Ragioni e forme della politica in età contemporanea: tra diritto e comunità intermedie

In un recente e breve intervento sulla nostra rivista «Politica.eu» (0/2015) mi ero permesso di proporre qualche riflessione intorno all’opportunità di ri-valutare la politica; da intendersi nel duplice senso di: a) ribadire l’importanza della politica e della sue scelte in un clima diffuso di antipolitica e di illusioni tecnocratiche; b) richiamare l’importanza da parte dei cittadini e degli attori sociali di non abbandonare la valutazione dell’agire politico, fino a tentare di distinguere – in concreto – la buona politica dalla cattiva politica[1].

Sempre su «Politica.eu» (nel suo primo numero «ufficiale») si sono  sviluppate, da parte di autorevoli colleghi, ulteriori importanti riflessioni sul tema, fra cui spiccano quella di Paolo Becchi a proposito dell’importanza della categoria della «reputazione» nella vita politica e quello di Gabriel Gerez Kraemer sui rapporti fra diritto e potere in prospettiva storica[2].

Proprio tenendo conto di tali interventi – e nell’ambito dell’importante seminario organizzato dall’amico (e condirettore di «Politica.eu») Lorenzo Scillitani con l’intervento dei colleghi Antonetti, Gervasoni e Birtolo[3] – vorrei offrire qualche considerazione a proposito di alcuni aspetti legati al rapporto fra il diritto e la politica, anche a partire da alcune riflessioni storiche.

  1. Tra diritto e politica.

Anzitutto un’osservazione ovvia, quanto importante. Il diritto ha bisogno della politica e la politica ha bisogno del diritto. Da un lato, infatti, il diritto ricorda alla politica che questa non è onnipotente e che il mero arbitrio non le appartiene; dal lato opposto, invece, la politica rivendica l’importanza delle scelte e delle decisioni anche per lo stesso sviluppo del diritto e dell’ordinamento giuridico.

Pur avendo ben presente la crisi del paradigma moderno dello Stato «monopolista» del fenomeno giuridico (con le conseguenti «mitologie giuridiche della modernità»)[4] e rifuggendo al mero positivismo giuridico è indubbia l’importanza del ruolo della politica espressione della societas (e soprattutto della «buona» politica) proprio nei momenti delle scelte fondamentali dei paradigmi degli ordinamenti[5].

In tale direzione si colloca anche la questione aperta e di rilevante importanza circa i meccanismi di legittimazione delle autorità politiche nelle democrazie contemporanee; la tradizionale impostazione «proceduralista» e strumentale, volta a cercare la forza della democrazia nella presenza di regole di funzionamento, con l’esclusione di ogni riferimento ad ideali e valori nella definizione delle regole di legittimazione democratica, mostra oggi numerose falle. Infatti, a partire dall’osservazione di fondo di Ernst-Wolfgang Böckenförde secondo cui «Si pone così di nuovo, e nel suo nucleo vero e proprio, la questione delle forze unificatrici: Lo Stato liberale, secolarizzato, vive di presupposti che esso di per sé  non può garantire. Questo è il grande rischio che per amore della libertà lo Stato deve affrontare. Come Stato liberale, esso da una parte può sussistere soltanto se la libertà che concede ai suoi cittadini si regola a partire dall’interno, dalla sostanza morale del singolo e dall’omogeneità della società. D’altra parte, esso non può cercare di garantire queste forze regolatrici interne da solo, ossia con i mezzi della costrizione giuridica e del comando autoritario, senza per ciò rinunciare alla sua natura liberale e – sul piano secolarizzato – ricadere in quella pretesa di totalità dalla quale è uscito nelle guerre di religione»[6].

La citazione coglie nel segno: oggi proprio la «questione religiosa» (e poi quella della debordante spinta delle nuove tecnologie verso i cosiddetti «nuovi diritti») spingono ad un ripensamento dei paradigmi «proceduralisti» al fine di assicurare – al contempo – libertà e sicurezza e ritrovare un possibile equilibrio fra diritti e doveri e fra libertà e responsabilità[7].

A questo punto si può cogliere un altro nodo dell’odierna (e forse permanente…)[8] «tensione» fra diritto e politica: quella fra la società e lo Stato. Si tratta di riflettere soprattutto – in merito alle difficoltà degli odierni sistemi di rappresentanza – inclusi i meccanismi elettorali – di assicurare adeguata voce nell’agone democratico ad una società in cambiamento, sempre più frastagliata ed atomizzata (anche per il massiccio utilizzo della rete e di nuovi strumenti di comunicazione di massa)[9].

