Giurisprudenza e potere. La sempre difficile relazione tra potere politico e diritto

Nella storia del diritto, un problema sempre presente è stato quello del rapporto tra diritto e potere politico. Convinti del valore pedagogico della storia e dalla nostra condizione di romanisti, desideriamo volgere gli occhi in particolare a una fase dell’antica Roma, ossia il passaggio dalla Repubblica all’Impero e specialmente i primi secoli della nostra era – il cosiddetto Principato. Effettivamente tal epoca, in cui è avvenuto il crollo del sistema repubblicano di divisione dei poteri, ha coinciso con quella di maggior creatività giuridica fino al punto che noi romanisti la classifichiamo come una tappa classica del diritto romano[1]. Senza dubbio, con l’affermazione dell’Impero assoluto – il Dominato – questo stato di cose si è alterato e ne è cominciata la decadenza. Da allora e fino ad adesso ha acquisito e mantenuto la definizione di «esemplare», essendo l’unico ordinamento giuridico della storia con tale carattere.

La nostra analisi deve considerare, quindi, le fonti del diritto dell’epoca e la loro relazione con il potere: quali sono state? Come si spiega la loro creatività e, soprattutto, la loro capacità di offrire soluzioni valide ed adeguate ai problemi che volevano risolvere (fino al punto che queste sembrano ancora essere riprese nei nostri codici)?

Il sistema di fonti giuridiche immediatamente precedente al Principato, ossia quello repubblicano, è caratterizzato dalla sua diversità e «eterogeneità». In questo senso, uno dei principali problemi che noi professori di diritto romano dobbiamo affrontare quando spieghiamo la nostra materia, al primo anno, consiste nel fare comprendere agli alunni che l’unica fonte del diritto non è la legge (o che le leggi non sono né sono state le uniche norme esistenti)[2] e quindi quali sono state le altre norme che hanno convissuto con essa. Accanto alla legge – richiesta o data – troviamo i mores maiorum, l’editto del pretore, la giurisprudenza e – anche se il suo valore di fonte repubblicana è discusso – i senatoconsulti.

Emergono dunque, in questo contesto, due questioni: in primo luogo, il fatto che non esiste ancora una «teorizzazione» o una predefinizione nell’ordinamento stesso relativamente a quali siano state le fonti normative[3]; in secondo luogo, l’esistenza di fonti del diritto «extracostituzionali» o se si vuole di attori normativi non legittimati dall’ordine costituzionale repubblicano. È il caso della giurisprudenza e del diritto pretorio.

Entrambe sono due fonti giuridiche che sono di difficile comprensione per la nostra mentalità moderna[4] e che per questa ragione desideriamo commentare brevemente.

La singolarità della giurisprudenza è spiegata molto efficacemente da Cuq. Riproduciamo quindi integralmente la sua descrizione:

«…à mesure que le droit devint une science indépendante, il fallut une étude spéciale, jointe à l´expérience du forum, pour bien le connaître. Le juge citoyen était trés rarement en mesure de résoudre par lui-même les questions qui lui étaient soumises… La tâche du juge fut facilitée par un double usage: 1º le juge s´entourait d´un conseil composé d´hommes ayant l´expérience des affaires judiciaires et d´une prohibité reconnue; 2º l´un des plaideurs lui communiquait l´avis d´un jurisconsulte faisant autorité. Au temps de Cicéron il était de régle de se conformer à cet avis, à moins que l´adversaire, invoquant l´autorité d´autres jurisconsultes ne fut en mesure de prouver qu´il était contraire au droit. Cet usage … assurait aux jurisconsultes les plus rénommés une influence décisive sur l´administration de la justice…»[5].

Pertanto, la forza dell’opinione di alcuni singoli – i giureconsulti –, scientifici sprovvisti di qualsiasi capacità «costituzionale» di fare diritto, si basava sul riconoscimento sociale dovuto alla loro saggezza: «A Roma, quello che importa è l’opinione del giureconsulto, che è un singolo, che effettua un giudizio di analogia attraverso la delimitazione della quaestio iuris e una valutazione delle rationes decidendi nei casi confrontati»[6].

