Ecologia umana e Bene Comune

di Francesco Botturi

Abstract:

The correlation between ecology and the common good suggests a socio- political reading of the ecological field and an ecological reading of the socio-political sphere. The ecological question has to do with the anthropological aspect and the socio- political good implies the dimension of commonality. This choice leads to a vision that is not universally shared, but which represents an interesting working hypothesis from a theoretical point of view, characterized by the connection of technical-scientific and scientific-social meanings with philosophical-theological categories.

1. Uno sguardo al titolo: distinzioni e prospettiva

La correlazione tra ecologia e bene comune suggerisce una lettura socio-politica dell’ecologico e una lettura ecologica del socio-politico. Operazione di cui valutare le condizioni di possibilità e le conseguenze.

Significativa è la doppia qualifica del termine ecologico in quanto «umano» e di quello del bene in quanto «comune», che rinviano a una certa area culturale, di tradizione cattolica e in specie di tradizione magisteriale pontificia: l’ecologico ha a che fare con l’intero antropologico e il bene socio-politico implica la dimensione della comunanza. Una scelta di campo che apre a una visione non universalmente condivisa, ma che costituisce un’ipotesi di lavoro interessante dal punto di vista teorico, caratterizzata dal collegamento dei significati settoriali tecnoscientifici e scientifico- sociali con metacategorie di senso filosofico-teologiche. La problematica ecologica, infatti, risente in modo decisivo del gioco delle due dimensioni, del significato empirico e del senso antropologico (filosofico e teologico); mentre l’inavvertenza critica di questo nesso conduce all’ideologia come ipostatizzazione di dati analitici o come assolutizzazione di una qualche tesi teorica.

Alla chiarezza del discorso e delle sue componenti credo allora che sia necessaria una distinzione fra tre termini che, logicamente se non linguisticamente, sono sempre in gioco nella problematica in oggetto: ambiente, globo, mondo.

Ambiente. Nozione scientifica descrittiva. L’uomo, in quanto vivente e secondo la sua legge di rapporto metabolico, ha un ambiente di riferimento e rientra sempre in un qualche sistema ecologico (ecosistema) secondo criteri di adattamento e di trasformazione; l’insieme degli ecosistemi esistenti compongono la biosfera. L‘uomo peraltro, in modo già significativo del suo statuto eccezionale, è l’unico vivente potenzialmente in grado di adattarsi a tutti gli ecosistemi.

Globo. Nozione sociale descrittiva, che dice l’effetto storico della vocazione planetaria della tecnostruttura, cioè del complesso delle tecnologie che stanno alla base della contemporanea trasformazione e gestione del pianeta, già attiva in forme di governo tecnocratico (v. qui 2) e aperta obiettivamente alla possibilità storica del primato di un «governo totalizzante della tecnica».

Mondo. Nozione filosofica, che trova in Kant la sua prima formulazione critica, nella forma di una «idea» regolatrice della conoscenza; è ripresa dalla cd «nuova antropologia tedesca» della prima metà del sec. XX (Gehlen, Plessner, Scheler), come categoria metabiologica, relativa all’eccedenza e al decentramento dell’uomo rispetto al suo ambiente; è utilizzata da Husserl come «suolo» presupposto al far esperienza da parte dell’uomo e, nell’ultimo Husserl, come irriducibile contesto umano (Lebenswelt, mondo della vita) dell’esperienza, delle relazioni, della convivenza, della cultura; inclusivo anche di ambiente fisico e apparato scientifico-tecnologico, ma mai incluso da essi; è interpretata da Heidegger come sinonimo di «dimora» o modo umano dell’abitare la terra, modo di esistere e usare la realtà nella memoria dell’essere.