Alla tradizionale alternativa fra le scelte «popolari» e la necessaria articolazione «elitaria» del governo della politica[10] si pone oggi l’urgenza di sviluppare nuove forme di partecipazione e di rappresentanza, anche al di là delle forme dei partiti politici, che pure mantengono la loro importanza e centralità. La questione è di grande complessità, ma comunque la si voglia affrontare pare necessaria una convergenza fra scelte e tecniche e fra idealità e regole: si rischiano – altrimenti – la disaffezione alla politica (con la prevalenza di forze «antipolitiche») o pericolose cessioni di sovranità da parte dei soggetti rappresentativi a beneficio di attori non politici e senza una precisa legittimazione politica e democratica[11].

Nella stessa direzione si può cogliere pure la crescente dialettica fra tecniche e valori, che interessa le questioni oggi più sensibili e delicate dell’ordinamento giuridico e delle sue ricadute etiche: dall’assetto della famiglia, alle valutazioni del valore della vita (dal suo inizio alla sua fine), la disponibilità (o meno) della corporeità, fino all’identità sessuale ed alle tecniche biologiche applicate alla riproduzione umana. Anche qui si può ben comprendere che occorre riconquistare un equilibrio fra le ragioni della politica (con i suoi valori e mettendo al centro il senso della persona umana) e le scelte del diritto, sempre più sottratte – in questi campi – ai legislatori e affidate piuttosto alle decisioni giurisdizionali (a diversi livelli nazionali e sovranazionali)[12].

Senza andare oltre (a causa della complessità ed articolazione dei temi implicati) mi limito a richiamare l’esigenza di una chiara assunzione di responsabilità, sia da parte dei giuristi, sia da parte dei decisori politici, al fine di non demandare alla mera tecnicità o a scelte irriflesse e staccate dalla sovranità popolare  decisioni fondamentali per il presente ed il futuro[13].

  1. Il valore delle comunità intermedie

 

Un altro ambito di necessaria riflessione sui rapporti fra il diritto e la politica è quello del contributo offerto dai cosiddetti «corpi intermedi» ed il loro assetto giuridico. Com’è noto, infatti, la civiltà europea non ha mai potuto fare a meno – nella sua lunga storia – dell’apporto dei corpi intermedi nelle loro diverse articolazioni.

Anzi, la loro priorità nei confronti del potere pubblico e politico (prima e durante l’avvento dello Stato moderno) ha delineato il volto dell’ordinamento giuridico europeo: un ordinamento composito e plurale, in cui la voce della società si esprimeva attraverso le diverse manifestazioni del diritto provenienti dalle differenti realtà associate: città, ceti, corporazioni, chiese, università, movimenti religiosi, enti morali, etc.. La stessa elaborazione «dotta» del diritto europeo (all’origine dello ius commune) deve la sua origine al ceto dei giuristi ed alla sua opera di diffusione di un sapere giuridico raffinato ed universale[14].

Le stesse vicende dello sviluppo degli Stati moderni (secondo le diverse declinazioni nazionali e territoriali che assumono in Europa) possono essere lette anche nel confronto accesso e spesso conflittuale fra la volontà livellatrice ed accentratrice dei sovrani e le resistenze dei corpi intermedi e delle loro appartenenze. Evidentemente si fronteggiano nel corso dell’epoca moderna diverse concezioni non solo della politica e del diritto, ma anche della stessa antropologia del potere[15].

Il passaggio rivoluzionario dall’Antico regime al secolo XIX segna il trionfo dello Stato di diritto, l’abolizione delle «appartenenze» e la costruzione di un nuovo soggetto giuridico individuale: il cittadino, inteso come «nudo» interlocutore dell’unico soggetto giuridicamente legittimo e rilevante, lo Stato[16].

Pur con sfumature ed eccezioni il secolo XIX registra l’affermazione dello Stato liberale ed una generale svalutazione giuridica dei fenomeni associativi, che pure (pressoché in tutta Europa) registrano nel corso del tempo una nuova vitalità, con la nascita di nuove ed imponenti realtà associate come i sindacati, i partiti e le libere associazioni di vario orientamento culturale o religioso[17].

