevarsi al di sopra della loro compassione! Così mi disse il demonio: “Anche Dio ha il suo inferno: è il suo amore per gli uomini (…) Dio è morto; fu la sua compassione per gli uomini ad ucciderlo (…) Quelli che creano sono crudeli». Ritorna qui la denuncia del primo atto del Dio «misericordioso»: quella della creazione. L’istanza superomistica s’insedierà, a detta del profeta, solo a condizione di questo «inferno» in Dio e della «guarigione» dell’uomo da questa divina «follia» della misericordia: a patto cioè della morte di Dio, in Dio stesso in quanto creatore. L’alternativa – o l’uomo o Dio – s’impone radicalmente proprio a motivo della misericordia; Dio non è pienamente negato se non nella sua morte come misericordia, nello sradicamento, cioè, di questo suo «folle» atto originario. È questo l’inizio ed il compimento della volontà di potenza con cui s’insedia il superuomo: la dichiarazione di morte di Dio in Dio stesso, proprio ad opera della «sua» misericordia e della sua «compassione» per gli uomini. Questi non faranno davvero a meno di Dio se non immunizzandosi dalla sua compassione misericordiosa. Il paradiso dell’uomo nietzschiano potrà, dunque, sfolgorare solo sulle rovine di questo intrinseco «inferno» di Dio. La medesima logica denunciataria riaffiora anche nei testi de La gaia scienza contro i «benefattori compassionevoli»: «Dove stanno i tuoi grandi pericoli? – chiede il viandante protagonista – Nella compassione». Vorremmo tuttavia osservare subito che nella denuncia di Zarathustra, quanto alla misericordia di Dio, si dà per contrasto un’acquisizione teoreticamente interessante. Egli ci offre infatti un’identificazione sostanziale di Dio stesso con la sua misericordia. Per controfigura, il testo ci presenta, nel contenuto dell’accusa, un’identificazione normativa che però coglie nel segno: Dio è la sua misericordia e compassione per gli uomini e – solo/proprio in quanto tale – s’attira la condanna del profeta. Il genio di Nietzsche ci consegna così, seppure in forma negativa e come oggetto di condanna e rifiuto, quel che può dirsi il proprium del Dio cristiano. Egli – ancora ne La gaia scienza – vi associa, con analoga pertinenza quanto al contrariato giudizio, anche la persona di Cristo: «Se Dio voleva diventare un oggetto d’amore, avrebbe dovuto per prima cosa rinunciare a giudicare e alla giustizia: un giudice, foss’anche un giudice misericordioso, non è oggetto d’amore. Su questo punto la sensibilità del fondatore del cristianesimo non era abbastanza raffinata: era ebreo». Anche qui la sentenza di Nietzsche ci porta, per contrasto, nel nucleo stesso della pretesa cristiana: l’identificazione in Cristo di giustizia e misericordia. Essa è il portato metafisicamente e giuridicamente più connaturale all’annuncio dell’avvenuta unità nella sua persona tra la natura umana e quella divina. Infatti, solo ed esclusivamente nell’ambito normativo di una tale unità si può comprendere la correlazione tra giudizio ed amore, tra giustizia e misericordia. Ciò in imprevedibile risposta ad una richiesta che costituisce fattore di profezia retroattiva dello specifico portato cristiano – 1800 anni dopo! – ed espressa dallo stesso genio filosofico tedesco: «Non mi piace – leggiamo da Così parlò Zaratustrala vostra giustizia fredda e nell’occhio dei vostri giudici riluce sempre per me il boia con la sua spada gelida. Dite: dove si trova la giustizia che è amore e ha occhi per vedere? Inventatemi, dunque, l’amore che porta su di sé non solo tutte le pene, ma anche tutte le colpe». Proprio nel pieno presidio della volontà di potenza del superomismo nietzschiano s’apre un varco questa nostalgia invocativa che esige unità nel giudizio tra giustizia ed amore. L’istanza oblativa dell’«amore che porta su di sé pene e colpe introduce un logos ulteriore alla semplice volontà di potenza: essa induce a ripensare la possibilità stessa della relazione personale proprio nel nucleo teoretico di fondo che ne decreta l’impossibilità. Torna anche qui, come motivo ricorrente, il grido dal lager siberiano di Solzenicyn: Ci vuole il senno, per la misericordia. Il padre del nihilismo contemporaneo reclama, infatti, per sé l’urgenza invocativa di un’altra paternità di pensiero: dove si trova la giustizia che è amore…? (…)  inventatemi…l’amore che porta su di sé…anche tutte le colpe, espressioni che identificano il cuore della mossa misericordiosa dell’annuncio cristiano. La ferita si riapre coscientemente: «Un giorno – leggiamo ancora ne La gaia scienzail viandante sbatté una porta dietro di sé, si arrestò e pianse. Poi disse: “Questa inclinazione, questo impulso verso il vero e il reale, il non parvente, il certo come lo odio! Perché questo battitore fosco e impetuoso segue proprio me? Vorrei riposarmi, ma non me lo concede. Quante sono le cose che mi seducono all’indugio! Per me ovunque vi sono giardini d’Armida: e quindi sempre nuove lacerazioni e nuove amarezze del cuore. Devo muovere ancora in avanti il piede, questo stanco piede ferito: e poiché devo, ho spesso per le più belle cose che non mi seppero trattenere uno sguardo irato – giacché non mi seppero trattenere”». L’odio che prorompe in pianto, nell’esperienza del viandante, segnala alla volontà di potenza l’irrinunciabilità di un altro ordine di pensiero rispetto al quale essa si vede criticamente in-potente a