Un idiota di famiglia: il diritto dei senza voce

di Lorenzo Scillitani

Abstract: reconstructing much of Gustave Flaubert’s literary journey, Sartre elaborates an original philosophical interpretation of the anthropology and psychoanalysis of the family in an existentialist key. In the Idiot de la famille, an impressive work left unfinished and published posthumously, there is an exemplification of the subject of the human being as a universal Singular, illustrated by the Questions de méthode. Critically resuming some salient passages of the psychic constitution of the child, non-speaking Flaubert, this article focuses in particular on the modern reconfiguration of medicine: starting from being an integral part of a more comprehensive approach to the human being, medicine moves towards an expertise at the service of an intellectualistic project. This reading lays the foundations of a possible overall reconsideration of modern science, which for some disturbing aspects presents itself as practice that makes its criteria of truth on operational effectiveness. This truth is indifferent to a normative dimension that transcends empirical data, and therefore indifferent to law.

«La cultura della modernità, nel riformulare dalle radici i propri criteri epistemologici e antropologici fondamentali, ha obiettivamente cercato di elaborare tutti i presupposti per la creazione di un nuovo (per quanto finora mai completamente esperito) modello non relazionale di prassi terapeutica. II disagio della medicina, l’eterno, strutturale disagio della medicina (…) viene così ad innestarsi in quelle scissioni della dialettica esistenziale, nelle quali è stata lucidamente vista la causa ultima della violenza che tanto contrassegna il nostro tempo, e acquista così l’ulteriore configurazione di anticipazione, lucidamente precorritrice, di un assoluto, e forse irreversibile, disagio futuro». Se con relazionalità s’intende, con Sergio Cotta, la dimensione ontologica che consente il reciproco riconoscimento di «io-soggetti» nella loro singolarità-alterità, la medicina può offrire alla riflessione sul diritto l’esempio di un sapere legato all’esperienza di un rapporto (tra medico e paziente) in cui entra in gioco la possibilità di una comunicazione (inter-personale) non riducibile al dato statistico-sperimentale che forma l’oggetto di discipline come la biologia, la chimica, la farmacologia.

L’osservazione dalla quale le presenti riflessioni prendono le mosse è che la cultura della modernità ha tentato di elaborare (con esiti che sono sotto gli occhi di tutti: il pensiero va immediatamente alle manipolazioni genetiche) un modello scientifico di sapere/prassi medico-terapeutici che non risponde ai caratteri di relazionalità prima accennati. La riduzione della patologia a mera dimensione del possibile biologico è uno degli aspetti più indicativi di un processo che ha comportato il progressivo assorbimento della medicina nell’area delle scienze sperimentali. In particolare, la morte e la malattia hanno perduto il carattere di eventi-limite esistenzialmente inquietanti, il cui pensiero e la cui esperienza portano ad interrogarsi circa il senso della vita e circa la possibilità di evitare il male. Morte e malattia diventano meri eventi biologici in cui si esercitano una ricerca e una sperimentazione che, per principio, trattano il corpo come puro organismo e, quindi, le manifestazioni patologiche come pure sequenze chimico-fisiche. La denaturalizzazione della morte e della malattia è il fenomeno che, tra gli altri ma forse più di altri, denuncia l’aggravarsi di quel disagio connaturato di cui la medicina soffre, e che lo scientismo tecnologico bio-riduzionista porta alle conseguenze estreme di una radicale messa in discussione (se non in pericolo) dello statuto ontologico della medicina stessa.

Morte e malattia appaiono proprio come funzione di un progetto intellettualistico di pratica del sapere, che prende corpo nell’esperienza medico-chirurgica di una «meraviglia» della civiltà e della «ideologia borghese» del primo ‘800: il dottor Achille-Cléophas Flaubert, padre del più celebre scrittore, Gustave. Chi intenda approfondire il discorso interno alle origini di quel processo di razionalizzazione matematico-sperimentale che ha condotto la medicina moderna a riformulare dalle radici – come ricordava Francesco D’Agostino – i propri criteri epistemologici e antropologici fondamentali, può cogliere in uno studio di Jean Paul Sartre su Flaubert spunti di interesse che possono tornare utili, più in generale, alla comprensione dei rapporti tra filosofia, psicoanalisi, medicina e diritto che costituiscono Io sfondo sul quale si muove il presente lavoro. Nell’Idiot de la famille di Sartre si può infatti ritrovare, dispiegata nel vissuto familiare (della famiglia di Flaubert), la rappresentazione di un modello non relazionale di prassi terapeutica, la cui applicazione passa attraverso il rapporto padre-figlio, determinando con questo una serie di nessi, reazioni, problemi che vanno a comporre il quadro di quella che si caratterizzerà come la nevrosi di Gustave Flaubert.

