Massud l’Afghano. Colui che l’Occidente non ha ascoltato

9 settembre 2001: secondo la collaudata tecnica terroristica dell’omicidio-suicidio, a suo tempo incisivamente illustrata da Claudio Bertolotti nel suo studio Shahid. Analisi del terrorismo suicida in Afghanistan (FrancoAngeli, Milano 2009), Aḥmad Shāh Masʿūd (1953-2001), passato alla Storia col nome di battaglia di comandante Massud, e all’epopea del mito con l’appellativo di Leone del Panjshir, dopo essere scampato a decine di attentati, veniva trucidato. Con lui moriva l’eroe nazionale della liberazione dell’Afghanistan dal dominio sovietico e dal regime comunista, nonché l’infaticabile combattente, patriota dedito alla causa di un Afghanistan libero, indipendente, pluralista. Quell’attentato forse andrebbe interpretato come l’oscuro segnale convenuto di appello al jihad globale, quale si sarebbe manifestato clamorosamente, appena due giorni dopo, l’11 settembre, con gli attacchi ispirati da Al-Qāʿida al cuore degli Stati Uniti d’America, a New York e Washington. E forse non sarà casuale che la folgorante avanzata dei talebani, nell’agosto 2021, seguita al ritiro delle forze occidentali, si sia realizzata proprio alla vigilia del ventennale di quella duplice, fatidica data, quasi in segno di rivincita, simbolica ed effettiva, dei talebani, a suo tempo scacciati dal potere dopo l’invasione americana. Questa Rivista intende onorare la memoria di Massud con la traduzione di un breve, ma significativo estratto da un’opera del reporter e scrittore Christophe de Ponfilly (1951-2006) che ha visto la luce, in una prima edizione, nel 1998, e poi in una seconda, all’indomani dell’uccisione di Massud, in un duplice formato: un libro, e un docufilm (di cui al trailer introduttivo https://www.youtube.com/watch?v=T7fmfHW8lIw), entrambi intitolati Massoud l’Afghan. Le pagine seguenti sorprendono per l’estrema loro incidenza attuale, perché consentono di intercettare, nell’ambientazione del luglio 1997, le stesse urgenze che incombono oggi, rinnovate a quasi un quarto di secolo di distanza.

La realtà afghana è estremamente complessa – come testimoniato dalla ricerca antropologico-giuridica di Antonio De Lauri in Afghanistan. Ricostruzione, ingiustizia, diritti umani (Mondadori, Milano 2013) –, talmente complessa da attirare nel suo contesto storico, culturale, geopolitico, religioso elementi e motivi di carattere più che locale: globale, e a pieno titolo. È come se l’Afghanistan esprimesse, con le sue tensioni, le sue crisi, le sue guerre, e altresì con le campagne di scolarizzazione, con i sia pur maldestri tentativi di «importare» la democrazia, con la rivendicazione dei diritti delle donne e delle minoranze, con la difficile crescita di una moderna società civile, una posta in gioco decisiva: una posta in cui si decide il destino non solo di un popolo, ma, in qualche modo o almeno in parte, del mondo. Massud provò a farsi ascoltare, dall’Occidente. Fino in fondo, non ci riuscì. Ne sono documento impressionante le pagine qui tradotte. Riascoltarlo, nel frangente che vede nuovamente salire al potere gli stessi esponenti dell’integralismo islamico trionfante tra il 1996 e il 2001, può metterci in condizione di leggere, in un’ottica diversa da quella suggerita dai media, le ambiguità occidentali che sono probabilmente, e fatalmente, all’origine degli esiti fallimentari di una missione che, almeno nelle (migliori) intenzioni, avrebbe dovuto portare allo sradicamento dell’inquietante fenomeno del terrorismo jihadista. Non aver voluto ascoltare Massud da vivo è stato, da parte dell’Occidente, un errore imperdonabile, dettato da una geopolitica votata agli interessi come criterio-guida: per la sorte della società afghana, come per le sorti del più lungo conflitto della storia degli USA; insistere a non voler ascoltarlo da morto equivale, esattamente vent’anni dopo, a ripetere l’errore in forma, se possibile, aggravata, con conseguenze allo stato attuale non calcolabili. Ma con una differenza non da poco: fino al 2001, si sarebbe potuto pensare che i moniti di Massud valessero a circoscrivere un’influenza sul contesto politico afghano; nel 2021, con un mondo cambiato (anche) dalla crescente pressione di un’istanza antagonistica piuttosto assertiva e non di rado aggressiva, sotto il segno di un islamismo a vari livelli «militante», la valenza simbolica di quei moniti risulta addirittura accentuata, invitando la geopolitica ad assumere i diritti, le libertà e la democrazia come criterio di orientamento degli indirizzi teorici e operativi. Il costo umano, economico, politico, culturale della testarda sordità – colpevole – dell’Occidente rischia di essere fin troppo elevato.

Massud l’Afghano. Colui che l’Occidente non ha ascoltato di Christophe De Ponfilly

 

Contributo pubblicato l’8 settembre 2021

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