Ugualmente o ancor più originale, se possibile, è il risultato delle attività del magistrato[7]. In effetti, mentre il lavoro giurisprudenziale è di carattere casuistico e offre soluzioni giuridiche riferite ai casi concreti attraverso l’elaborazione d’istituzioni e regole, la capacità creatrice del titolare della iurisdictio non si limita a offrire soluzioni riguardanti i casi concreti mediante la risoluzione dei giudizi e delle sentenze; infatti  – tramite l’editto – il pretore si ritrovava a definire delle vere norme a carattere generale: «Al pretore (in generale ai magistrati giusdicenti) era stato riconosciuto, a lato del compito originario di ius dicere nei riguardi dei casi concreti, quello di stabilire norme generali ed astratte mediante l´inserzione di mezzi processuali nell´editto. Lo ius praetorium si situava, nelle cose, in cima al sistema, al di sopra di altri modi di produzione del diritto»[8].

Così è stato, descritto in modo molto sintetico, il panorama repubblicano. Certamente, se – come afferma chiaramente Gallo – il potere di fare diritto è la massima espressione della sovranità, del potere politico[9], e un cambio nell’equilibrio delle forze politiche viene a tradursi necessariamente in un’alterazione del sistema di produzione delle norme, qual è stato il destino delle fonti citate durante il Principato?

Nella Repubblica, i senatoconsulti erano, prima di tutto, un dictamen emesso dalla camera dei patres, titolari dell’auctoritas. Il loro valore normativo è stato quindi discusso perché consisteva in un invito ai magistrati affinché rispettassero l’opinione del senato. Poco a poco, senza dubbio, gli imperatori hanno modificato questa natura iniziale convertendoli in fonte diretta del diritto ed espressione della volontà imperiale (come conseguenza della designazione imperiale dei senatori e della generalizzazione dell’abitudine di assumere come testo finale la proposta – oratio – imperiale).

Questo apogeo del senato come fonte creatrice ha occupato, in parte, lo spazio che hanno lasciato le leggi comiziali[10]. Queste sono state molto impiegate da Augusto nei primi tempi del Principato per introdurre riforme nei più diversi ambiti (diritto criminale, manomissioni, tutela, matrimonio e nascite, successione…), con i risultati più vari[11]. Molto presto – come abbiamo detto – sono state sostituite dai senatoconsulti, sparendo le leggi comiziali – la legge pubblica – come fonte del diritto. Malgrado ciò, la loro «morfologia» ha continuato a essere utilizzata come fonte privilegiata secoli più tardi, nell’epoca post-classica, anche se questa volta come veicolo della volontà dell’imperatore.

Con riferimento alle relazioni tra il diritto pretorio e il Principe, qui mi limiterò a riprodurre le conclusioni più importanti di un magnifico articolo di Filippo Gallo che si intitola esattamente “Princeps” e “ius praetorium”[12]: «la doppia capacità normativa del magistrato – in particolare la creazione di norme generali attraverso l’esposizione delle clausole dell’album pretorio – è stata “asfissiata” come conseguenza della codificazione dell’editto. La riforma adrianea lasciò ai magistrati giusdicenti – privati … del potere normativo a livello generale e astratto – il compito in senso stretto di ius dicere…»[13].

Questo ha supposto non solo la fossilizzazione del ius praetorium ma anche, come conseguenza della sua approvazione da parte del senato (la celebre oratio hadriani)[14], che la sua natura normativa si è modificata e, da allora, si è liberata dell’influenza del pretore; qualsiasi modifica posteriore è stata riservata all’imperatore.

A questo punto, vale la pena soffermarsi sullo studio che fa l’autore dell’analogia come strumento tecnico-giuridico. Gallo fa dipendere la restrizione dei poteri del magistrato dall’instaurazione dell’obbligo di accudire a esso, in caso di lacune dell’ordinamento: Non possunt omnes singillatim aut legibus aut senatus consultis comprehendi: sed cum in aliqua causa sententia eorum manifesta est, is qui iurisdictioni praeest ad similia procedere atque ita ius dicere debet[15].