In sintesi, la categoria «mondo» sta a significare l’apertura, esclusivamente umana, sulla realtà tutta e come tutto, in forza della quale l’uomo trascende l’ambiente e autotrascende anche la stessa esperienza, la propria prassi (cfr. K. Wojtyla) e i suoi prodotti (come la tecnica) in una eccedenza di sguardo, di desiderio, di volontà e quindi di senso. Come scrive suggestivamente Gehlen «per lo scoiattolo la formica, sullo stesso albero, non esiste. Per l’uomo non solo esistono entrambi, ma esistono [anche] i monti lontani, e le stelle»; ogni uomo vive se stesso, il contesto culturale, la società «come parti del mondo»1; proprio dell’uomo è infatti la capacità di uno sguardo che collega il particolare contenuto dell’esperienza con l’orizzonte dell’intero (in sostanza il senso dell’essere trascendentale, esistenzialmente il senso della realtà come realtà, idealmente l’essere reale nella sua ampiezza totale ovvero il «mondo»).

Qualche considerazione in merito. Le tre categorie sono di fatto strettamente connesse e quindi si contestualizzano reciprocamente o quasi, ma hanno anche aspetti conflittuali e richiedono un’opera difficile di conciliazione.

Si richiamano perché sono tre dimensioni coesistenti e cointeressanti l’esistenza umana storica. Sono anche conflittuali, perché ambiente e globo si contendono la realtà secondo logiche diverse e anche opposte; d’altra parte sono anche complementari, perché il globo ha bisogno dell’ambiente (materie prime, risorse, contesti naturali, ecc.) e l’ambiente ha bisogno della tecnica per risolvere i suoi problemi e quelli che pone al suo abitante umano. A sua volta, però, il mondo o modo umano di abitare l’ambiente e di usare la tecnica, ha una superiore inclusività (tutto infatti accade per l’uomo nell’orizzonte del suo avere mondo); come afferma in modo persuasivo Benedetto XVI, «l’uomo interpreta e modella l’ambiente naturale [e similmente la tecnica] mediante la cultura […]»2, con la quale non può non gestire i suoi ambienti, la sua tecnica e i loro rapporti. Da questo punto di vista fondativo è inevitabile un «antropocentrismo» (passivo e attivo, responsabile e dominativo).

2. Tecnocrazia (vs democrazia)

Se, dunque, ciò di cui stiamo parlando è l’ambiente come contenuto del mondo umano in quanto umano e del sapere e della cultura ecologica in prospettiva politica, è opportuna una riflessione circa gli assi cartesiani attuali del «mondo politico».

Oggi la crisi dell’universale politico evidenzia che l’esaurimento della carica propulsiva delle soluzioni moderne (Stato e Mercato) del politico, apre su due prospettive che si fronteggiano come termini di un’alternativa storica interna alla grande politica del XXI secolo; entrambe organizzate sui rapporti di potere tra tecnologia e società, ma con priorità inversa.

La prima prospettiva ha al centro l’universalità tecnocratica, che non nasce da tradizioni di cultura sociale, né da idee politiche accomunanti e tanto meno dal vissuto civile, ma che si identifica con la struttura di potere metaculturale e metasociale della tecnostruttura (tecnosfera, biosfera, infosfera, sfera finanziaria,).

Il tema della globalizzazione è in proposto eloquente: da una parte è una universalizzazione empirica del mondo, dall’altra assume il valore simbolico di un’ideale mondializzazione (auspicata o avversata che sia). Di fatto la globalizzazione «globalizza», cioè procede a una unificazione del mondo su base tecnica ed economico-finanziaria e apre insieme un vastissimo spazio di compresenza di luoghi, popoli, culture, interpretata spesso come una nuova ideale universalità aconflittuale; in realtà aggiorna il modello illuministico-positivista nella forma di una tecno-scienza investita di valore etico. Infatti, la globalizzazione ha un inedito potere di uniformare il globo ma non di accomunare il mondo, di far coesistere estensivamente ma non di far convivere intensivamente, perché la sua tecnicità infrastrutturale è fatta di generalità pratico-operative e di procedure efficienti, non di realtà superiori accomunanti. In altri termini, il globale è il prodotto di tecnologie diffuse, che unificano la realtà sociale solo come uniformità di mezzi, di linguaggi e strutture, cioè come «globo» tecnologico, ma che non danno fondamento alla comunanza tra soggetti, comunità, culture, tradizioni, che non mettono in comunicazione (incontro, confronto, dialogo, conflitto) universali antropologici, cioè, non danno ragioni di unità al «mondo» umano. Il globo tecnologico, d’altra parte, induce il pensiero ideologico che solo la grande tecnostruttura può risolvere i problemi delle società avanzate e con essi quelli dell’intero pianeta, avendo essa una portata universalista che supera quella delle culture, religioni, morali e politiche, e quindi ha titolo per aspirare al governo reale del mondo; la globalità tecnologica si fa così tecnocrazia.