disporne: «…poiché devo, ho…uno sguardo irato». Evidentemente – e per ammissione dello stesso autore – «questa inclinazione, questo impulso verso il vero e il reale, il non parvente, il certo…» potrà essere “odiato” ma resta pure, con ciò, criticamente irremovibile, formalmente intrascendibile. La lotta ingaggiata tra esso e i vari «giardini d’Armida» resta e lascia le sue tracce nelle “sempre nuove lacerazioni e nuove amarezze del cuore” nonché sul “piede, questo stanco piede ferito”». Ferito! Così – e proprio nel cuore pulsante dell’incipiente nihilismo filosofico di Nietzsche – possiamo ancora registrare la pertinenza di pensiero dell’acuta osservazione di Benedetto XVI: Sotto la patina della sua sicurezza di sé e della propria giustizia l’uomo di oggi nasconde una profonda conoscenza delle sue ferite e della sua indegnità di fronte a Dio. Egli è in attesa della misericordia. Il profilo antropologico che ci si staglia dinanzi è di un uomo insoddisfatto di sé ed aperto – seppure non accettato – ad altro legittimo orizzonte di significato. Non si tratta di un cedimento all’irrazionale bensì della scoperta di un ulteriore ordine normativo. Un tale profilo non può essere identificabile senza «questa inclinazione, questo impulso verso il vero e il reale, il non parvente, il certo…». La tensione tra questa esperienza elementare e quanto la volontà ha il potere di disporre riapre – con connotati davvero drammatici – la «ferita» anche all’interno dell’aspirante superuomo: proprio quella ferita che può disporne la libertà in ricettiva attesa della misericordia. V’è un nucleo ultimo, residuo nel cuore della volontà di potenza che si sottrae al suo arbitrio di potere e resiste a lasciarsi disporre da esso. Non deve altresì sfuggirci un’altra nota rilevante che ci lascia il viandante della gaia scienza: «…questo battitore fosco e impetuoso segue proprio me? Vorrei riposarmi, ma non me lo concede». Il «me» è connotato dall’autore con un eloquente corsivo. Egli resiste nel non seguirla ma quell’attesa «segue proprio me». Il suo stesso cammino trova forza personale in questo essere «perseguitato» da «questo impulso verso il vero e il reale, il non parvente». Egli viene colto e sorpreso alla radice, nel vivo del suo sé personale: non è generico, né vagamente indeterminato ma indovina e identifica il volto personale della volontà in cammino, «proprio me». È così prefigurata l’economia stessa della misericordia: la facoltà del volersi instaurare propriamente all’origine del gioco stesso del risentimento, nell’ordine irriducibile, individuale della volontà di potenza, attendendo da essa l’atto di un incondizionato riconoscimento. Una tale economia potrà profilarsi solo in quanto appello convocante della personalità insostituibile dell’io all’avvenimento di un rapporto. Con ciò veniamo a sapere qualcosa di particolarmente prezioso per stare seriamente di fronte alla situazione dell’uomo contemporaneo: la questione della misericordia non è appena una questione di religione bensì una questione di pensiero, vale a dire di senso della realtà e dell’essere uomo, nell’irripetibilità del suo essere personale – «proprio me». Essa appartiene all’essenza stessa della «questione uomo» nel mondo e non è mai una partita chiusa una volta per tutte: tanto meno per via religiosa, pur nel senso delle religioni ritualmente e storicamente istituite. Rimane il fatto che, portata fino a questo punto, la questione tocca ed interpella radicalmente la possibilità stessa di parlare di Dio dentro un tale contesto – drammatico – di pensiero. Siamo resi altresì edotti quanto al fatto che, se questo è il contesto, ne deriva la necessità di rivedere criticamente anche la posizione delle religioni nel mondo contemporaneo. A che titolo – ci si può domandare – trovano motivo e diritto di cittadinanza le religioni in modo da essere ascoltate dall’uomo odierno, impegnato com’è in un siffatto dramma, che è sociale non meno che metafisico e personale? Quale ruolo può giocare oggi la misericordia in un’eventuale pretesa di Dio di farsi ragionevolmente ascoltare, a titolo umano, presso gli uomini? Nel dialogo con Marx e Nietzsche abbiamo appreso che questo ruolo è normativamente imprescindibile e non sostituibile con surrogati teologico-religiosi seppure spiritualmente nobili ed eticamente irreprensibili. Non basta «Dio» e neppure la constatazione riconosciuta della sua esistenza: occorre che essa si possa in qualche modo rintracciare e riconoscere presente nella tessitura propria dell’esperienza umana del mondo e di se stessa. Solo la sua esperibilità in presenza (storia) è degna del pensiero; se la misericordia costituisce la chance per cui Dio possa tornare a parlare storicamente e personalmente agli uomini, d’altro canto essa costituisce l’unico metodo efficace con cui questi potranno esperirlo come pertinente al mondo e tra di loro. Alla sua rinvenibilità nel mondo è, ancora una volta, sospesa la possibilità di passare da un regime di alternativa estraniante tra Dio e uomo/mondo ad uno che può dirsi di relazione identificante. Una tale inversione di moto nel pensare si presenta teoreticamente esigente poiché comporta alla ragione l’atto della sua sottomissione ai motivi legittimanti   dell’esperienza, un atto a cui – come già Marx –  Nietzsche stesso si è sottratto con risentimento «ferito».