Già nelle Questions de méthode, premesse alla Critica della ragione dialettica, Sartre aveva abbozzato le linee portanti di un metodo dialettico, esistenzialista, progressivo (verso il risultato obiettivo)-regressivo(risalente alla condizione delle origini) e analitico-sintetico, tale da ritrovare l’oggetto studiato nella sua profondità e nella sua singolarità, irriducibili come tali all’integrazione storico-totalizzante operata dal metodo dialettico marxista. Ed è proprio nella profondità e nella singolarità dell’essere quel tale, bambino, poi adolescente, che Flaubert ha vissuto la sua condizione futura, da un lato di cadetto frustrato dall’ingombrante presenza del fratello primogenito, meritevole di studiare Medicina (ossia – per la mentalità dell’epoca – di appartenere all’élite piccolo-borghese), dall’altro di condannato dal suo status di minus habens alla carriera giuridica (interpretata come alienazione definitiva alla piccola borghesia). Flaubert «visse anche la morte borghese, questa solitudine che ci accompagna fin dalla nascita, ma la visse attraverso le strutture della famiglia»: strutture semi-domestiche, di stampo feudale, ereditate dall’Ancien Régime, ma messe al servizio di un progetto liberal-borghese di affermazione sociale, impersonato dal dottor Flaubert.

II dottor Flaubert ci è presentato come un intellettuale piccolo-borghese, figlio della Rivoluzione francese, probabilmente non indifferente all’influsso esercitato dall’ateismo materialista del secolo dei Lumi, allontanatosi dalla religione proprio a causa della sua attività di chirurgo e di scienziato, e nello stesso tempo proprietario terriero, pater familias autoritario, preoccupato di legittimare la sua autorità con il richiamo, necessariamente metaindividualistico e metautilitaristico, all’unità della grande «impresa», della Maison. Quest’orgoglioso e nervoso chef de famille, di fronte agli insuccessi registrati dal figlio nel processo di apprendimento linguistico (il piccolo Gustave comincerà a scrivere solo a sette anni), dirigerà il suo «colpo d’occhio chirurgico» sull’incapacità, sull’«insufficienza» dell’enfant Flaubert con lo stesso accanimento e con lo stesso spirito analitico di penetrazione che distingueva il suo mestiere, che era di trattare il corpo umano come un oggetto. Giudicato come «mal riuscito», in base ad un criterio statistico di anormalità, il piccolo Gustave sarà trattato a sua volta come l’oggetto dello sguardo paterno il quale, piuttosto che terapeutico, è diagnostico-dissezionale-operatorio, secondo quell’unità di sapere e prassi che si incarna nel praticante-filosofo, figura paradigmatica della scienza meccanicista. Sotto questo implacabile «sguardo inquisitorio» verrà a determinarsi, nei primi anni di vita, la costituzione psichica di Flaubert, già «male amato» da una madre fredda e delusa. Ma che cosa cerca questo sguardo? A quale oggetto volge la sua attenzione? L’oggetto del sapere costruito sui principi cartesiani è un corpo al quale basta essere tale, ma tale in quanto organismo, «cioé, in qualche modo, come diverso rispetto all’uomo, come portatore di una identità propria e distinta». Il corpo, secondo la scienza riduzionista, è Io strumento di produzione della Verità – intesa come Prassi. Soltanto in apparenza il corpo – messo al posto dell’uomo – diventa l’altro nella relazione terapeutica, perché il «famoso spirito di osservazione», che dirige la ricerca, e la mano e il bisturi, del medico-analista, de-compone i corpi – come le anime, soggiungerà Flaubert – per poi ri-comporli (ovvero decomporli all’incontrario, alla Lavoisier) in un incessante processo di ri-produzione dell’immagine che il medesimo osservatore-filosofo-scienziato proietta sull’oggetto sotto osservazione. L’immagine proiettata corrisponde all’eterno ritorno dell’Uguale: di un sapere che ritorna su sé stesso nel movimento circolare di una verità che «si fa» prassi secondo un’inflessibile legge di necessità. L’«altro» viene così ad essere abolito, perché la verità è già da sempre «oggettivata» in una prassi che è il riflettersi di un cervello in rappresentazione di sé stesso (la Logica analitica). Abolito l’altro, viene a mancare la ragion d’essere della «relazione», in luogo della quale appare un processo di ripetizione che è uno sdoppiamento all’infinito dell’osservatore-osservato, dell’operatore-operato. È interessante vedere il modo in cui ciò accade all’interno del rapporto fra il dottor Flaubert e il figlio Achille (il primogenito, il «riuscito»), in particolare nel momento finale dell’intervento chirurgico del figlio col/sul padre. Achille è la «creatura» di suo padre, nel senso che ne è Io specchio: anello di quella catena immortale che si chiama Achille-Cléophas, figlio-oggetto della Scienza e dell’Orgoglio paterni, il prototipo familiare dell’intelligenza prefabbricata, destinato a diventare il suo proprio padre, erede universale di un’InteIIigenza che è l’inventario superbo del patrimonio Flaubert. Achille è il destinatario di un mandato a ripetere la vita paterna. L’affetto «pratico» che Achille-Cléophas nutre per il figlio, in quanto non si distingue dal lavoro in comune, arriva all’estrema conseguenza: il dottor Flaubert si ammala di tumore alla coscia, impone suo figlio come operatore, infine muore dopo l’operazione. Nota Sartre: «si riconoscerà in questa scelta un rito di successione, la trasmissione di potere più rigorosa: è l’operatore operato».