L’operazione tecnocratica, d’altra parte, è favorita da un’imponente base materiale e da una poderosa pressione delle esigenze che la tecnostruttura porta con sé: il suo carattere elitario a livello di invenzione, di produzione e di gestione delle tecnologie, il suo bisogno di ingenti risorse umane e finanziarie per la ricerca avanzata, la produzione e la commercializzazione; in sintesi, la tecnostruttura di estensione planetaria porta con sé la spinta oggettiva verso la massima concentrazione di potere tecnico, economico, politico e il modello tecnocratico cerca di dare efficienza politica al primato della potenza tecnica.

In conclusione, se le idee del sovranismo statuale moderno avevano ottenuto la loro supremazia al prezzo della riduzione e della subordinazione delle realtà comunitarie (sociali, religiose, culturali), la sovversione tecnocratica degli universali moderni, a sua volta, avviene in forza delle procedure tecniche e burocratiche, dell’ammodernamento finanziario del mercato, della riduzione degli spazi di esercizio democratico, della proliferazione di lobbies transnazionali nuove e potenti3. In sintesi, nel regime tecnocratico si profila una sindrome tipica in cui concorrono l’ideologia tecnocratica con il suo apparato, l’individualismo libertario e il narcisismo organizzato della società del consumo, la cultura dei nuovi diritti nobilitati dalla tradizione dei diritti umani, e anche forme aggregative comunitarie residuali rispetto agli assetti del potere, impotenti a costituire effettiva alternativa ed esposte a forme di degenerazione comunitarista.

Entro queste coordinate prende corpo il tentativo attuale di gestire verticisticamente il “mondo” delle relazioni e delle nazioni (identità culturali, tradizione simboliche, comunanze sociali, ecc.) in funzione di un “globo” tecnocratico. Un regime politico che va in senso opposto alla possibilità di un’assunzione sociale responsabile del proprio bene comune.

3. Nuova comunanza civile

La seconda prospettiva può essere ricondotta a quella che J.C. Alexander chiama «la sfera della solidarietà sociale universalizzante». L’attuale crisi del politico, cioè, apre dialetticamente lo spazio per il pensiero di una nuova società civile, rispetto alla sua concettualizzazione moderna. La postmodernità ha il vantaggio di mostrare sia l’esaurimento storico (anche se non ideologico) dello statalismo, sia l’irriducibilità della società civile al mercato. Si apre lo spazio, cioè, per ri-pensare il civile come ambito pubblico dotato della sua peculiare plurima vita associativa. Ciò che qualifica la nuova concezione del civile è il valore antropologico della relazione. L’idea del nuovo civile attribuisce funzione sociale fondativa e valore di risorsa alla relazione tra soggetti: il civile è un’identità che si produce attraverso un’«eccedenza relazionale».

In altri termini, se non si accetta che sia la tecno-struttura a dar senso (scopi, valori e norme) all’esistenza storico-sociale, non c’è alternativa se non nella rivalutazione del protagonismo del «mondo della vita», che a partire dalle sue forme comunitarie assume rilievo sociale. Solo a questa condizione diventa ragionevole affrontare un duro lavoro affinché il grande potere tenga conto del mondo civile delle relazioni e lasci spazio alla sua funzione umanizzante; ben sapendo che, perché si dia un tessuto relazionale comunitario, civile e societario, sono necessarie condizioni esigenti, quali la messa in campo e in gioco di identità personali e sociali, di motivazione non solo strumentali dell’agire, di pratiche della reciprocità dello scambio simbolico e di elaborazione stabile e riflessiva di una cultura conforme.