Prima di verificare il terzo degli esempi da noi scelti dobbiamo intanto registrare, nella lezione offertaci dai primi due, un significativo riscontro storiografico: dopo aver le eresie rifiutato il mondo e l’uomo in nome di Dio, la razionalità filosofica ha giocato in essi la carta di rifiutare Dio in nome dell’uomo, (del mondo, della natura, ecc.). Ora, la complessità di questo tentativo giunge al suo estremo nell’esperienza di J.-P. Sartre. Questa non s’appunta sulla natura, né – genericamente – sull’uomo e neppure sulla volontà come radice dell’alternativa: essa muove dalla centralità (tutta moderna) della libertà.

  1. J.-P. Sartre: la libertà e quel «momento, durante la cattività»

I motivi di quello che abbiamo denominato, in Marx, «corazzamento» contro ogni forma di dipendenza ontologica di uomo e natura (v. creazione) e di quello che, in Nietzsche, abbiamo appreso come «risentimento» contro ogni forma di senso che non sia identificato con la volontà di potenza – Sartre li ri-assume concisamente nella sua «nausea» per il dato, per la realtà come luogo della presenza dell’essere. Nell’acuta descrizione fenomenologica che egli stesso ce ne dà nell’omonimo saggio, torna anche il marxiano «divieto di porre domande»: «Non si poteva neppure domandarsi da dove venisse ciò, tutto ciò, e come fosse accaduto che esistesse un mondo, piuttosto che il nulla… non c’era stato momento in cui non avrebbe potuto esistere. Proprio questo mi irritava: non c’era alcuna ragione perché esistesse, questa larva viscida. Ma non era possibile che non esistesse…E tuttavia “il sorriso degli alberi, del boschetto di lauri, voleva dire qualcosa… Si sarebbe detto dei pensieri…che restavano come questo, sballottati, con uno strano piccolo senso che li superava…E questo piccolo senso mi infastidiva…”. È il rifiuto del senso: “Sono partito”». Prima che per Dio, Sartre non nasconde la sua ira (mi irritava) per l’esistenza stessa della realtà fenomenologicamente data: essa gli comporta la questione del senso, E questo piccolo senso mi infastidiva…”. È il rifiuto del senso. Dire che per Sartre l’uomo è la sua libertà coincide col dire che questa coincide con tale «rifiuto». L’autore prende congedo dalla realtà («Sono partito») nel rifiuto nauseato del suo senso: vale a dire di quell’esperienza per cui la realtà reclama per sé l’attenzione ed il lavoro proprio del pensiero. Un’apostasia dal pensiero, questa, che è anche un’apostasia dall’essere della realtà – come dato – prima ancora che da Dio; tutta l’avvincente impresa filosofica di Sartre porta la traccia di questa apostasia che è anche l’inizio della pretesa costruzione di tutto ciò da cui ha apostatato: oltre la presenza dell’essere ed il senso del mondo l’intrapresa della libertà – «Io sono la mia libertà». D’altronde la misura di questa libertà risulta più in senso negativo che positivo: essa è data dalla facoltà di sottrarsi e negarsi storicamente e socialmente ad ogni rapporto e non da quella di aderirvi. Perciò l’affermazione che dà anche il titolo ad un’opera – L’esistenzialismo è un umanismo  assume inevitabilmente i tratti di questa negatività. Così l’esordio della «nausea» per la realtà esistente prosegue, con analoghi toni negativi (come nel caso di L’essere e il nulla), nel segno de «l’inferno sono gli altri». Questo percorso teoretico – di negazione della libertà alle cose ed agli altri (pur coi mutamenti sfumati che Sartre imprimerà a questo suo esistenzialismo umanistico) approda finalmente al suo termine estremo: «l’assenza di Dio non è una chiusura ; è apertura sull’infinito». Se vale l’inverso – la presenza di Dio è motivo di chiusura – si ha già la misura della peculiarità dell’ateismo sartriano (Sartre non si è mai esplicitamente dichiarato ateo): non la negazione di Dio bensì il suo sussistere, al massimo, in-assenza, come portato ultimo dell’infinita opera in progetto della libertà. Evidentemente la presenza di Dio – non appena la sua esistenza – costituisce un fenomeno ingombrante per tale progetto: la sua stessa affermazione potrà stare come termine di esso, come suo «prodotto». Il progetto infinito della libertà umana reclama per sé una misura totalizzante, perciò alternativa – ancora una volta – alla presenza, non all’esistenza di Dio. Questi sta per il tanto che si rende assente dalla storia, dal mondo, dagli uomini concreti: perciò è rifiutato come libera presenza di misericordia prima ancora che come esistenza. La solidarietà umana intramondana, quella socio-politica, immanente ai rapporti umani, ne è il suo sostituto storico come fattore esplicativo della libertà-progetto; di qui la centralità fondamentale del pensiero marxista nel secondo Sartre, dopo la guerra.