Il diritto repubblicano e dei primi tempi del Principato può essere qualificato come «aperto», in una doppia dimensione: per la ricchezza delle fonti normative e del loro carattere non necessariamente «costituzionale»; ma anche per la capacità –legittimamente esercitata (nel caso dei comizi, ad esempio) o «reale» (nel caso del magistrato o del pretore) – di completare, supplire o correggere l’ordinamento preesistente (lo ius civile)[16]. Il popolo attraverso nuove leggi comiziali, il magistrato mediante nuovi editti e la giurisprudenza nella sua triplice attività del cavere, agere e respondere[17], rispondevano a qualsiasi necessità giuridica.

In un tale quadro di «libertà creativo-normativa», il problema delle lacune dell’ordinamento semplicemente non si poneva. L’idea dell’ordinamento come «sistema» e, ancor più, come sistema «chiuso» o «completo» era estranea ai romani: «(i romani) si mostravano consapevoli dell´incompletezza del loro ordinamento, come di ogni altro. Già Catone rilevava incisivamente al riguardo che anche tutti gli ingegni esistenti in una data età, riuniti insieme, non sono in grado di prevedere e regolare tutto»[18].

Una volta eliminata questa libertà creatrice e concentrate tutte le fonti in una sola e suprema, ossia la volontà dell’imperatore, s’impone l’obbligo per il titolare della iurisdictio di utilizzare l’analogia; deve necessariamente risolvere il conflitto e dettare la sentenza ma ormai non può proporre una soluzione che non sia prevista dall’ordinamento: «Il dovere dell’analogia è collegato … alle codificazioni. I legislatori lo dispongono in esse, per l´applicazione futura, a tutela della loro opera. È un modo tipico con cui essi affermano la loro supremazia sui magistrati giusdicenti o giudicanti»[19].

Sembra quindi che, con l’Impero, tutti gli attori normativi si siano ritrovati sottomessi all’imperatore. In effetti e come abbiamo visto, si è prodotto un monopolio e una concentrazione delle fonti giuridiche (come conseguenza della codificazione e del controllo della sua applicazione ed esecuzione). In tal modo si sono confusi in maniera assoluta potere e diritto? Rispondere a questa domanda richiede innanzitutto lo studio dell’ultima delle fonti già citate: l’interpretatio dei prudentes.

Abbiamo visto come il lavoro dei prudentes non può essere equiparato all’attività d’interpretazione del diritto che eseguono i giuristi nei giorni nostri. Si trattava di una vera e propria attività creatrice. Collettivamente – come comunità scientifica – e dal punto di vista della prassi, alcuni esperti – iuris periti – erano davvero «artefici» del diritto. Quanto affermiamo viene illustrato perfettamente dalla celebre testimonianza di Pomponio: His legibus latis coepit (ut naturaliter evenire solet, ut interpretatio desideraret prudentium auctoritatem) necessariam “necessarium” esse disputatione “disputationem” fori. Haec disputatio et hoc ius, quod sine scripto venit compositum a prudentibus, propria parte aliqua non appellatur, ut ceterae partes iuris suis nominibus designantur, datis propriis nominibus ceteris partibus, sed communi nomine appellatur ius civile[20].

Fino ad Augusto, l’efficacia dei responsa di questi periti è dipesa esclusivamente dall’accoglienza che riusciva ad ottenere nella pratica. È stata questa che ha determinato il maggior o minor riconoscimento sociale – la auctoritas personale – di chi li formulava. Da Augusto, impero, la situazione è mutata: alcuni giuristi sono stati segnalati dall’imperatore per dare i suoi responsa, «ex auctoritate principis». La portata di questo potere è un tema molto discusso dalla dottrina, anche se sembra aver ottenuto un certo consenso il fatto che il giudice, fino ad allora libero di scegliere il dictamen di un giurista o di un altro, si ritrovò a essere vincolato dall’opinione – privilegiata – di tali giuristi (ovviamente, una volta che si fossero pronunciati sulla questione oggetto della controversia)[21]. Comunque per quanto riguarda il primo caso non si è trattato che di un episodio in questa relazione «principe-giuristi».

Conviene ricordare che lo ius respondendi è stato un privilegio che, come tale, non è stato concesso a tutti i giuristi. E nemmeno tutti l’hanno accettato: alcuni l’hanno rifiutato emettendo i loro responsa ex propia auctoritate. Tra tutti questi emerge senza dubbio Labeone, per una doppia ragione: per la sua opposizione al nuovo regime politico e per il fatto di essere il precursore di una nuova metodologia chiamata «casuismo giuridico», che sta all’origine dei grandi successi e del progresso scientifico-giuridico degli anni successivi[22].