In questa prospettiva la problematica del «comune» assume un rilievo primario: dall’avere in comune dei beni in quanto individui al condividere dei beni in quanto soggetti in relazione. È questo il caso dei più preziosi tra i beni sociali, ovvero i “beni relazionali”, in cui la relazione non è solo modo o condizione del bene, ma è costitutiva del bene stesso, in quanto bene «fatto» di relazioni. La tematica dei cd “beni comuni” evidenzia l’implicazione relazionale di beni fondamentali, come l’aria, l’acqua, il cibo, ecc.; ma esistono beni comuni che sono tali in quanto hanno la relazione non solo come componente funzionale a un certo contenuto, bensì come il loro stesso principale costituente, quali la famiglia, i luoghi di educazione, i luoghi di cura, le imprese cooperative, ecc.

Attraverso la questione dei beni comuni e dei beni relazionali torna dunque di attualità la dimensione della comunanza e la realtà della comunità. Che cosa dobbiamo intendere con questo termine? La definizione del significato della communitas si dà già nell’etimologia cum e munus, cioè del condividere un ricevuto/dono e del cooperare al compito che vi è connesso. Non è sufficiente perché vi sia comunità che si stia e si operi insieme, ma è necessario che questo sia fondato, motivato e orientato da qualcosa che dia ragione all’essere insieme e lo qualifichi. Qualcosa che si ponga come terzo tra i soggetti in relazione: terzietà del munus che in parte è realtà preziosa già posseduta, in parte è realtà da preservare, curare e trasmettere come realtà ancora e sempre da attuare. Ogni comunità di ogni tipo e livello è identificata dal contenuto del suo munus riconosciuto ed è insieme abilitata funzionalmente da tale oggettività accomunante a essere principio sociale.

A contrario, c’è anche una vasta fenomenologia di molte forme comunitarie (comunità-piolo, comunità virtuali, comunità grembo, tribù, gruppi neofondamentalisti), in cui sono assenti i tratti caratterizzanti della comunanza, a conferma del fatto che la grande parabola della modernità sembra non solo aver distrutto in gran parte il tessuto comunitario della cultura occidentale e di averne offuscato l’idea, ma anche di averne destrutturato il soggetto. D’altra parte, resta vero che, benché sfigurata e occultata, l’istanza comunitaria pulsa nel profondo della cultura occidentale, perché – come afferma D. Hervieu-Léger – «anche nella società dell’individualismo trionfante e della comunicazione di massa» la comunità resta «il luogo dell’elaborazione del legame sociale elementare»; in opposizione all’errore più grave delle filosofie politiche moderne dopo Hobbes, che spetti alle istituzioni il compito di fondare la convivenza, anticipazione concettuale dell’idea che una tecno- struttura possa sostituire il mondo-della-vita.

 

4. Bene comune sociale e politico

È il bene comune (sociale e politico), in quanto forma più comprensiva della comunanza, che fornisce ai beni comuni e ai beni relazionali il loro pieno rilievo. Il bene comune politico, infatti, è quel bene che è istituito allo scopo di garantire l’essenziale necessario per una vita associata complessa degna dell’umanità dei suoi membri.

Concetto evidentemente formale, che non definisce a priori i contenuti delle realtà socio-politiche, ma fornisce criteri generali per realtà storicamente variabili, dalla civitas medievale all’eventuale struttura multipolare della comunità sovranazionale planetaria e delle sue localizzazioni regionali. La nozione di «bene comune» non è anzitutto di natura morale e non vincola a una certa etica sostantiva, anche se si capisce che senza una qualche iniziativa morale tale bene non potrebbe esistere e sussistere; il bene comune non è qualcosa che preesiste alle concrete realtà sociali, come fosse un insieme di beni essenziali, una tavola di valori o un progetto di città ideale, bensì è la loro fondamentale condizione d’esistenza condivisa. Il bene comune è piuttosto la condizione di possibilità «ontologica» (di ontologia sociale) e il suo principio strutturale.