In questo decisivo spartiacque per la sua vita, non meno che per il suo pensiero, dobbiamo registrare un episodio che non ha mai smesso di far parlare di sé i più affinati studiosi del filosofo francese. In pieno campo di concentramento nazista, a Treviri nel 1940, Sartre si ritrova a fare i conti con la noia del campo ma anche con la compagnia di un gruppo di preti cattolici che gli chiedono amichevolmente di scrivere un componimento teatrale per i carcerati del campo in vista del Natale. Da scrittore provetto egli sfodera un copione in sette quadri sull’evento cristiano, mirabile nella sua puntuale fedeltà al contenuto di quell’annuncio: Bariona o il figlio del tuono è il suo titolo e verte sulla drammatica vicenda dell’omonimo rivoluzionario al tempo della nascita di Gesù a Betlemme. Sartre si riserva, eloquentemente, di recitare la parte di Baldassarre, uno dei tre Magi che contribuirà, sulla scena, alla sua «conversione».  Analogamente a quanto registrato nei primi due esempi, nel caso di Sartre l’esperienza che questo testo rappresenta, costituisce un unicum per il suo inedito contenuto che, anzi, ha trovato resistenze e prese di distanza nella produzione sartriana successiva. Essa sta tuttavia come l’ennesima ferita aperta nel vivo del pensiero dell’autore; quella del «figlio del tuono», nella notte di Natale, brucia ancora sotto i colpi dell’estremo atto della sua libertà al cospetto del popolo oppresso dal potere romano:

tutto è capitato sempre molto male e la più grande follia della terra, è la speranza (…) Ecco perché vi dico: bisogna cacciare dalle vostre anime la disperazione (…) richiudete i vostri cuori sulla vostra pena, chiudete forte, chiudete stretto perché la dignità dell’uomo è nella disperazione (…) pagheremo l’imposta affinché le nostre donne non soffrano. Ma il villaggio si seppellirà con le sue proprie mani. Non faremo più bambini (…) Non vogliamo più perpetuare la vita, né prolungare le sofferenze della nostra razza. Non genereremo più, consumeremo la nostra vita nella meditazione del male, dell’ingiustizia e della sofferenza.

Il personaggio di Sartre non poteva meglio incarnare e riattualizzare il messaggio iniziale del connazionale Malraux: «Non c’è ideale cui possiamo sacrificarci, perché noi, che non sappiamo affatto che cosa è la verità, conosciamo le menzogne di tutti gli ideali».

In Sartre il rifiuto della misericordia coincide con quello della speranza e della vita; al cospetto del popolo il protagonista della pièce dichiara eloquentemente il progetto negativo della sua libertà: «La cattiva volontà! Contro gli dei, contro gli uomini, contro il mondo, ho corazzato il mio cuore di una triplice corazza. Non chiederò grazia e non dirò grazie.  Non piegherò il ginocchio davanti a nessuno». Non è difficile percepire in queste espressioni una recrudescenza del «corazzamento» marxiano: se la dignità dell’uomo è nella disperazione, allora il rifiuto di ogni compassione e la legge di questa disperazione stanno nell’elaborare il risentimento contro ogni gratitudine. Qui il marxiano esistere per opera propria trapassa la nietzschiana volontà di potenza ergendosi, come libertà, in tutta la sua statura negativa; è motivo di autoconsistenza solo il negarsi ad ogni origine di gratitudine o di domanda. Ciò comporta il sottrarsi al rapporto con i tre poli della loro eventualità: dio, gli uomini e il mondo. È il «no» corazzato alla vita, alla fecondità, alla speranza fino alla definitiva chiusura del cuore ad ogni – poiché sospetta – alterità: una scelta che, tuttavia, deve fare presto i conti con la notizia, annunciata dalla moglie, di un figlio in arrivo – in paradossale coincidenza con l’annuncio della nascita di Cristo a Betlemme e con un incontro imprevisto:

fino a questa notte – dice Sartre nelle vesti di Baldassarre – l’uomo aveva gli occhi tappati dalla sofferenza (…) non vedeva che lei e si sentiva come una bestia ferita e ubriaca di dolore che salta attraverso i boschi per sfuggire la sua ferita e che porta ovunque con il suo male. E tu Bariona – questi dice l’altra faccia di Sartre – eri un uomo della vecchia legge. Hai considerato il tuo male con amarezza e hai detto: sono ferito a morte.   