Nello stesso XIX secolo si colloca l’opera fondamentale di Alexis de Tocqueville La democrazia in America[18] che viene a portare alla ribalta del dibattito culturale europeo l’assetto degli Stati uniti, in cui si poteva registrare la straordinaria vitalità della società civile ed il ruolo propulsore delle società intermedie per lo sviluppo delle democrazia sostanziale. In questo ambito va registrato uno specifico interesse per il ruolo delle istituzioni religiose – sottolineato a più riprese anche dallo stesso Tocqueville – e per l’elaborazione da esse compiute dell’importanza del pluralismo sociale ed istituzionale nei confronti dello strapotere degli Stati[19].

La «lezione americana» non fu sempre seguita né compresa pienamente; la crisi dello Stato liberale segna il secolo XX, caratterizzato dal dramma dei totalitarismi – sempre caratterizzati da un chiaro disprezzo per la vitalità sociale ed il tentativo di liquidare o statalizzare le manifestazioni intermedie – e dalla difficile ripresa dei diritti dei singoli e delle stesse comunità – a più riprese – dopo la seconda guerra mondiale e dopo la caduta del muro di Berlino[20].

L’elaborazione compiuta da maestri del pensiero occidentale come Hannah Arendt, Robert Nisbet, Eric Voegelin, Jean-L. Talmon o dei paesi dell’est europeo, come Vaclav Havel, Vaclav Benda ed Aleksander Solzenicyn sulla natura antitotalitaria delle genuine aggregazioni umane ha rappresentato in anni difficili un sicuro contributo per la libertà e la democrazia sostanziale[21].

Nella situazione di oggi si ripropone, nella società globalizzata e nel contesto degli attuali conflitti internazionali e non solo, la questione del ruolo e del valore delle comunità intermedie, quale ambito ineludibile per lo sviluppo armonico della libertà, come coltura delle virtù e come antidoto allo strapotere degli apparati e delle tecnologie invasive[22].

Certamente il contesto attuale interroga profondamente anche le stesse «comunità» (al di là delle ormai superate contrapposizione fra individualismo e comunitarismo) in ordine al proprio ruolo ed all’urgenza di non rappresentare chiusure di orizzonti, ma ambiti efficaci di libertà. Recuperare nella sua portata giuridica e politica il ruolo delle società intermedie appare oggi operazione feconda e necessaria per uno sviluppo di una società libera in cui anche il diritto si collochi nella sua complessità ed «agilità» al cuore della vita della Polis, in funzione di una educazione del senso della socialità e della responsabilità verso il bene comune[23].

Michele Rosboch*

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* Michele Rosboch, Professore associato di Storia del diritto italiano ed europeo IUS/19, Università degli Studi di Torino. Email: michele.rosboch@unito.it.

 

  1. Bene pubblico e bene comune.

 

Un ultimo accenno sulle attuali «tensioni» fra diritto e politica può essere dedicato allo sviluppo delle vicende del «bene comune». Nell’attuale momento di crisi dei tradizionali concetti (e conseguenti confini) fra pubblico e privato sembra difficile trascendere nella costruzione politica i meri interessi individuali (o corporativi) al fine di «mettere in comune» il bene ed alimentare il pubblico interesse[24].

Come osservava correttamente Roberto Vivarelli: «La conseguenze più immediatamente percepibile di questo stato di cose e, in un certo senso, la più drammatica, è che siamo ormai in balia di forze impersonali, che seguono un proprio impetuoso moto ciascuna secondo il suo particolare interesse, il quale le porta a procedere per proprio conto, senza più alcun fine generale e senza più alcun freno»[25].

In questo senso il latente conflitto moderno fra Stato e società si riflette nella dialettica fra bene pubblico e bene privato, rendendo assai difficile individuare anche solo i criteri per un’argomentazione accettabile del bene comune: regole e valori debbono, pertanto necessariamente concorrere[26].

Peraltro, oggi come ieri pare necessaria l’individuazione da parte dell’agire «politico» il più possibile concorde di «valori positivi e comuni» a cui appoggiare pure ambiti del diritto, a loro volta in grado di presidiarne i confini e l’integrità. Tutto ciò presuppone, evidentemente, un ordine giuridico e politico realmente pluralistico secondo vari piani, concordemente convergenti, ma anche relativamente indipendenti, onde garantirne il pieno svolgimento e, così, una effettiva unitarietà[27].

Come si può osservare anche in tale ambito si può rilevare l’importanza di una effettiva convergenza fra le ragioni della politica e quelle del diritto pur in un complesso contesto di cambiamenti epocali. A tutto ciò non si può oggi rinunciare, anche per formare una rinnovata coscienza pubblica responsabile, capace di protagonismo sociale, di effettiva capacità critica e di «ri-valutazione» della stessa politica – oltre che del discorso giuridico – attraverso i diversi strumenti della partecipazione e della promozione delle idee.