È il compimento della riproduzione della vita e della professione sanitaria, del sapere-potere e della prassi del padre fino alla trasformazione del figlio nell’ alter ego (del padre), nel sostituto che opera «per ripetizione» – rituale. II dottor Flaubert crede di essere ri-creato dall’azione incisiva dei ferri: si rende passivo per ricrearsi attivo sotto la mano di un figlio il cui essere profondo è il personaggio-padre. Il corpo viene vissuto dal padre come spoglia mortale da seppellire, perché sopravviva, attraverso il rito sacrificale dell’operazione, l’essenza familiare, il Padre eterno. Sartre fa dire al dottor Flaubert: «Io ti ho generato, tu mi hai fatto: siamo liberi; o forse no: non del tutto; il mio sangue scorre sotto il tuo coltello, è la trasfusione dei poteri: morendo per mano tua, sento il dolore del mana che fugge ed entra nel tuo corpo». Sangue, corpo, trasfusione: la continuità dell’impresa Flaubert si realizza nel tessuto di una realtà carnale, manipolata e asservita ad una metafisica che attinge dal misticismo del mana la sua forza di suggestione. Nel dottor Achille Flaubert, che si fa docile strumento di un suicidio sacro, l’intellettualismo razionalistico si appella al vitalismo irrazionalistico, nell’estremo tentativo di salvare dall’insignificanza la morte e la malattia, ma anche nel non confessato proposito di mettere a nudo la sua radice. La malattia e la morte sono vissute come luogo di esercizio di una verità che si spaccia per verità di ragione, quando invece si tratta della verità (non rivelata) della fede maniacale-ossessiva in un’Idea dietro la quale si nasconde un’intenzione di parte a scopo scientifico.

In Rêve d’enfer, un breve racconto scritto a sedici anni (1837), Gustave Flaubert aveva intravisto questa concezione profonda – ma senza verità– del sapere, dove Io sdoppiamento all’infinito dell’osservatore/osservato (e dell’operatore/operato) sostituisce, in realtà, alla relazione pratico-terapeutica (fondata sulla differenza/alterità) l’omogeneità della conoscenza e del conosciuto, secondo un sapere/potere reso tale dalla coincidenza (meccanicamente) «casuale» del determinismo psicologico con la necessità logica. Precisa al riguardo Sartre: «la Scienza – per lo scientismo – non è affatto una ricerca autonoma della verità (…). L’intelligenza scientifica, lungi dall’essere una ricerca, un desiderio, una domanda, si confonde col puro movimento della materia. I pensieri dello scienziato (…) non sono altro che l’Universo, il quale si realizza con nessi logici attraverso un microcosmo che i fattori esterni hanno reso – mediante la repressione sistematica del pathos e dell’istinto – stupido e rigoroso come la materia, quella materia di cui esso è fatto». 