Torna il dire di Papa Francesco: è un’umanità ferita, un’umanità che porta ferite profonde. Ma nel loro dischiudersi l’uomo della libertà e della disperazione si palesa come tutt’altro che il rivoluzionario: «eri un uomo della vecchia legge». La ferita mortale si riapre, ma questa volta come apertura salutare alla possibilità della speranza. Le parole di Baldassarre suonano piccatamente ironiche al cuore corazzato di Bariona.

«Mi dicevi poco fa – gli fa osservare ancora il terzo dei Magi – che Dio non può nulla contro la libertà dell’uomo ed è vero. E allora dunque? Una libertà nuova sta per innalzarsi verso il Cielo come una grande pila di bronzo e tu avresti a cuore di impedire ciò? Cristo è nato per tutti i bambini del mondo…Bariona – osa il saggio re – o primo discepolo di Cristo». Ora l’ostentazione del protagonista appare sfidata sul suo stesso terreno, quello della libertà.  L’annuncio cristiano – ostinatamente rifiutato in suo nome – giunge come possibilità di liberazione dalla cattività della libertà medesima. Così la lotta interiore è ingaggiata nel cuore stesso dell’uomo contemporaneo, quello della libertà-progetto:

«….Libero… – riprende in solitudine riflessiva – Ah! Cuore contratto sul tuo rifiuto, bisognerebbe allentare le tue dita e aprirti, bisognerebbe accettare…Bisognerebbe entrare in questa stalla ed inginocchiarmi. Sarebbe la prima volta nella mia vita (…) sarei libero, libero. Libero contro Dio e per Dio, contro me stesso e per me stesso. Ah! Come è duro». È esigente ogni respiro della libertà: il primo tanto quanto l’ultimo. Ma «accettare» di inginocchiarsi dinanzi a Quel bambino, sospeso a quel condizionale «bisognerebbe», indica un’altra origine di nuova, diversa (poiché di tutt’altro segno) libertà. Nel combattimento interiore, drammatico che qui si svolge si delinea una correlazione di equivalenza finora inimmaginabile: libero. Libero contro Dio e per Dio, contro me stesso e per me stesso. Sartre intravvede lucidamente una possibile fuoriuscita dal regime di alternativa tra il sé e l’altro, tra Dio e uomo. «Contro» o «per» Dio equivale a «contro» o «per» me stesso: vi è normativamente superata l’idea marxiana di «estraneazione» tra i due poli, ma vi è anche ripensata sul vivo la domanda del viandante nietzschiano, «perché questo battitore fosco e impetuoso segue proprio me?». Dinanzi all’inermità della presenza di Quel bambino si può intravedere già una riapertura delle possibilità del pensiero a motivo dell’accadere gratuito di una novità di vita che travalica le logiche del potere e si concede innocentemente ed incondizionatamente al libero riconoscimento dell’infocato rivoluzionario.

Ma la patina della sua sicurezza di sé e della propria giustizia torna a reclamare i suoi diritti: Bariona decide di far fuori quella vita innocente; la scena nei pressi della stalla si fa struggente e drammatica. Tutta la caratura dell’uomo moderno e contemporaneo rivive in essa e nel cuore acrimonioso del protagonista, tutto solo…senza misericordia:

La donna mi gira la schiena e non vedo il bambino: è sulle sue ginocchia, immagino. Ma vedo l’uomo. È vero: come la guarda! Con quali occhi! Che cosa può avere dietro quei due occhi chiari, chiari come due limpide profondità in questo viso dolce e segnato? Quale speranza? – ancora! – Per noi non c’è speranza. E quali nuvole di orrore salirebbero dal fondo di se stesso e verrebbero ad oscurare quelle due macchie di cielo se mi vedesse strangolare il suo bambino. Bene, questo bambino, non l’ho visto, ma so già che non lo toccherò. Per trovare il coraggio di spegnere questa giovane vita tra le mie dita, non avrei dovuto scorgerlo dapprima in fondo agli occhi di suo padre. Andiamo sono vinto.