[1] M. Rosboch, Ri-valutare la politica, in Politica.eu, 0-2015, pp. 2-4.

[2] P. Becchi, Corruzione e reputazione. Una nota filosofico politica con particolare riguardo al caso italiano, in Politica.eu, 1-2015, pp. 122-128; G.M. Gerez Kraemer, Giurisprudenza e Imperatore. La sempre difficile relazione fra potere politico e diritto, in Politica.eu, 1-2015, pp. 129-136.

[3] Gli interventi sul tema Ragioni e forme della politica in età contemporanea sono stati preceduti dai saluti del Rettore dell’Università del Molise Gianmaria Palmieri e dal Direttore del Dipartimento SUSeF, Vincenzo Di Nuoscio.

[4] P. Grossi, Mitologie giuridiche della modernità, Giuffrè, Milano, 2007.

[5] Come esempi il riferimento può essere alle decisioni lungimiranti dei Padri fondatori dell’Europa, così come alle scelte compiute dai Costituenti italiani del 1946-1947.

[6] E.-W. Böckenförde, Diritto e secolarizzazione. Dallo Stato moderno all’Europa unita, Laterza, Roma-Bari, 2007, p. 53; segnalo che la sottolineatura qui espressa è stata ripresa nel significativo dialogo fra J. Habermas e J. Ratzinger, Ragione e fede in dialogo, Marsilio, Venezia, 2005.

[7] Richiamo – per tutti e con impostazioni molto differenti – i  saggi di H. Jonas, Il principio responsabilità: un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino, 1991 e M.A. Glendon, Tradizioni in subbuglio, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2007 e G.  Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, Il Mulino, Bologna, 2008. Di rilievo anche I diritti in azione, Universalità e pluralismo dei diritti fondamentali nelle Corti europee, a c. M. Cartabia, Il Mulino, Bologna, 2007.

[8] Gianfranco Miglio aveva perfettamente individuato il punto: «Debbo dichiararmi fermamente convinto che a nessuno sarà concesso di venire a capo dei problemi veramente fondamentali della convivenza politica contemporanea, se non accettando prima di tutto l’idea che Società e Stato sono realtà l’una all’altra irriducibili, e che anzi … la stabilità di una determinata comunità politica dipende dalla stabilità dell’equilibrio in cui, dentro di essa, Società e Stato si trovano, senza riuscire a sopraffarsi a vicenda» (G. Miglio, I cattolici di fronte all’unità d’Italia, in L’unità d’Italia e i cattolici italiani, Vita e Pensiero, Milano, 1960, pp. 61-62).

[9] Per tutti, F. Cassella, Profili costituzionali della rappresentanza. Percorsi storici e comparatistici, Napoli, Jovene, 1997; G. Duso, La rappresentanza politica. Genesi e crisi del concetto, Milano, Franco Angeli, 2003, e F. Tuccari, I dilemmi della democrazia moderna: Max Weber e Robert Michels, Laterza, Roma-Bari, 1993.

[10] Mi permetto di richiamare – per tutti – il celebre discorso tenuto da Francesco Ruffini nel 1919: Guerra e riforme costituzionali. Suffragio universale, Principio maggioritario, Elezione proporzionale, Rappresentanza organica, in Annuario della R. Università di Torino 1919-1920, Torino, Stamperia Reale, 1920, pp. 5-98.

[11] Cfr. fra i moltissimi E. Voegelin E., La politica: dai simboli alle esperienze, Milano, Giuffrè, 1993 e V. Possenti, Radici dell’ordine civile, Marietti, Genova, 2006.

[12] Di rilievo I diritti in azione, Universalità e pluralismo dei diritti fondamentali nelle Corti europee, a cura di M. Cartabia, Il Mulino, Bologna, 2007. Da sottolineare pure il richiamo alla centralità della persona di V. Possenti, Il principio-persona, Armando, Roma, 2006. Cfr. anche L. Scillitani, Antropologia filosofica dei diritti dell’uomo, Bastogi, Foggia, 2012. Significativo – in senso critico rispetto ad affermazioni consolidate – è pure il recente contributo di G. Cianferotti, Considerazioni sulla sineddoche della persona nella filosofia italiana e sul dualismo tra soggetto e persona nella civilistica italiana del secondo Novecento, in Rivista di storia del diritto italiano, LXXXVII-2014, pp. 399-432.