D’altra parte, dopo Augusto, non tutti gli imperatori hanno concesso lo ius respondendi; alcuni si sono persino rifiutati di concederlo, affidando la direzione dell’amministrazione e della giustizia a un consiglio di giuristi, il consilium principis. Comincia così la «burocratizzazione» del potere e dell’amministrazione ma anche della giurisprudenza. Parallelamente, i giuristi tendono a limitarsi a profili della loro attività ogni volta più «teorici», abbandonando le occupazioni pratiche (nel loro doppio aspetto del agere e del cavere). In tal modo si distaccano, ad esempio, dalla natura delle loro opere: negli ultimi giuristi classici predominano i libri sulle istituzioni, le monografie o i commenti (all’editto – del pretore, dell’assessore o del governatore provinciale –, allo ius civile, ecc.) a danno della «letteratura problematica».[23]

Si può mettere in risalto quanto segue, a proposito del processo che abbiamo fin qui descritto molto sommariamente.

Durante il Principato e fin dopo l’affermarsi dell’Impero, la giurisprudenza è stata indiscutibilmente una fonte del diritto, indipendente e libera. Ciò è evidenziato anche dalla concessione dello ius respondendi ex auctoritate principi. Infatti, questo ha supposto indirettamente ma in modo esplicito il riconoscimento della giurisprudenza come fonte del diritto.

Il rifiuto o il diniego di determinati imperatori a concederlo deriva probabilmente dal fatto che comportava il riconoscimento della capacità creativa di una comunità scientifica libera, il che si scontrava frontalmente con un potere imperiale ogni giorno più avido di potere. Questo spiega, con ogni probabilità, come gli imperatori preferissero attrarre i giuristi per averli al proprio lato, in modo che formassero parte del loro consilium, prima di concedere loro lo ius respondendi. Tale concessione comportava il riconoscimento della loro esistenza e della loro capacità creativa. La risoluzione del consiglio imperiale, senza dubbio, poteva essere qualificata come il primo passo verso l’anonimato.

La nostra affermazione è confermata ancor più dal fatto che alcuni giuristi hanno continuato a emettere responsa senza il privilegio imperiale e anche questi hanno goduto del riconoscimento sociale.

Tutto questo spiega come l’attività dei prudentes fosse riconosciuta, all’epoca, come una delle fonti del diritto romano. Così come evidenzia gli elenchi di fonti citati da Gaio, Pomponio e Papiniano, in pieno Impero. [24]

La domanda che emerge è la seguente: cosa ha permesso alla giurisprudenza di continuare a essere fonte del diritto «nonostante l’Impero»?

Secondo il mio umile parere, la caratteristica che spiega la forza dei giuristi è proprio il fatto che formavano una comunità scientifica, feconda e libera. È l’intelligenza o la capacità di adeguamento delle loro soluzioni che ha costretto il Principe a rivolgersi a essi (seppur sia favorendo l’opinione di alcuni di loro). Questo accade per due motivi: il primo consiste nel fatto che erano la principale risorsa per risolvere correttamente i conflitti (evidentemente il principe – personalmente – non aveva la loro competenza tecnica)[25]; il secondo, conseguenza del precedente, era il riconoscimento sociale – la auctoritas – di cui godevano.

La giurisprudenza era un’istituzione troppo solida e influente per prescindere dalla loro opinione. In quest’ottica è davvero fondata l’affermazione di Bretone: «i giuristi mantengono nelle loro mani, per una parte rilevante e ancora per lungo tempo, le leve del diritto, continuando a regolarne gli ingranaggi in un quadro politico mutato»[26].

La prova di quanto diciamo – «in negativo» –, si ritrova nella tappa chiamata post-classica: una epoca di «volgarismo», di «impoverimento» e di «pratica rudimentale»[27]. Questa epoca coincide anche con la «scomparsa» dei prudentes. Scompare ogni traccia della comunità scientifica (in particolare in Occidente) e il loro lavoro diventa anonimo; i giuristi perdono la loro libertà, la loro originalità e cadono nell’anonimato. In tale momento si perdono la ricchezza e la fecondità del diritto romano. È quindi evidente come queste siano dipese direttamente dalla giurisprudenza.