Lo sguardo e gli occhi del padre vincono sulle mani violente del potenziale assassino. Proprio come nella parabola del Figliol Prodigo il protagonista ritrova sé ed il mondo nell’abbraccio del padre misericordioso dopo l’esilio da essi in nome della libertà. La ragione filosofica moderna e contemporanea reincontra la legge del pensiero che ha provveduto a combattere e rimuovere: il Padre. Non c’è amnistia che tenga: Ci vuole il senno – non l’amnistia – per la misericordia. Il principio di questo «senno» Bariona se lo trova lì nel segno di un’innocua presenza che il lettore annuncia così: «Un Dio piccolo che si può prendere in braccio e coprire di baci, un Dio caldo che sorride e respira, un Dio che si può toccare e che vive». Dio: una presenza umana in tutto mendicante! Con questo annuncio Sartre riporta il pensiero all’unità originaria che le eresie, prima, e la filosofia, poi, hanno provveduto nei secoli a smembrare: quella (da cui siamo partiti per il nostro percorso) tra Dio e mondo, tra Dio e l’uomo. Con l’avvenimento di un Dio fatto carnalmente uomo la storia degli uomini può ospitare la personificazione della misericordia come possibilità di liberazione della libertà-progetto dalla sua stessa prigionia ricattatoria: Libero contro Dio e per Dio, contro me stesso e per me stesso. Trovandosi come «vinto» dalla misericordia Bariona si scopre libero; egli – in un ultimo estremo atto di lealtà di fronte a quella stalla – si trova a riconoscere l’esperienza di un nuovo inizio per sé, per il mondo, per i suoi stessi compagni d’arme che, intanto, l’hanno abbandonato per il Messia:

In questa stalla incomincia un mattino, in questa stalla fa giorno. E qui fuori è notte. Notte sulla strada e nel nostro cuore. Una notte senza stelle, profonda e tumultuosa come l’alto mare. Ecco, sono sballottato dalla notte come una botte dalle onde e la stalla è dentro di me, luminosa e fonda (…) ed io sono nella grande notte terrestre, nella notte tropicale dell’odio e della disgrazia. Ma, – potenza ingannevole della fede – per i miei uomini, migliaia d’ anni dopo la creazione, si alza in questa stanza al chiarore di una candela, il primo mattino del mondo.

Il «primo mattino del mondo» di Bariona è un Dio che – parafrasando il dire di Papa Benedetto nell’intervista citata – osa giustificarsi al cospetto dell’uomo prima ancora che pretendere da questi di giustificarsi al Suo divino cospetto. Col pronunciamento della parola «speranza» sulle labbra del protagonista, Sartre conclude la sua pièce nel segno del sacrificio di Bariona in difesa del Bambino perseguito e ricercato da Erode per essere sopresso. Ciò non senza averci partecipato l’estrema dichiarazione esplicita del suo eroe ai suoi uomini: «Ve lo dico in verità: questo bambino è Cristo».

Il riconoscimento della verità del mistero teandrico cristiano (Dio fatto uomo) torna così – con piena legittimità e diritto di cittadinanza – al centro dell’attenzione esigenziale del pensiero contemporaneo, riportatovi (con toni davvero commoventi) dall’«ateo» Sartre. Sappiamo che egli ha provveduto subito a prendere esplicitamente le distanze da ogni confusione di questa sua opera con un atto di conversione al cristianesimo: «fu un momento, durante la cattività», ebbe a scrivere nel 1962 per introdurne la prudente pubblicazione. Ma è altrettanto eloquente il fatto che abbia ritenuto necessario aggiungere che si trattava di «trovare un soggetto che potesse realizzare, in quella sera di Natale, l’unione più vasta di cristiani e di non credenti». Non ci interessa qui svelare i segreti dei cuori, né, tanto meno, giudicare dei loro destini. Al cospetto del pensiero come tale – universale «di cristiani e di non credenti» – rimane questa sua testimonianza che fu anche un momento di libertà sulla e dalla sua cattività di pensiero.

Per concludere: si rivela profeticamente sua (di Sartre) – con l’epilogo della vicenda del suo personaggio – la migliore proposta alla sentenza iniziale di A. Malraux: «Non c’è ideale cui possiamo sacrificarci, perché noi, che non sappiamo affatto che cosa è la verità, conosciamo le menzogne di tutti gli ideali». Bariona, per contrasto, sacrifica la vita per l’unica verità che ha saputo vincere sulla «sua» menzogna: Ve lo dico in verità: questo bambino è Cristo. Una testimonianza probatoria, dal ragguardevole connotato in termini di laicità di pensiero, di quanto recitato dalle, pur «Sacre», Scritture: «la Misericordia ha sempre la meglio nel giudizio» (Gc 2, 13). Giudizio?… La misericordia connota, non appena le emozioni, lo spazio dell’edificante o l’esercizio di una generica solidarietà, ma il pensiero nella sua forma più attuale, compiuta, vissuta secondo le sue originarie urgenze ordinamentali.