Per questo il primato va allo spontaneo costituirsi della società detta civile per distinzione dal politico che ne è l’inevitabile mediazione istituzionale. La comunanza originaria infatti è quella civile, che porta in sé la sua finalità fondatrice di cura, salvaguardia e realizzazione storica delle relazioni, anzitutto comunitarie, di cui è fatta. L’ontologia dell’essere sociale è l’essere-in-comune, primariamente come scambio simbolico di riferimento e di legame con l’altro, donde l’effetto emergente dell’essere in-comunicazione, in-interazione, in-sinergia. In tal senso l’ontologia sociale consiste nella stessa convivenza intesa quale bene sociale (dono e compito) condiviso, «iperbene» della rete relazionale attiva e cooperativa, dialettica e concorrenziale, in sintesi nella comunicazione sociale di cui si sostanzia l’essere-in-società.

Dunque, il bene comune di una società è quel bene umano, condiviso fin dall’inizio, che è in comune tra persone appartenenti a una stessa realtà sociale; in sintesi, è il bene del loro stesso essere in comune / in comunicazione per una vita buona partecipata. Per questo esige di essere protetto e garantito, cioè consapevolmente assunto e amministrato, cioè di diventare bene comune politico, istituzionalizzato e normativo. Il corpo politico nasce quando la società riconosce la condizione relazionale che la costituisce, giudica che essa sia bene e si istituisce come fine comune vincolante. Il potere politico coerentemente inteso, perciò, non ha per oggetto la società, né aggiunge ad essa un’ulteriore finalità, bensì ha la società come suo fine, che esso assume come suo compito responsabile. In questo senso il potere politico (corretto) costituisce l’autofinalizzazione consapevole di una società umana nel suo insieme.

In questa visione non è dunque il potere politico che istituisce il bene comune ma, al contrario, è il bene comune, unitario e unificante la realtà sociale, che esige e legittima un’auctoritas, un potere garante dell’istituzione permanente dello spazio della comunicazione, cioè del confronto tra i diversi, del conflitto, della mediazione e della cooperazione, prioritario rispetto a ogni possibile contenuto storico determinato del bene comune stesso. In questo senso garantire e gestire il bene comune mira alla buona vita umana del popolo, in quanto fine di fatto del tutto sociale e fine di diritto dell’«opera politica». In quanto poi bene che corre tra soggetti personali aggregati, il bene comune deve essere del tutto sociale e insieme delle parti, cioè bene delle parti compatibile con quello del tutto sociale. Per questo il bene comune non è né il bene del tutto come tale a prescindere da quello delle persone e delle comunità che lo compongono (secondo la visione totalitaria della cosa), né è la somma dei beni delle singole persone o gruppi (secondo la visione liberale classica e quella utilitarista).

Se fin qui abbiamo considerato l’aspetto «formale» del bene comune politico, qualcosa va detto anche circa il suo aspetto «materiale». Il fine totale del bene comune, infatti, si storicizza attraverso fini generali che individuano grandi ambiti di beni fondamentali indispensabili. Se, infatti, la condivisione del vincolo comunicativo è un assoluto istitutivo della convivenza politica, l’incontro-scontro delle diverse tradizioni e concezioni comprensive delimita un campo relativo di condivisioni e di esclusioni che si definisce e si ridefinisce storicamente, secondo una «dialettica delle tradizioni» (MacIntyre) culturali e politiche.

Il senso formale del bene è appunto «forma» del bene comune «materiale», che può essere schematizzato con riferimento a grandi ordini di beni, come quello politico della pace, quello economico dello standard di vita, quello morale di un ethos della convivenza sensibile alla dimensione comune, che si specificano nei beni reali e simbolici, di servizio, economici, sociali, istituzionali, culturali, valoriali, ecc., sui quali hanno una fortissima incidenza i contesti relazionali, le mutevoli circostanze storiche e le specifiche contrattazioni politiche e, a maggior ragione, i grandi cambiamenti socio- culturali d’epoca. In altri termini, dal punto di visto contenutistico il bene comune non è una misura fissata una volta per tutte e il suo impegno realizzativo è a geometria variabile, secondo il mutare delle condizioni storiche, culturali e sociali. A livello della determinazione del bene comune «materiale», vale l’idea rawlsiana dell’overlapping consensus, per cui la politica del bene comune è condizionata nelle sue negoziazioni dal mutevole consenso circa gli oggetti dei diversi ambiti decisionali

A questo livello vige, di conseguenza, la logica della proceduralizzazione e della contrattazione dei rapporti che le diverse forze sociali e le differenti tradizioni culturali intrattengono tra loro, secondo le regole della pressione degli interessi, della discussione razionale, della persuasione, ecc., che danno luogo alla concreta fisionomia del bene pubblico, oggetto di protezione giuridica e di promozione politica. Il tal modo, sul canovaccio stabile del progetto condiviso e regolato di comunicazione, il pluralismo può trovare lo spazio delle sue innumerevoli variazioni.