Da quanto esposto si possono trarre le conclusioni riportate qui di seguito.

La prima non riguarda direttamente l’argomento di questo articolo ma ci sembra doveroso menzionarla: il miglior diritto della storia è stato il diritto scientifico.

Le altre due che riportiamo qui di seguito hanno direttamente a che fare con l’oggetto della nostra analisi.

È evidente, alla luce delle precedenti affermazioni e di quanto abbiamo visto fino ad ora, quanto sia importante che esista una comunità scientifica. A Roma ha costituito una fonte di diritto d’insuperabile fecondità che per di più ha consentito che il diritto non risiedesse nelle mani dell’imperatore, almeno per duecento anni, nei primi secoli (un periodo abbastanza lungo). Quando ha perso la sua libertà ed è scomparsa (come conseguenza della confusione tra imperatore e giuristi, per effetto della burocratizzazione), il diritto romano si è volgarizzato.

Nonostante tutto, ciò è accaduto nel contesto di un potere politico che ha saputo riconoscere il ruolo e il valore degli attori sociali: la giurisprudenza ha lavorato – nei primi secoli del Impero –, non solo grazie alla tolleranza del principe bensì anche con il suo beneplacito (come dimostra la stessa istituzione dello ius respondendi). Quando, con il Dominato, ha smesso di essere così, la scienza giuridica è scomparsa.

Questi dunque sono i due principali insegnamenti che ci fornisce questo momento storico, per quanto si riferisce alle relazioni «potere-fonti del diritto»:

  • In primo luogo, la necessità di una «classe scientifica» forte. Tale forza, in grado di contrastare il potere politico, è stata conquistata dai giuristi grazie al fatto che stavano realizzando bene il loro compito, ossia quello di offrire soluzioni adeguate ai problemi giuridici.
  • In secondo luogo, è necessario un potere politico in grado di riconoscere il valore del lavoro di una comunità scientifica e di rispettarne l’esistenza.

Gabriel M. Gerez Kraemer

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* Gabriel M. Gerez Kraemer, Profesor de Derecho Romano,  Universidad CEU Cardenal Herrera, Valencia. Email: gerkra@uch.ceu.es

[1] CUQ E., Manuel des institutions juridiques des romains, Paris 1917, p. 40: «La perfection de la science du droit est d´autant plus remarquable que, dans toutes les autres branches du savoir humain, on constate, dès le Ier siècle de l´Empire, des signes de décadence. Seule la jurisprudence suit une marche ascendante jusqu´au temps des Sévères».

[2] In quanto norma approvata dalle assemblee popolari e manifestazione della volontà popolare.

[3] Non è possibile trovare, sull’impronta dei primi articoli dei nostri codici civili o dei nostri testi costituzionali un «elenco delle fonti normative» (Vedasi art. 9 CE e art. 1 Cc.). Non viene nemmeno enunciato esplicitamente, come logica conseguenza della precedente constatazione, il principio – tanto apprezzato dal giurista moderno – di gerarchia normativa.

[4] CUQ E., Manuel des institutions juridiques des romains, Paris 1917, p. 52: «Ce mode de formation du droit est une singularité de la législation romaine; il s´explique par des usages qui nous sont étrangers» (riferendosi alla giurisprudenza – n.d.a).

[5] CUQ E., o. c., p. 52 e 53.

[6] FERNÁNDEZ DE BUJÁN A., Derecho Público Romano, Civitas, 15ª ed., p. 177. Vedasi anche la giurisprudenza riportata nella bibliografia ivi citata, molto completa e attualizzata (p. 179 ss.). In questo contesto emerge anche l’opera di CANNATA C.A., Historia de la Ciencia Jurídica Europea, Tecnos, Madrid 1996.

[7] GIFFARD A.- E., Précis de Droit Romain I, Paris, Dalloz, 1938, p. 45: «Les Edits des magistrats sont une source nouvelle qui n´éxistait pas dans l´ancien Droit et qui n´a point d´équivalent dans notre Droit moderne. C´est quelque chose de trés particulier dans l´histoire générale du Droit et de trés important dans l´histoire du droit romain».