L’eloquente attestazione filosofica che i nostri tre autori le hanno reso risiede nel fatto che proprio nel massimo sforzo di elaborarne le ragioni del rifiuto si sono visti costretti a rinnegare quelle ragioni entrando in contraddizione con le loro stesse premesse. Ciascuno nel proprio percorso – e seppure in termini esigenziali, non astrattamente apodittici offre una particolare risonanza al termine «misericordia»: pertinenza antropologica all’essere sociale dell’uomo, alla di lui volontà, alla statura della libertà. Più in generale, risulta interessante osservare come nelle istanze in cui questi autori hanno rappresentato emblematicamente il pensiero dell’uomo moderno e contemporaneo – proprio in queste! – essi sono testimoni affidabili di una condizione eloquente del pensiero laddove l’uomo si applichi ad impostare la sua vita nel mondo secondo quelle istanze: quanto più lavora alla rimozione dell’istanza della misericordia tanto più si vede costretto a rinnegare se stesso o qualcosa della sua esperienza, di sé e del mondo. Essi attestano, per così dire anche «in negativo», l’impossibilità per il pensiero di prescindere dall’evenienza della «misericordia» – pena il suo scacco normativo. Con ciò segnalano a più forte ragione l’irriducibilità (storica e metafisica) di questa evenienza a parametri aprioristicamente predisposti dall’uomo per via teoretica o per via pratica, per via metafisica o per via etica. Riporre così a tema la misericordia in un simile contesto culturale comporta rileggere e ricollocare la disposizione originaria del pensiero: il suo stesso ordinamento statutario, ben prima e ben oltre le sue pur legittime acquisizioni epistemiche su di sé, sul mondo, su Dio; ben prima e ben oltre i suoi comprensibili fallimenti. Misericordia è esigente il pensiero tanto quanto questo è esigente quella.

«Misericordia» infatti seppure a titolo diverso fra i tre autori dice il nome stesso del pensiero: nel genuino senso del «darsi-pensiero-di…». Vi si esprimono e rappresentano i termini, propriamente correlativi, del rapporto tra divino ed umano. La sua assenza o il suo rifiuto comportano non tanto – o solo – il rifiuto di Dio da parte del mondo e dell’uomo bensì il rifiuto dell’uomo e del mondo da parte dell’uomo stesso, con penuria del mondo medesimo (in essere, volontà, libertà). Nei nostri tre esempi il pensiero moderno mostra, nelle sue pur vistose ferite, le tracce di una nostalgia dell’originaria unità tra mondo e Dio, tra Dio e uomo, tra eterno e temporale. Non ci viene trasmesso un generico anelito religioso verso Dio bensì un drammatico moto invocativo che reclama l’urgenza della sua rinvenibilità storica: l’esperienza della misericordia.

Aveva dunque ragione Solzenicyn nella sua «laicissima» valutazione dal lager: Ci vuole il senno non l’amnistia – per la misericordia. L’indicazione teoretica che ci viene è che nessuna amnistia potrà accontentare un pensiero cogente col suo statuto originario: l’esperienza della «misericordia» si candida a riabilitarne così – stanti quelle sue stesse «ferite» la connaturale facoltà veritativa, quella del «mettere-giudizio» (senno).

Al fine di trattenere profittevolmente l’eredità della sfida epocale che questi esempi ci consegnano, proviamo ora a sondare una qualche prospettiva di ricerca su cui queste testimonianze inducono a lavorare oggi, nell’epoca della «liquefazione» della modernità e sulla soglia di una quanto mai destrutturante post-modernità.

Dischiusure

Ci chiediamo: quale profilo della misericordia traiamo dagli elementi che hanno motivato in questi autori il rifiuto e, insieme, l’esigenza? Quali suoi connotati vi vengono evocati o – con ragioni esperite – esigenzialmente presentiti?  Differenzieremo, molto schematicamente, una successione di rilievi quanto al contenuto, un’altra quanto al metodo propri della misericordia in correlazione col pensiero. Questi rilievi – per come sono da noi raccolti – intendono rimanere nell’ambito di un esercizio aperto e genuinamente filosofico della ragione.

I) Quanto al contenuto: essa può essere identificata solo con una realtà personale: quella di Cristo nella cui persona – tanto ammirata quanto vituperata da Nietzsche – la natura umana e quella divina sono assunte storicamente. In lui ed in forza del suo stesso essere l’uomo moderno e contemporaneo può ritrovare la legge di pensiero per rileggere in relazione unitaria il rapporto Dio-mondo/uomo. Da lui gli esempi considerati attendono l’esperienza della misericordia; in Lui Dio si svela, infatti, come bisognoso dell’uomo; da Lui il mondo attende il suo senso. La prima opera della misericordia è restituire all’uomo ed al mondo il senso ulteriore del suo essere. Sta qui lo stile integralmente laicale della sua opera. Perciò ed in particolare:

a) La misericordia è pensiero per la sua istanza personale. A tale istanza corrisponde una economia non appena lenitiva ma ricreativa della natura e dell’essere uomo (v. Marx). In tale economia la misura dell’essere sta nella verità e non nella semplice natura o nella misura del potere. Nel suo ordine la misericordia chiama in causa la persona: nella sua irripetibilità e totalità (storia, affettività, legami) e non genericamente come idea. In quest’istanza e su questa economia consiste il canone della sua irriducibilità e della sua libertà rispetto ad ogni forma di aprioristica pre-disposizione intramondana: né l’attendervi eticamente la merita né il non attendervi può preventivamente precluderla.