      L’essere (ossia la materia) e la conoscenza sono identici: trattasi di identità ontologica, e non soltanto logica. Continua Sartre: «se la conoscenza non si costituisce attraverso un superamento sintetico e pratico del conoscibile, la soggettività dello sperimentatore deve essere eliminata d’urgenza per lasciar sviluppare le associazioni empiriche e i nessi logici come un pezzo di materia, retto dalle sue proprie leggi in esteriorità». Il protagonista di Rêve d’enfer, Almaroës, un androide, una macchina di precisione che «lavora» il sapere, che è il sapere medesimo, è il simbolo di questo monismo rigoroso all’interno del quale la pura intelligenza equivale a un sistema materiale determinato da cause esteriori. L’automa è stupido, è un perfetto idiota: questa è la verità dello scienziato, per il modo in cui essa si presenta e si sperimenta su di un ragazzo perduto, passivo, che considera la Scienza dal di fuori. L’idiozia nomina la negatività, o meglio il non senso di questo (ir)razionalismo materialistico, e al contempo nomina la condizione in cui l’adolescente Gustave si immedesimerà, nel tentativo di fermare il Destino prefabbricato per compiere il quale è stato messo al mondo: tentativo che del resto riuscirà, al prezzo di una nevrosi. L’ebetismo denunciato nella persona del padre-medico-filosofo diventerà l’atteggiamento al quale Gustave assimilerà il suo être la matière, vissuto come condanna iscritta nel mortuum che è l’altra faccia della corporeità, in quel farsi pesante (pesante come la vita-praxis scientificamente organizzata) che è un ritorno al passato inteso come presente senza problemi (cioè senza i problemi del sapere, della vita pratica). L’attacco di nervi di Pont-I’Evêque (1844) sarà il precipitare episodico esplosivo di questo assenteismo difensivo che l’ebetismo adolescenziale di Gustave prefigura come prenevrosi, come stadio iniziale di una malattia «voluta» e «assunta» su di sé per poter soffrire di meno, in uno svenire (che è già tendenzialmente uno svanire) che sta a significare l’estraneazione de-temporalizzante della pesanteur: l’opzione primitiva come rifiuto di diventare adulto, nel presentimento che il tempo della praxis sarà il tempo del fallimento e dell’esilio.

Per ciò che interessa più da vicino il nostro discorso, va ricordato che Gustave reagisce in questo modo perché è costantemente sotto osservazione, sotto l’osservazione di un terribile sguardo paterno che lo trafigge e lo giudica: Io stress, reazione passiva, è la salvezza, è la presa di distanza da questa osservazione continua, implacabile, severa, minuziosa. Gustave sceglierà, nel ressentiment – il senso profondo, e lo scopo, della sottomissione «stressata» – la morte vissuta par la pensée, di cui la chute di Pont-l’Evêque (da leggere altresì quale simbolica identificazione della «caduta» con la Cultura) sarà la dimostrazione neuro-somatica. La «morte lenta», la malattia di Gustave denunciano quella che sembra essere l’intenzione profonda, essenzialmente distruttiva, di un sapere analitico che, per poter squadrare, sondare, conoscere un organismo, deve farlo a pezzi: una vivi-sezione che è, «in radice», una sorta di autopsia. È come se Gustave dicesse: io sono la distruzione, la morte in atto di questo sapere, di questo modo di conoscere.

Ma qual è questa scienza che si preoccupa non tanto di guarire, quanto di diagnosticare? È la scienza ideologica dello scientismo. La «diagnosi» (l’analisi medica della malattia) porterà il dottor Larivière di Madame Bovary – uno dei personaggi più emblematici che Flaubert rappresenta sulla scena della praxis trionfante – a conoscere, scientificamente, l’orrore della vita, senza risentirne (fino al suicidio, come sarà, invece, per Emma Bovary). Larivière personifica Achille-Cléophas Flaubert: «Io sguardo del grand’uomo tagliava come un bisturi, sembrava fissare profondamente gli occhi dei figli e dissezionarli. È lo sguardo del padre, sublimato, generalizzato, che Flaubert tenterà più tardi di appropriarsi sotto il nome di colpo d’occhio medico o colpo d’occhio chirurgico». 

A diciassette anni, nell’agosto 1839, Flaubert aveva scritto Il funerale del dottor Mathurin, che è uno scritto forse ancor più rappresentativo, nella mente del suo autore, di questo pensiero che utilizza la malattia e la morte per asservirle ad un progetto «scientifico». Il protagonista del racconto «conosceva la vita ( ) conosceva a fondo il cuore degli uomini e non era possibile sfuggire al criterio del suo occhio penetrante e sagace: quando alzava la testa, chiudeva gli occhi e ti osservava di lato, sorridendo, sentivi una sonda magnetica entrare nell’anima ed ispezionarne tutti i recessi ( ). Attraverso il vestito egli vedeva la pelle, la carne sotto l’epidermide, il midollo dentro l’osso ed esumava da tutto questo brandelli sanguinanti, putridume di cuore e, spesso, su corpi sani scopriva una terribile cancrena». Nemmeno la (propria) morte si sottrae a questa conoscenza «pratica»: Mathurin non aspetterà il momento fatale, perché preferirà togliersi la vita. Sia Mathurin sia il dottor Flaubert utilizzano la conoscenza per autodominarsi, ed autogovernarsi, scientificamente. E questo è un modo per evitare la sofferenza, fino alla recisione chirurgica dell’ultimo legame con la vita. Vivere ideologicamente la scienza significa per entrambi, in realtà, essere dominati dalla morte: ovvero  dall’analisi ultima, perfetta. Mathurin e Achille-Cléophas evitano il dolore facendo la scienza; Gustave non può evitarla, perché soffre la scienza che i praticanti-filosofi esercitano su di lui: e in lui, infatti, la teoria della Verità proclamata dallo scientismo si rovescia in una teoria della Disperazione, la quale a sua volta è il compimento e la radicalizzazione della prima.