GALLO F., Aspetti peculiari e qualificanti della produzione del diritto nell´esperienza romana,  Rivista di Diritto Romano –IV–, 2004 (http://www.ledonline.it/rivistadirittoromano/); p. 7: «L´elemento dell´esperienza giuridica romana più estraneo alla mentalità attuale, nel campo della produzione e applicazione del diritto, è lo ius praetorium od honorarium … Tale estraneità ne ha reso difficile la comprensione agli stessi romanisti».

[8] GALLO F., “Princeps” e “ius praetorium”, Rivista di Diritto Romano – I –, 2001 (http://www.ledonline.it/rivistadirittoromano/). Con riferimento all’assenza di legittimità costituzionale dei magistrati: CUQ E., o.c., p.23: «Bien que les préteurs et les autres magistrats chargés de la jurisdiction n´aient pas le pouvoir législatif, les clauses insérées dans leurs édits ont été, dés le temps de Cicéron, considerées comme constituant un droit, que l´on appelle droit prétorien ou droit honoraire…».

[9] GALLO F., o. c., p.1.

[10] Vedasi D´ORS A., Derecho Privado Romano, 8ª ed., EUNSA, Pamplona, 1991: §§ 27, 28, 39-41: «Augusto ha rispettato la auctoritas del Senato ed è giunto anche a concederle funzioni che prima spettavano ai comizi … il progresso del diritto privato, da metà del s.I, è dovuto in buona parte alla legislazione senatoriale».

[11] Un elenco delle più importanti ed una esposizione del loro contenuto può essere ritrovata in GUARINO A., Storia del diritto romano, 12ª ed., ed. Jovene, Napoli 1998 (§§ 201ss.). Desideriamo richiamare l’attenzione del lettore su alcune di queste norme, in particolare quelle che si occupavano del matrimonio e delle nascite. Indubbiamente hanno perseguito una finalità molto diversa da quelle che si stanno promulgando attualmente in Spagna e in altri Paesi europei (potremmo dire quasi opposta); infatti Augusto si è trovato con un grave problema demografico che ha cercato di contenere stabilendo l’obbligo di contrarre matrimonio e avere discendenza. É superfluo dire che queste leggi, oltre a essere inoperative, hanno favorito molti brogli (adozioni simulate, matrimoni di convenienza, ecc.). Di fatto, già nell’anno 63 d.C. sono apparse le prime norme dirette a correggere queste infrazioni (SC. Memmianum).

[12] GALLO F., “Princeps” e “ius praetorium” (in totum), Rivista di Diritto Romano – I –, 2001 (http://www.ledonline.it/rivistadirittoromano/).

[13] GALLO F., o. c., p. 11. Tutto ciò è chiaro, se consideriamo – come nel nostro caso – che il giurista Giuliano ha ricevuto effettivamente l’incarico e lo ha portato a compimento.

[14] Vedasi. Gai. 2.57; D.5.3.22 e 40pr. (Paul. 20 ed.); e C.3.31.

[15] D.1.3.12 (Jul. 15 dig.)

[16] D. 1.1.7.1 (Papinianus, 2 definitionum) Ius praetorium est, quod praetores introduxerunt adiuvandi vel supplendi vel corrigendi iuris civilis gratia propter utilitatem publicam. Quod et honorarium dicitur ad honorem praetorum sic nominatum.

[17] Cic., De Orat. 1.48.212: Sin autem quaereretur quisnam iuris consultus vere nominaretur, eum dicerem, qui legum et consuetudinis eius, qua privati in civitate uterentur, et ad respondendum et ad agendum et ad cavendum peritus esset, et ex eo genere Sex. Aelium, M’. Manilium, P. Mucium nominarem.