5. Bene comune e questione ecologica

Alla globalizzazione, dunque, non basta contrapporre la problematica ambientale, come se questa possedesse in sé criteri teorici e pratici sufficienti a riorientare il corso della storia planetaria. Piuttosto la polarizzazione globalizzazione/ambiente (cfr. tecnica/natura) porta a un conflitto senza via di uscita a motivo del legame oggettivo che li lega – come già dicevo −, sia in quanto l’uno è irriducibile all’altro (impossibilità di un regime sociale puramente naturalistico o esclusivamente tecnicistico), sia in quanto sono reciprocamente indispensabili.

Piuttosto è decisivo riconoscere il fatto che tecnosfera e biosfera non sono in grado da sole di fondare né una cultura della tecnica, né una cultura dell’ambiente e che la tecnosfera e la biosfera non sono portatrici di un significato interale in grado di dare loro fondamento assiologico, a misura del «mondo» antropologico, dei suoi bisogni, del suo abitare il mondo e di costituire con-vivenza.

Invece, per quell’aspetto per cui la conoscenza ecologica è anche una conoscenza pratica, cioè un conoscere per intervenire in vista del risanamento o del perfezionamento dell’ambiente, proprio il criterio del bene comune, in quanto principio costruttore della comunanza sociale, può essere regolatore complessivo. Questo non significa che il bene comune ambientale debba costituire la nuova sintesi del bene comune economico, sociale, etico e politico, come sembra proporre l’ecologismo più spinto, per il quale il bene ambientale in specie in termini di bene climatico, ha una portata universale che sovrasta e condiziona ogni altro bene.

In realtà, la ragionevolezza di questa tesi è tale solo se si identifica il bene comune in termini quantitativi, quale somma di tutti i beni particolare o – in questo caso – in quanto bene più grande; mentre, per quanto rilevante sia un bene e il corrispettivo bisogno, non può mai uguagliare il bene qualitativamente primario della comunanza, il fatto societario originario e quello politico fondamentale dell’essere e del dover essere in-comune, che costituisce anche il criterio di valutazione di ogni altro bene di cui prendersi cura. Ora il bene ambientale ha certamente una grande rilevanza planetaria e qualitativa, che lo rende oggi uno degli ambiti fondamentali del bene comune; ma proprio per questo non può (se non ideologicamente) istituirsi come bene socio- politico architettonico e sostituirsi al criterio socio-politico unitario del bene comune e alla sua sintesi politica.

Questa irriducibile polarità (bene ecologico e bene comune; ecologico e politico) ha un’importanza che diventa evidente a fronte di un inquietante futuribile. Si potrebbe ipotizzare, infatti, una conversione ecologica da parte dei grandi poteri tecnocratici, qualora questi la ritenessero un’operazione «razionale» in ordine al suo rendimento economico, finanziario e socio-politico. Si assisterebbe così al passaggio (definitivo) dalla fase romantica ribellista dell’ambientalismo alla sua normalizzazione elitaria e autoritaria. L’ecologismo diverrebbe una variante di un globalismo tecnocratico trionfante. Come si vede, il bene ambientale non può fungere da criterio sintetico del bene comune, perché questo ha una natura diversa e si colloca su un piano specifico con propri criteri sociali e politici, che non sono quelli tecnici e tantomeno tecnocratici, ma quelli della vita civile e del governo politico. Perciò un ordinamento delle competenze circa la res ecologica potrebbe essere rappresentato schematicamente con un’immagine a cerchi concentrici, da quello più interno di tutte le competenze tecno-scientifiche ad uno più ampio delle visioni e concezioni culturali e sociali, a quello più esterno della discussione deliberativa e del governo politico.

