Una legittimità minacciata: i diritti (im)propri dell’uomo

di Lorenzo Scillitani

La ricerca di un nucleo essenziale, intangibile e inviolabile, di ciò che pertiene di diritto all’uomo in via esclusiva e irriducibile impegna la riflessione filosofica in un costante sforzo di tematizzazione di quelli che dovrebbero essere i fattori della determinazione, il più possibile esaustiva, di questo nucleo.

Anno 4. Numero 2.

Dicembre 2018

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Una legittimità minacciata: i diritti (im)propri dell’uomo

 

La ricerca di un nucleo essenziale, intangibile e inviolabile, di ciò che pertiene di diritto all’uomo in via esclusiva e irriducibile impegna la riflessione filosofica in un costante sforzo di tematizzazione di quelli che dovrebbero essere i fattori della determinazione, il più possibile esaustiva, di questo nucleo. Ne è testimonianza, ricca e articolata, il lavoro collettaneo, curato da Carmine Di Martino, intorno a I diritti umani e il «proprio» dell’uomo nell’età globale. Diritto Etica Politica[1], che raccoglie contributi di studiosi di filosofia teoretica – in massima parte: oltre al curatore, Gérard Bensussan, Rita Fulco, Arianna Marchente, Sabino Papparella, Fabio Polidori, Caterina Resta, Giuseppina Strummiello – e di uno studioso di filosofia del diritto, Petar Bojanić. Senza entrare dettagliatamente nel merito di ciascuno degli scritti, che peraltro sarebbe degno di approfondimento critico specifico, pare di poter cogliere un filo conduttore in forma di domanda, messo ben in evidenza da Di Martino nella sua Introduzione: l’essenzialismo o il naturalismo metafisici sono in grado di esaurire la portata speculativa, e l’efficacia pratica, dei diritti pensabili e definibili come «umani»? A quali condizioni, di questi diritti, si può predicare l’universalità, in tensione dialettica con la particolarità delle istanze storico-culturali che si fanno carico della loro traduzione nella prassi dei meccanismi di promozione e tutela?[2]

In altra sede[3] ci si è occupati di questo tema, proprio a partire dalle medesime urgenze teoretiche che animano questa riflessione a più voci, muovendo da autori, come Jacques Derrida[4] o François Jullien, che esercitano una forte pressione critico-interrogativa sulle ipotesi fondazionaliste che ispirano ancor oggi larga parte degli studi e delle formule declaratorie che si sviluppano sotto il segno e nel nome dei diritti umani. Invero, già questa locuzione fa problema: ha senso parlare, in generale, di diritti umani – posto che si sappia qualcosa in generale dell’umano di base –, o non si dovrebbe piuttosto acquisire in via elettiva la specificità, locutiva e semantica, di diritti dell’uomo? La varietà delle formazioni linguistiche, desumibili dall’inglese (Human Rights) e dallo spagnolo (derechos humanos), come dal francese (droits de l’homme) e dal tedesco (Menschenrechte), attesta una diversa declinazione dell’attribuzione dei diritti all’uomo, o rivolti verso l’uomo (in tale accezione uni-versalizzabili)[5], a significare, rispettivamente, qualcosa di oggettivamente inerente al soggetto umano, e qualcosa di soggettivamente predicabile come intrinsecamente pertinente all’uomo in quanto tale. La lingua italiana offre la possibilità di rappresentare entrambe le versioni, prestandosi a esprimere ora l’idea di diritti universalmente umani, ora la specificità emergente in diritti appartenenti in via eminente all’uomo.

In entrambi i casi, e con la diversa accentuazione connotativa dei livelli di indagine critico-speculativa interessati, si impone una questione di fondo: posto che si tratti di una caratterizzazione fondamentale, e non semplicemente storico-occidentalistica, dell’uomo/dell’umano in termini etico-giuridici, quale universalità ne sarebbe alla base? E, contestualmente, quale modulo di compatibilità teorica assicurerebbe l’individualizzazione di questa (pre)supposta universalità in capo al singolo essere umano, da intendersi non già (marxianamente) come Gattungswesen[6], ma come uni-dualità maschile e/o femminile singolarizzata in una identità co-esistente, socialmente e politicamente, con identità (ontologicamente) pari ma (esistenzialmente) altre, e in una relazione mai pre-decidibile con un infinitamente Altro? La plausibilità filosofica, ancor prima che la sua operatività, della formula diritti-umani/dell’uomo dipende dalla risposta a questo ordine di domande, che sostiene la possibilità stessa di coniugarne, in un unico plesso dialettico, le potenzialità inclusive, in chiave universalistica, e la capacità di riconoscere in via esclusiva agli uomini le loro spettanze.