[13] Fra i temi essenziali resta da ricordare anche la sempre più stringente «questione demografica»: cfr. per tutti F. Blangiardo, Elementi di demografia, Il Mulino, Bologna, 2010. In generale mi sento di aderire all’efficace osservazione di Nicola Matteucci: «La realtà contemporanea resta difficile da decifrare: di fatto c’è l’eclissi dello Stato, come luogo della sintesi politica, e il tutto è occupato dalle amministrazioni. Declinano le ‘istituzioni’ e si rafforzano le ‘organizzazioni’, mentre ci investe la rivoluzione tecno-tronica, che con la sua apparente neutralità, regolerà sempre più i rapporti fra gli uomini, con i suoi linguaggi specialistici, ‘barbari’, perché incomprensibili, ma in realtà senza alcuna profondità semantica, perché lontani dalla vita vissuta. Così è scomparsa dall’attenzione la res publica e le sue forme, come il vero centro della politica, e la mente è sviata dalle organizzazioni e dalla tecnica, che sono realtà – in sé – non politiche» (N. Matteucci, Alla ricerca dell’ordine politico. Da Machiavelli a Tocqueville, Il Mulino, Bologna 1984, p. 26).

[14] Per tutti P. Grossi, Le comunità intermedie tra moderno e post-moderno, a c. M. Rosboch, Marietti, Genova, 2014 (con ulteriori richiami bibliografici, pp. 81-93).

[15] Cfr. per un’efficace sintesi M. Caravale, Storia del diritto nell’età moderna e contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 2012, pp. 53-142 e Lo Stato moderno in Europa. Istituzioni e diritto, a c. M. Fioravanti, Laterza, Roma-Bari, 2002.

[16] Mi permetto di rimandare a M. Rosboch, Le comunità intermedie fra libertà e potere nella tradizione occidentale, cit., pp. 11-17.

[17] Cfr. fra i moltissimi D. Marucco, Mutualismo e sistema politico. Il caso italiano (1862-1904), Franco Angeli, Milano, 1981; G. Rumi, Santità sociale in Italia tra Otto e Novecento, SEI, Torino, 1995 e L. Trezzi, Sindacalismo e cooperazione dalla fine dell’Ottocento all’avvento del fascismo, Franco Angeli, Milano, 1982; si veda inoltre 150 anni di sussidiarietà, Piccola casa editrice, Milano, 2011.

[18] A. de Tocqueville, La democrazia in America, a c. G. Candeloro, BUR, Milano, 2003.

[19] Per tutti, cfr. S. Abruzzese, La sociologia di Tocqueville. Un’introduzione, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005; N. Matteucci, Alla ricerca, cit,., pp. 193-261 ed A. Jardin, Alexis de Tocqueville 1805-1859, Jaca Book, Milano, 1994.

[20] Per tutti, P. Grossi, L’Europa del diritto, Laterza, Roma-Bari; A. Padoa Schioppa, Storia del diritto in Europa. Dal medioevo all’età contemporanea, Il Mulino, Bologna, 2007, pp. 621-699 e – con impostazione non storico-giuridica – A. Finkielkraut, Noi, i moderni, Lindau, Torino, 2006. Molto significativa risulta l’osservazione di Robert Nisbet, pur  risalente agli anni Cinquanta del secolo scorso: “Quali sono, nel mondo contemporaneo, i criteri, in base ai quali si possono distinguere le società libere da quelle non libere? Anche soltanto con il porre la domanda si rivela la povertà dell’attuale vocabolario politico in proposito. Adoperiamo ancora i vocaboli e la fraseologia del tempo in cui il lessico della libertà aveva un rapporto significativo con l’ascesa del popolo nella politica e con l’emancipazione degli individui dalle vecchie strutture sociali. Il fatto è che oggi non abbiamo alcun insieme di termini evocativi che corrisponda alle nostre realtà nella stessa misura in cui le parole popolo, individuo e cambiamento corrispondevano alle realtà e alle aspirazioni del Sette e dell’Ottocento” (R. Nisbet, La Comunità e lo Stato. Studio sull’etica dell’ordine e della libertà, Edizioni di comunità, Milano, 1957, pp. 380-381). Interessanti riflessioni anche in Il diritto come forza la forza del diritto. Le fonti in azione nel diritto europeo tra medioevo ed età contemporanea, a c. A. Sciumè, Giappichelli, Torino, 2012.