Per questo è significativa la dizione ecologia integrale di papa Francesco, che implica appunto l’idea della complessità e della multidimensionalità della questione ecologica che per questo non ha nelle competenze tecniche e delle diverse scienze (comprese quelle sociali) la chiave di lettura sufficiente13. Da questo punto di vista il contributo dell’enciclica Laudato si’ costituisce il più ampio e argomentato testo sulla questione ecologica di impronta umanista. Prescindendo ora dai suoi fondamenti teologici e filosofico-metafisici (Trinità, creazione, unità relazionale e interdipendenza universale) che richiedono uno specifico approfondimento, in più diretta connessione con il tema del bene comune l’enciclica presenta un’interessante contestualizzazione, riassumibile nei temi della critica alla prospettiva tecnocratica, del bisogno di una nuova impostazione culturale, del cambiamento del modello dello sviluppo globale e, quindi, nell’esigenza e anche nella possibilità di una nuova ampiezza del discorso politico; temi a loro volta organizzati sulle tre idee dell’amore civile e politico, del principio del bene comune e del principio di giustizia in particolare tra generazioni. In tal modo l’enciclica amplia al massimo la categoria ecologica che diventa il nome di una autentica “utopia”, progetto ideale di trasformazione culturale, economica, sociale e ambientale dell’intero mondo relazionale umano, che include «una critica dei “miti” della modernità basati sulla ragione strumentale (individualismo, progresso indefinito, concorrenza, consumismo, mercato senza regole)» e recupera «i diversi livelli dell’equilibrio ecologico: quello interiore con se stessi, , quello solidale con gli altri, quello naturale con tutti gli esseri viventi, quello spirituale con Dio».

In tutto ciò il principio del bene comune è uno dei punti fondamentali di riferimento a cui l’attuale circostanza storica dà un inaspettato rilievo. Tale riferimento − va notato − è assunto dall’enciclica nella formulazione che ne dà la costituzione conciliare Gaudium et spes del Concilio, che è diversa rispetto a quella classica della teologia scolastica e della tradizione del magistero sociale papale. Il principio del bene comune infatti – dice il testo della Gaudium et spes ripreso come tale nella Laudato si’ – è «l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono tanto ai gruppi quanto ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente». In questa formulazione il principio del bene comune si identifica con un valore finalistico di perfezione che esige condizioni appropriate nel sociale. La visione tradizionale, invece, intende il bene comune, quale principio ontologico costitutivo del sociale stesso, tale per cui non si può dare forma associata umana di qualunque livello se non in forza del comune riconoscimento di un bene fondamentale condiviso (che a livello di intera società si identifica con il bene normativo dello stesso essere-in-comune, come si diceva).

Che questa interpretazione del principio sia da preferire dipende dal fatto che essa è fondativa ̶ in grado anche di includere l’altro significato di bene comune, mentre non vale il reciproco ̶ , e come tale afferma l’essenzialità della comunanza antropologica, storica e sociale che la prevalente filosofia sociale e politica moderna ha dissipato e che invece torna come condizione indispensabile proprio per quella «nuova impostazione culturale» che la Laudato si’ invoca, che intende superare in radice i limiti dei collettivismi e degli individualismi di fine modernità.

Di fatto, l’enciclica stessa suggerisce prospettive di vita sociale che alludono a un fondamento «comunitario»: l’amore non è solo una qualità dei rapporti intersoggettivi, ma «è anche amore civile e politico», come «amore per la società e impegno per il bene comune» (n. 231); «ai problemi sociali si risponde con reti comunitarie» (n. 219) e infatti «la conversione ecologica […] è anche una conversione comunitaria» e «la cura per la natura è parte di uno stile di vita che implica capacità di vivere insieme e di comunione» (nn. 219 e 228); ecc. D’altra parte, senza tale sfondo comunitario di bene condiviso accomunante, la «cura della casa comune» potrebbe essere preso come un nobile appello astrattamente universalistico, che prescinde dall’universale concreto delle comunità, delle società civili, del loro bene comune e della loro funzione attiva.

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