La difficoltà di rintracciare elementi idonei all’ambientazione di questa duplice valenza è dimostrata dal tentativo, argomentato dal curatore del libro in discussione, di enucleare un dispositivo teorico in grado di rendere ragione dell’insieme dei fattori coinvolti, a cominciare dalla compossibilità dell’elemento plurale[7]i diritti – e dell’elemento singolarizzante dell’individualità personale, trattandosi di diritti riferibili a ogni uomo. L’impiego di una espressione come dimensione trasversale fungente[8] denota quanto sia problematico ritagliare sull’asserita (im)proprietà dell’umano un elemento accomunante che non sia allo stesso tempo alienante: quel che, in altre parole, potrebbe declinarsi in una sorta di universalità concreta multidimensionale – a forte valenza operativa, per dirla con Di Martino[9] –, riferibile al giuridico come a quell’ambito dell’esperienza umana nel quale, fenomenologicamente, la peculiarità del soggetto individuale non può essere pensata, comunicata, agita al di fuori della relazione interpersonale, che è qualcosa di molto più intensamente significativo della nozione di legame sociale elaborata sociologicamente. Quanto sia ascrivibile a titolo proprio dell’uomo non può essere esaurito neppure in uno schema di qualificazione riduttivamente antropo-logico, a meno che non si tratti del derivato di una antropologia esplicitamente filosofica, e quindi con implicazioni anche morali, giuridiche e politiche, che, al di là di riferimenti, peraltro tutti da precisare, a categorie come la «dignità umana», osi spingersi fino a mettere in questione quel che resta dell’uomo[10] una volta che questi venga restituito a quel che, «impropriamente», si lascia interpretare come un ente insuscettibile di (sempre indebita) ap-propriazione comprendente.

Se fosse possibile identificare qualcosa come una proprietà circoscrivibile dell’umano, e dunque in quanto tale giuridicizzabile, non si renderebbe giustizia alla sua pluridimensionalità, che lo sottrae all’oggettivazione conoscitiva. I diritti dell’uomo si annunciano, in questo senso, come legittimamente umani nella misura in cui traducono la complessità della realtà umana, che di per sé sfugge a qualunque sapere-potere. Le aree declaratorie che ospitano carte e documenti sottoscritti nelle forme previste dal diritto internazionale, e dal diritto sovranazionale che sta faticosamente prendendo forma nell’epoca della tarda globalizzazione, dicono ognuna di una trasversalità categoriale che, in linea di principio, tende alla configurazione di una sorta di testo unico delle leggi dell’umanità: testo che, almeno nelle intenzioni ideali più genuine, vorrebbe riflettere non una uniformità di pensiero, ma una multiforme significazione dei suoi contenuti trans-culturali. La legittimità dei diritti dell’uomo[11], oggi minacciata da più parti, mette capo, in ultima analisi, alla paradossale in-appropriabilità di un centro di imputazione di atti intenzionali che tale resta anche quando non sia capace, per svariati motivi (di carattere fisico, psicologico, culturale, economico etc.), di esercitarli[12], consegnandosi tuttavia al riconoscimento – oppure al disconoscimento – altrui[13].

Il leit-motiv di questo lavoro nel suo complesso denuncia l’obsolescenza degli ancoraggi metafisico-sostanzialistici, che rischiano di occultare la feconda ambivalenza – o, forse meglio, la plus-valenza – che si proietta dietro l’apparire dei diritti in quanto diritti dell’altro uomo, per usare il linguaggio di Lévinas[14], il quale in tal modo recupera alla contestualizzazione dei diritti le categorie etero-centriche della responsabilità e del dovere. Forse non si ha torto a rilevare i limiti di un approccio neo-giusnaturalistico, e giuspersonalistico[15], che mostra di andare in sofferenza quando deve cercare di rendere tutta la dinamicità e la profondità spirituale di quanto è implicato nei diritti (im)propri dell’uomo, anzitutto nei termini espressivi di una libertà non deducibile da alcun fattore biologico o etico-culturale. Non è detto, però, che una metafisica centrata sulla libertà dello spirito, facendo passare l’essere da un ipotizzato darsi neutro[16] (sia esso trascendente o immanente, filtrato nell’ottica di Heidegger[17], ovvero di Severino) a un esperito donarsi personale[18], non possa contribuire a configurare una filosofia dei diritti dell’uomo teoreticamente ripensata su nuove premesse, tali da consentire la costruzione e lo sviluppo di un nuovo format ermeneutico.

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