b) Essa è pensiero nella sua istanza relazionale poiché indica nell’esperienza di un rapporto l’origine ed il senso del soggetto umano nel mondo. Per questo essa non si limita ad un’economia riparativa della volontà (v. Nietzsche) ma inaugura storicamente una oblativa, esplicata nell’amore, somma statura dell’uomo. Misericordia, ovvero: la misura della verità è amore come facoltà di affermare l’altro. Essa chiama la persona ad un rapporto non in ragione di principi giustapposti bensì a motivo di una fedeltà a se stessa: gratuità, grazia. Sta qui la sua connotazione giuridica più autentica: misericordia è giustizia ben al di là della logica computazionale, riparativa appunto. La sua logica oblativa riconsegna la legittimità dell’atto libero al suo originario soggetto portatore: l’altro costituzionalmente e correlativamente (con doppio senso di moto) connesso col «me» nel comune ordinamento del «noi» (che segna il termine di aspirazione ulteriore dell’accorata lettera di Marx alla sua amata: ben oltre l’irresolutezza dell’uomo socialista)

c) Misericordia comporta di conseguenza una istanza cosmica, universale. Essa non si limita alla giustizia distributiva umana bensì chiama in causa la fedeltà stessa di Dio a sé medesimo nella sua relazione col mondo. La sua economia perciò non è di tipo parificativo-egualitario bensì generativa e feconda di storia e di rapporti (v. la questione della libertà in Sartre). Se la misericordia non è connivente con la miseria è perché la sua norma universale è il Padre, generatore: in essa ogni fallimento dell’uomo nell’universo equivale ad un fallimento di ed in Dio stesso. Non si tratta di pareggiare i conti, ma di elargire in sovrabbondanza il profitto, in rapporti, di ciascuno degli uomini, figli: dives in misericordia. Con ciò «misericordia» è fattore di «ricchezza» proprio in quanto principio di relazioni implicanti senso universale tra soggetti pensanti (sofferenti, gaudenti, nascenti, morenti, viventi ecc.): essa presiede ad un universo di rapporti nei quali il fallimento è destituito e delegittimato legislativamente. Nell’ordine della sua economia, anche la «miseria» gioca a favore della scoperta di un’altra paternità, conferitrice di identità, non connivente con alcuna delegittimazione al cospetto del pensiero.

II) Quanto al metodo essa ha bisogno a sua volta di persone per comunicarsi. Non agisce per via speculativa ma convoca il pensiero sul piano dell’esperienza. Sta qui la sua coessenziale laicità. La misericordia connota una ragione che si prova a trarre profitto dall’esperienza, cosicché il suo protagonista non si costituisce in forza di un’analisi speculativamente ineccepibile né di un’etica moralmente irreprensibile. Il dotto competente di una tale esperienza non è appena «il dotto» (di mestiere) bensì il suo testimone (Bariona, o primo discepolo di Cristo – abbiamo letto in Sartre). Il testimone è il suo protagonista appropriato: questi conosce per gratitudine, incontri e fatti. Essa non è perciò né anonima né omonima. Il suo soggetto non vive né conosce in autosufficienza ma in abbondanza di rapporto da altra paternità. In grazia della sua opera di testimonianza per ognuno c’è stato, c’è o ci sarà sempre un Baldassarre come per il Bariona di Sartre. Essa è tale dunque solo quando accade, ed accade per via di testimonianza di soggetti in-confondibili. Per questo, nel suo ambito ciò che si toglie, per via filosofica, all’esperienza lo si toglie al pensiero stesso: la negazione della misericordia coincide con la negazione di Dio in quanto c’è di più suo, vale a dire il concedersi alla libera verifica dell’uomo sul terreno della sua stessa esperienza umana. La ricaduta epistemica è teoreticamente immediata: un pensiero ormai diviso dalla fonte stessa della sua tenuta, vale a dire dall’esperienza e dalla sua paternità normativa.

Nella misericordia il pensiero di natura coincide, dunque, col pensiero del Padre, vale a dire con la legge che pone l’universo degli «altri» in una relazione giuridica di mutuo beneficio (Polis-societas-fratres). Sotto una tale norma – il Padre – lo statuto dell’uomo nell’universo si profila come figliolanza: in questa medesima prospettiva quella che era «filo-sofia» volge ora in «filio-sofia». Figlio, non si limita a dire un semplice grado di parentela, bensì la natura libera del pensiero. Proprio del Dio cristiano si può dire – con ragioni che la filosofia può accogliere – che: Dio non è misericordia perché è Dio bensì che Egli è Dio perché è misericordia. Nel suo ordinamento esperienziale vale l’analogo risvolto antropologico: l’uomo non è figlio perché è uomo bensì egli è uomo proprio perché è figlio. Sotto l’azione della misericordia esperita la filosofia stessa può ritrovare, permanentemente e performativamente, il suo originario statuto epistemico: quello, laico – appunto – a pieno titolo, di filio-sofia.

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filio-sofia, normative authorship, person and relation, reason and experience, witness

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