 Lo scientismo si atteggia anzitutto a filosofia, perché pone una questione radicale di verità, la cui parola d’ordine pronunciata sottovoce – ma avvertita ben distintamente tra le pieghe del ressentiment di un agente «passivo», senza voce, come Gustave Flaubert – è che la morte è la verità della vita. Che cos’altro vuol dire, ancora, che, per la conoscenza, non vi è differenza tra una macchina a riposo e una al lavoro? Che la verità di quest’ultima risiede in quella. Tutto nasce dall’esperienza (intesa come sperimentazione medico-pratico-scientifica), e ad essa sola deve ritornare. La Memoria sugli incidenti chirurgici causati dalla riduzione delle lussazioni, scritta di pugno dal dottor Flaubert, ne reca lucida testimonianza. Achille-CIéophas osserva: non corpi viventi, ma la malattia, unica fonte di elaborazione di sistemi sperimentali. Ma – ricorda Sartre – «l’umile “sottomissione ai fatti” dell’empirismo dissimula il più orgoglioso degli intellettualismi: facendo perno su di un insieme di segni, lo scienziato deve perseguire la sua analisi fino al punto di poter fondare il sapere universale su di un sistema finito e rigoroso di verità analitiche. Così un’ambiziosa Logica si svela come il contrario della sottomissione ai dati sensibili: la passività di spirito è il principio posto per giustificare l’attività dell’intelligenza». Il dottor Flaubert ha imparato bene la lezione di Condillac, per il quale si può conoscere una macchina solo attraverso l’«ordine» risultante dai processi di decomposizione e ricomposizione delle sue varie parti. Come dire che si può conoscere qualcosa soltanto con lo spezzarla, e poi magari col rimetterne insieme i pezzi… Achille-Cléophas concorda con La Mettrie, con l’idea cartesiana dell’animale-macchina, per cui l’opposizione del vivente e dell’inanimato, ai fini dell’individuazione della verità dei fenomeni, non risulta fondamentale. In questo senso, il cadavere – l’inanimato – designa l’ordine dell’organismo vivente: «il morto salva il vivo: il cadavere, sulla tavola di marmo, ha immediatamente un coefficiente di utilità». È così che la morte diventa sempre meno naturale, se per naturale si intende il limite assoluto, l’evento ineluttabile di fronte al quale la vita si arresta. Al contrario, in questa concezione intellettualistica dell’esperienza scientifica, nella quale scompare ogni traccia di differenza tra inanimato e vivente, tra morte e vita, non deve sorprendere che, come il cadavere e la malattia, per il chirurgo, sono un mezzo per vivere, così la morte acquisti un valore, operativo, di «conoscenza»: la morte diviene, anzi, la conoscenza. È sintomatico, in proposito, che Flaubert non abbia mai considerato la medicina (sempre scienza, sperimentale, anziché arte) come una lotta per la vita: difatti «la morte si subisce; essa è – parzialmente – oggetto di conoscenza; essa si presenta da sola come un’analisi, nel senso etimologico della parola, perché sopprime le relazioni viventi fra gli organi e facilita la conoscenza analitica – cioè anatomica – del corpo umano». Ne discende che il cadavere è la realtà permanente e concreta del corpo umano. Regola generale, per Gustave, sarà che l’oggetto del sapere emana fetore. Ciò non vale, tuttavia, soltanto per il corpo, per la sua realtà anatomo-patologica. Ciò vale anche per l’anima: l’esperienza del cuore umano, nel dottor Flaubert, insegna che «anche le anime si dissezionano». Ne consegue che, per Gustave, «l’applicazione al cuore umano del metodo analitico ottiene dei risultati materiali né più né meno di un intervento chirurgico; per lui la disarticolazione dell’oggetto psichico non è un’operazione ideale che si fa con dei segni convenzionali, ma un’azione reale il cui modello è dato dallo sguardo glaciale del primario che entra nell’anima e la lavora con lo scalpello».