[18] GALLO F., Aspetti peculiari e qualificanti della produzione del diritto nell´esperienza romana, Rivista di Diritto Romano – IV –, 2004, p. 8 (http://www.ledonline.it/rivistadirittoromano/). Rispetto al diritto romano come sistema: FERNÁNDEZ DE BUJÁN A., o. c. (cap. 1 e 2 e bibliografia ivi citata). Questa concezione «aperta» del diritto può essere riconosciuta nell’unica «definizione» dello ius elaborata dagli stessi giuristi romani, caratterizzandolo come ars, ponendo attenzione ai fini perseguiti e ai criteri strumentali disponibili per raggiungerli: D. 1.1.1pr. (Ulp. 1 Instit.): …nam, ut eleganter celsus definit, ius est ars boni et aequi. Su questo punto si scontrano la prospettiva dei giuristi e quella di Cicerone, maggiormente predisposto all’idea del diritto come di un tutto ordinato, organico, sprovvisto di punti oscuri (Cic. De orat.1.42.190, 2.33.142). Vedasi, a proposito, SCHIAVONE A. (a cura di), Storia del diritto Romano, G. Giappichelli ed., Torino, 2000 (p. 180 ss.: «La rivoluzione scientifica»): «Se l´idea ciceroniana di un ius civile interamente ridotto in forme ellenistiche non venne seguita, lo si deve in gran parte alle scelte di Servio Sulpicio Rufo… Il suo lavoro … rifiutò … ancor più decisamente di Quinto Mucio, ogni orientamento sistematico (in senso ellenistico), forse arrivando persino a far cambiare idea su questo punto al suo grande amico Cicerone».

[19] GALLO F., “Princeps” e “ius praetorium”  p. 13.

[20] D.1.2.2.5 (Pomp. enchir. sing.).

[21] Gai. 1.2 Constant autem iura populi Romani ex legibus, plebiscitis, senatus consultis, constitutionibus principum, edictis eorum, qui ius edicendi habent, responsis prudentium; Gai. 1.7. Responsa prudentium sunt sententiae et opiniones eorum, quibus permissum est iura condere. quorum omnium si in unum sententiae concurrunt, id, quod ita sentiunt, legis uicem optinet; si uero dissentiunt, iudici licet quam uelit sententiam sequi; idque rescripto diui Hadriani significatur.

A tal proposito esiste una letteratura molto ampia; ci limitiamo a segnalare – a titolo di esempio –: SCHULZ F., History of roman legal science, Clarendon Press, Oxford, 1946, p. 111 e ss.; BRETONE M., Storia del diritto romano, Laterza ed., Roma-Bari, 1997 (cap. 8º, «Il giurista e il principe»); SCHIAVONE A. (a cura di), Storia del diritto Romano, G. Giappichelli ed., Torino, 2000 (cap. III – «L´età del Principato»).

[22] Dal primo secolo a.C. si afferma una generazione di giuristi, tra cui emerge Labeone, che incarna questa nuova metodologia. Il giurista cercava di elaborare regole giuridiche con cui risolvere i casi; nonostante ciò e a differenza dei suoi predecessori (i veteres), la elaborava da casi concreti. Il punto di partenza smette di essere la regola e passa ad essere la stessa realtà. Il cliente espone al giurista un caso concreto; a questi compete il fatto di ridurre il caso ai suoi elementi giuridicamente rilevanti dando così luogo al cosiddetto «caso tipo» per cui propone una soluzione che servirà per tutti i casi futuri che possano essere riportati agli stessi elementi. La regola giuridica, e quindi la norma, non viene quindi dedotta da un ordine preesistente, ma bensì è conseguenza di una minuziosa attenzione alla realtà. Gran parte del compito del giurista consiste precisamente nell’identificare tutti quegli elementi del caso che possano essere considerati rilevanti. A proposito del nuovo metodo: CANNATA C.A., o. c., p. 61ss.

[23] Vedasi, al rispetto, SCHULZ F., o. c., p.111 e ss.

[24] Gai. 1.2; D.1.2.2.5 (Pomp. lib. sing. ench.); D.1.1.7 (Pap. 2 definit.).

[25] Proprio per questo motivo, quando sorge la nuova fonte tipica del Principato – le costituzioni imperiali – il principe attrae a sé ed istituisce un consiglio di giuristi. Con il tempo, il peso del consilium principis sarà ogni volta maggiore, così come la burocratizzazione di questa comunità scientifica che andrà poco a poco perdendo la sua libertà e la sua originalità, fino a finire nell’anonimato.

[26] BRETONE M., o. c., p. 211.

[27] D´ORS A., DPR (§§ 9 e 57).

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