[21] Si vedano esemplificativamente: H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano, 1967 (edito poi anche da Mondadori, Milano, 1997); V. Benda, Parallel Polis, or an independent Society in Central and Eastern Europe: an Inquiry, in Social Research, 55/1.2, pp. 214-222; V. Havel, Il potere dei senza potere, La casa di Matriona, Milano, 2013, pp. 92-133; R. Nisbet, Op. cit.; A. Solženicyn, Vivere senza menzogna, Mondadori, Milano, 1974; Id., Discorsi americani, Mondadori, Milano, 1976; J-.L. Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, Il Mulino, Bologna, 2000.

[22] Aveva colto nel segno Romano Guardini: “Ciò mostra che la possibilità dell’uomo di usare male della sua potenza è in continuo aumento. E poiché non esiste ancora un ethos effettivo, si accentua sempre più la tendenza a considerare tale uso come un processo naturale, per il quale non esistono norme di libertà, ma solo pretese necessità di utilità e di sicurezza. Ancor più: l’evolversi di questo stato di cose dà l’impressione che la potenza si oggettivizzi; come, se, in fondo, essa non fosse posseduta ed utilizzata  dall’uomo, ma si sviluppasse e si determinasse alla azione procedendo in modo autonomo sulla base della logica dei problemi scientifici, tecnici e delle tensioni politiche” (R. Guardini, La fine dell’epoca moderna. Il potere, Morcelliana, Brescia, 1984, p. 81); nella stessa direzione significativo V. Belohradsky, Il mondo della vita: un problema politico, Jaca Book, Milano, 1981.

[23] Alla ricerca di elementi unificatori ed ordinanti, Paolo Grossi ha richiamato la necessità di riscoprire quella “necessaria dimensione oggettiva del soggetto”, che si concreta in tre elementi: una forma comunitaria strutturale; il recupero della tradizione culturale e giuridica e la dimensione della “natura delle cose” (P. Grossi, Un recupero per il diritto: oltre il soggettivismo moderno, in Persona e Stato, Fondazione per la sussidiarietà, Milano, 2008, pp. 50-52).

[24] Importanti notazioni – su un diverso piano – in Bene comune. Fondamenti e pratiche, a cura di F. Botturi-A. Campodonico, Vita e pensiero, Milano, 2014 ed in M. Negro, Bene comune e persona, Morcelliana, Brescia, 2014. Correttamente osservano Francesco Botturi e Angelo Campodonico che «Nonostante la sua apparente assenza, il tema del bene comune è oggi presente in una cultura sociale che, sempre più a rischio di frammentazione, ne percepisce pur confusamente la necessità. Se questo è vero, d’altro lato, si nota un’evidente difficoltà a ricorrere all’espressione “bene comune” con qualche vigore teorico» (F. Botturi-A. Campodonico, Introduzione, in Bene comune, cit, p. VII.)

[25] R. Vivarelli, I caratteri dell’età contemporanea, Il Mulino, Bologna, 2005, p. 285.

[26] Lo ha osservato con precisione E. Berti, Il bene di chi? Bene pubblico e bene privato nella storia, a c. G. Maddalena, Marietti, Genova, 2014, pp. 23-45. Sulla tradizionale e specifica nozione giuridica di bene pubblico: A.M. Sandulli, Beni pubblici, in Enciclopedia del diritto, V, Milano, 1959, pp. 277-300. Per un interessante approccio in prospettiva storica A. Di Porto, Res in usu publico e beni comuni: il problema della tutela, Giappichelli, Torino, 2013; inoltre cfr. P. Barcellona, Il declino dello Stato: riflessioni di fine secolo sulla crisi del progetto moderno, Dedalo, Bari, 1998 e L. Roth, Pubblico e privato: viaggio tra bene comune e individualismo, Ned, Milano, 1990.

[27] A questo livello si colloca il rilievo istituzionale e politico del «principio di sussidiarietà» quale presidio di un effettivo pluralismo: per tutti cfr. G. Lombardi-L. Antonini, Principio di sussidiarietà e democrazia sostanziale: profili costituzionali della libertà di scelta, in «Diritto e Società», 1 (2003), pp. 155-185; P. Hirst, Dallo statalismo al pluralismo: saggi sulla democrazia associativa, Bollati Boringhieri, Torino, 1999 ed I. Massa Pinto, Il principio di sussidiarietà. Profili storici e costituzionali, Jovene, Napoli, 2003. Cfr. inoltre A. Poggi, Le autonomie funzionali “tra” sussidiarietà verticale e sussidiarietà orizzontale, Giuffrè, Milano, 2001.

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