Così come non c’è più confine tra morte e vita, tra malattia e salute, allo stesso modo non c’è differenza tra corpo e anima, perché quest’ultima – unico possibile principio sintetico di riferimento in termini aristotelici, irriducibile in quanto tale all’analisi – viene trattata esattamente come il corpo, cioè come se fosse corpo, già a sua volta ridotto ad organismo biologico disponibile a qualsiasi operazione. L’azione reale dell’analisi psichica si esercita per disarticolazione dell’oggetto, secondo lo schema di una compiuta unità di sapere e prassi, che trova nella tecnica chirurgica l’inveramento del potere (vivi) necro-sezionale. L’ingenuità di assimilare l’anima al corpo – commenta Sartre – non sarebbe degna di nota se non avesse fatto tanto male al figlio-paziente del dottor Flaubert. La psicologia, per Gustave, è una vera e propria «mortisezione che ci svela lo stato cadaverico dell’anima»: la necrosezione è il volto nascosto, ma vero, della vivisezione fisico-psichica.

L’intellettualismo analitico si rivela insomma «come una conoscenza completa e, in realtà, perfettamente vuota della vita»: vuota perché svuotata di un’intenzione di vita. Un’intenzione di morte troverà solo ciò che cerca – che è anche ciò da cui è mossa: la morte, appunto. Alla dissoluzione organica corrisponde, sul piano del «cuore umano», la disperazione, la disillusione, la demoralizzazione. II ressentiment vieta la generosità, la bontà, la virtù. II dottor Flaubert pratica ancora la virtù, senza però credere in essa, perché la verità annunciata dal razionalismo analitico è che ognuno persegue i propri interessi. Ma la «pratica» dettata, informata, orientata dall’intenzione di morte (mortale, mortifera nei suoi effetti) di questo sapere intellettualistico opera per separazione/scissione infinita di ciò con cui ha a che fare: è la distruzione in atto di ciò che (o di ciò su cui) opera. Se l’interesse è, ultimamente, la verità della virtù (l’articolo di fede dogmaticamente professato dall’individualismo borghese emergente nella figura del dottor Flaubert), allora l’egoismo è la verità dell’altruismo filantropico: il vizio, in ultima analisi, è la verità della virtù. È in questo passaggio estremo che si comprende la genesi dell’opzione primitiva di Gustave Flaubert, della scelta della vita viziata, della nevrosi. Gustave risentirà della contraddizione solo apparente dell’etica borghese dell’interesse, senza mai praticare la «filosofia» del padre. Gustave rimarrà per sempre l’osservato: «la sua verità resta a livello di ciò che è dissezionato, analizzato, essa non attingerà mai il livello dell’atto analitico: anche se getterà su di sé un colpo d’occhio chirurgico, egli non farà che prendere in prestito l’occhio di suo padre», avendo interiorizzato sin troppo efficacemente il metodo, in modo da decomporsi e ricomporsi all’infinito.

Sotto quest’occhio che «colpisce» (e scolpisce) l’oggetto su cui cade, non appare più l’identità di un corpo, né tanto meno di un uomo, perché il meccanicismo è sprovvisto di un giudizio sintetico; oltre all’empirismo, interamente attaccato ai fatti, Achille-Cléophas non saprebbe dedurre delle norme dal meccanicismo, in quanto «la nozione stessa di cosmo gli rimane estranea: l’analisi sopprime l’unità, risolve l’universo in infiniti movimenti di corpuscoli in numero infinito». È nella disgregazione – come dis-aggregazione dell’essere in quanto materia – prodotta dall’indagine e dallo scandaglio del razionalismo analitico che se ne manifestano la genesi e la portata irrazionalistiche: «è nel quadro unitario dell’esperienza primitiva che è impegno, presentimento totalizzatore, timore del destino che ha luogo la decomposizione meccanicistica; è come disconoscimento dell’interiorità che il cosmo si sbriciola in particelle irriducibili rette dalle leggi dell’esteriorità. Così il meccanicismo – pura affermazione a priori di una razionalità universale – appare nel seno della irrazionalità primitiva». Il ri-conoscimento, negato all’interiorità (anima, psiche, cuore) da una conoscenza che procede per omologazione (omogeneizzazione, cancellazione) delle differenze, si colloca a livello dell’esperienza archetipica. La negazione dell’interiorità nomina la polverizzazione della persona, per cui «l’Io non era che un’illusione, la coscienza un epifenomeno».

L’apriorismo scientistico-meccanicistico è, al fondo, la manifestazione di uno smisurato orgoglio: nella Tentation de Saint Antoine Flaubert aggraverà la denuncia di questa Scienza atteggiantesi a Ragione, ma mossa, in effetti, da un’ispirazione fideistico-passionale. Questa scienza è «un mostro nato dall’Orgoglio che è sua madre». L’esito della scienza coincide con l’ignoranza e con l’angoscia, perché in principio è stato voluto il nulla. La nevrosi di Flaubert va letta come la contestazione – bruciante della tortura operata dalla Logica formale del Concetto – del presupposto nichilistico intenzionale della Ragione analitico-positiva identificata nell’Orgoglio Flaubert. L’astuzia di Flaubert «consiste nel fare della Scienza contemporanea una accumulazione di conseguenze senza premesse e nel toglierne ogni possibilità di legare le sue conoscenze empiriche facendo della logica una funzione a parte che, esercitandosi a vuoto attraverso l’infinita varietà dei giudizi analitici, si limiterebbe a ripetere all’infinito il principio di identità e, con questo, sarebbe inetta per natura a produrre e a legare tra loro rigorosamente i giudizi sintetici». La scienza contemporanea è costruita su di una serie di conseguenze senza premesse in quanto la sua premessa fondamentale è indimostrabile: è la logica presocratica strettamente formale (rappresentata da Flaubert come creatura del Diavolo, il principe/principio della «divisione») del terzo escluso, che rifiuta «ogni giudizio sintetico, cioè ogni proposizione il cui attributo non sia già contenuto nel soggetto».

A fare giustizia dell’abusività invadente del regard chirurgical (di questa spia inesorabile il cui scopo è di de-formare, di de-strutturare corpo e psiche) sarà l’unico fattore vissuto da Gustave Flaubert come capace di sintesi, come capace di totalizzazione del molteplice: il sentimento, che unifica ciò che la scienza di Achille-Cléophas polverizza. Questo sentimento, negativo per re-azione all’intromissione abusiva dell’osservazione paterna, si tradurrà in desiderio di acquisire totalmente Io status ontologico di cosa (ovvero di bestia, ovvero di idiota): la propensione di Gustave all’évanouissement non significherà pertanto solo la perdita dei sensi, ma, più profondamente, coinciderà con la rinuncia allo statuto di essere umano e con l’adozione intenzionale di quello della cosa, al punto che «la tentazione di sfuggire alla condizione umana per reificazione sarà inscritta in permanenza nel suo corpo». Il desiderio di «essere la materia» si declinerà, nevroticamente, in «desiderio di morire, di essere una statua di pietra, di trasformare in lui la materia vivente in materia inanimata, e di sfuggire gli uomini scegliendo per risentimento la sub-umanità». L’interiorità ignorata, negata, disconosciuta si esteriorizza secondo una determinazione «vissuta come un rapporto interno-esterno, con l’estensione esteriore». La vita sperimentale, biologica e psichica, a cui Gustave Flaubert è stato condannato fin dai primi anni, è una vita impossibile, nel senso in cui l’impossibilità viene accettata da un agente passivo, incapace persino di quel supremo «atto» di ribellione che sarebbe il suicidio. La vita impossibile si svilupperà come vita malata, a testimonianza – carnificata, innervata – dell’inevitabile rovesciamento del possibile biologico (solo teorico) in effettiva impossibilità di vivere. L’infallibilità del disegno scientifico si rovescia nel fallimento esistenziale storicizzato in nevrosi. La modalità secondo la quale questo processo si realizza sta nel comunicarsi di una determinazione interiore che si mostra capace di modificare il dato biologico (assunto come) certo in dato «impazzito», in una anormalità intenzionalmente vissuta come originalità-singolarità. Sartre tenta di spiegare questo «riflusso» – patologico – dall’interiorità violentata alla realtà biologico-corporea con la seguente osservazione: «la ragione per la quale questa determinazione interiore si trova ad essere nello stesso tempo un montaggio del corpo (disposizione a cadere) e una strutturazione trascendente dell’ambiente si trova in primo luogo nel fatto che la caduta nell’Inferno non può essere vissuta, in un agente passivo, che sotto la forma di una brusca abolizione del tono muscolare».

Il campo di esercitazione di una pratica del sapere volta ad affermare un preteso «diritto» dello scienziato come potere assoluto sui corpi, sulla morte e sulla vita, sulla malattia, è un campo minato dalle sorprese che un irraggiungibile, sempre sfuggente quid riserva nell’esperienza dell’umano. La funzionalità del dato biologico o psichico all’assolutismo intellettualistico di una medicina che si comporta come pura prassi analitico-tecnico-chirurgica, per principio e sistematicamente manipolatoria, viene ad essere inceppata dallo stesso meccanismo secondo il quale procede. Il metodo analitico (che, nell’ideologia scientista, nasce da una questione epistemologica, e non semplicemente metodologica) si scontra con l’esigenza incoercibile provocata da quello stesso «diritto all’impossibile» con cui il medico-praticante-filosofo definisce la sua missione. L’esigenza di un «tu non puoi andare oltre», l’esigenza di un limite ultimo, invalicabile, mai avanzata, sollevata come tale in un agente passivo, risiede forse in quella estrema possibilità di vivere che, per quanto seriamente disturbata, ma non per questo compromessa, coincide con la malattia, e con quel particolare tipo di malattia – psichica – non altrimenti qualificabile che come nevrosi. Gustave Flaubert vorrebbe ridursi interamente a cosa, a materia (assecondando in questo modo il progetto scientifico di cui è vittima), ma la malattia glielo impedisce, la nevrosi glielo impedisce mentre lo asseconda.

In questo senso, la nevrosi di Flaubert va letta come protesta contro una scienza che tratta l’uomo come la cavia di laboratorio di esperimenti consumati nella totale indifferenza ad una realtà che non sia scontatamente data per risolta nell’unico senso ammesso: che l’uomo, cioè, non è nient’altro che corpo. La nevrosi consente di scoprire che il regno del possibile biologico si fonda sull’arbitrio di un pensiero che obbedisce all’intrinseca necessità di una Logica chiusa ad ogni possibilità che non sia già prevista dal calcolo matematico-statistico della normalità «media». Il disconoscimento dell’interiorità può essere interpretato, nella linea del discorso fin qui condotto, come il disconoscimento di ciò che rende l’uomo un essere singolare-in-relazione: la struttura duale finito-infinito. La nevrosi si colloca sulla soglia, arbitrariamente ricostruita da un sapere maniacalmente pratico-operativo, nella quale la finitizzazione assoluta dell’essere (secondo un principio naturalistico-materialistico) si capovolge – come l’altra faccia della stessa medaglia – nell’infinitizzazione delle possibilità – fittizie – del movimento circolare di un’intenzione distruttiva (a scopo scientifico) dell’«altro» come  categoria e come termine esistenziale, ma conservativa della necrosi permanente su cui si struttura. L’insensibilità perfetta, nevroticamente ricercata come luogo dell’estrema salvezza dalle possibilità infinite dell’aggressività tecnico-scientifica, denuncia la latente ipersensibilità generata dall’alterazione del modo in cui un Io lacerato percepisce il suo «essere-nient’altro-che» come tensione, non esprimibile se non nel linguaggio dell’«imprevisto» patologico, ad essere un irriducibile e irripetibile «altro-da»: altro dalla de-finizione biologistica fornita da un sapere/potere monistico assoggettato a una volontà ipertrofizzata dalla manifestazione suprema dell’irrazionalità, l’orgoglio, ossia l’affermazione del «nient’ altro-al di sopra- di me» (o del «nient’ altro-come me»), che è l’affermazione di un diritto assoluto, sovra(oltre-)relazionale.

La contestazione della finitezza artificialmente imposta, imposta nel nome dell’oltrepassamento di qualunque «finito» che non sia già contenuto nell’infinito delle possibilità di un pensiero che non rispetta altra norma se non il proprio stesso sperimentare (se non il proprio stesso pensare), è chiamata da Sartre pulsione religiosa. Questa contestazione è «passionale», nel senso che è originata da una sofferenza, e vive all’interno della sofferenza di un precario equilibrio tra un dichiarato, ideologico «non-poter essere-nient’altro che» fisicità – avvertita comunque nell’estraneità dell’essere-anche-corporeo come una positività plenaria che tradisce una mancanza assoluta – e un oscuro conatus verso il nulla, calato nella profondità esistenziale di un desiderio di desiderare, di un soffrire di non poter soffrire, che traducono la frustrazione di un corpo senz’anima, cioè di un corpo senza identità.

Ciò che può fondare una relazione giusta tra soggetti reciprocamente riconoscentisi in un’alterità che li fa simili, sul piano di una parità che pertiene al loro stesso essere, sembra consistere in una proprietà – intesa come peculiarità – indisponibile: l’appartenenza all’uomo di quanto più gli è proprio. La nevrosi di Gustave Flaubert è il tentativo di dar voce alla rivendicazione di questa proprietà: non peraltro il genio dello scrittore, l’attività libera alla quale egli si dedicherà, esprimerà il parossismo dell’originalità che, negata per una via (la via della praxis), ritroverà la sua consistenza nella creatività dell’attivitàpassiva dello scrivere.

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