Libertà religiosa e coesistenza pacifica

PARTE 1: la rinascita globale della religione nei rapporti internazionali e la dimensione politica della libertà religiosa.

1.         Come Elizabeth Shakman Hurd e Winnifred Fallers Sullivan hanno adeguatamente evidenziato nella breve introduzione al loro nuovo blog intitolato The Immanent Frame e dedicato alla dimensione politica della libertà religiosa, «discutere di libertà religiosa, o non farlo, è sempre solo parte di una storia molto più ampia». Al fine di comprendere le dinamiche e di operare in modo saggio ed efficace per la promozione di questo diritto umano fondamentale, che ha acquistato oggi un’importanza decisiva, è necessario metterne a fuoco un’immagine storica e geopolitica più a largo spettro.

2.         Contro la predizione dei teorici della modernizzazione sull’inevitabile secolarizzazione delle società avanzate, oggi è indubitabile che la religione sia tornata ad essere al centro delle politiche interne e internazionali in molte parti del mondo occidentale e non. Nel dibattito accademico e pubblico dominante, questa rinascita della religione nella politica mondiale è stata essenzialmente ricondotta a forme di azione politica violenta ed è stata spesso associata alla ricorrente violazione dei diritti umani fondamentali, incluso il diritto di libertà religiosa o di credo. Talvolta, ciò si è verificato attraverso l’imposizione della legge religiosa su una comunità di persone, come nei casi di un «nazionalismo religioso» dogmatico. Altre volte, ciò è avvenuto attraverso l’identificazione della religione con il «fondamentalismo» e il «terrore», e con la sua presunta inclinazione a generare azioni politiche estreme – e persino indiscriminate; oppure essa viene richiamata in scenari che coinvolgono la persecuzione religiosa dei membri delle comunità di credenti, o, in maniera più apocalittica, è identificata con la forza trainante di un imminente «scontro di civiltà». Alcuni tra gli esempi più citati sono i conflitti in Bosnia, Algeria, Kashmir, Palestina, Sudan e Nigeria; ma anche la nascita dell’islamismo mondiale e del nazionalismo indù e i conseguenti effetti sulle minoranze religiose; così come il ruolo del Christian Right nell’agenda politica americana interna ed estera o quello dell’Ortodossia sullo stato russo; e, naturalmente, gli eventi dell’11 settembre considerati come un segno di inequivocabile conferma di questa tendenza preoccupante e destabilizzante. In sintesi, è come se ci fosse soltanto «terrore nella mente di Dio», per parafrasare un recente contributo a questo crescente campo di analisi. Ma a questo punto è necessario porsi una domanda: questa lettura è ispirata da un pregiudizio di tipo secolare? O basata, per dirla con William Cavanaugh, sul mito della violenza religiosa? Esiste forse una narrazione più complessa ed equilibrata delle ragioni della rinascita contemporanea della religione nella politica mondiale?

3.     Bisogna riconoscere che la summenzionata lettura del ruolo giocato oggi dalla religione nella politica mondiale si fonda su un insieme di implicite assunzioni di tipo secolare e di impronta wesfaliana, secondo cui l’identità religiosa viene alla ribalta soltanto come minaccia estrema per l’ordine, la sicurezza e la civiltà e secondo cui la politicizzazione della religione costituisce un pericolo imminente per la sicurezza, è nemica della modernità e non conduce alla risoluzione dei conflitti. Tale visione è molto diffusa nei circoli accademici e politici dell’Occidente, ma trascura il fatto che il ruolo della religione è, almeno, politicamente ambivalente: le religioni possono, da un lato, promuovere la violenza politica e gli scontri, ma, nello stesso tempo, stimolare il civismo non violento, la capacità di dirimere i conflitti e la riconciliazione. In altre parole, la funzione positiva che la religione può svolgere nella modernizzazione, democratizzazione e persino nella costruzione della pace in numerosi paesi del cosiddetto mondo occidentale e non occidentale non deve essere trascurata – che è poi ciò che finalmente viene riconosciuto dalla crescente letteratura «revisionista» sul ruolo della religione nella sfera politica e nelle relazioni internazionali.

4.    L’esempio più manifesto di questa nuova tendenza lo si può individuare nella recente posizione filosofica di Jürgen Habermas, uno dei più noti intellettuali contemporanei, riconducibile alla tradizione illuminista del razionalismo e del secolarismo in politica. Habermas ha sostenuto che le nostre società moderne necessitano di sviluppare una nuova sensibilità post-secolare e devono considerare la religione come una risorsa per la discussione pubblica, al fine di curare le patologie generate dalla modernizzazione, tra cui la crisi di un sistema individualistico di relazioni che impedisce la costruzione di comunità reali e forti. In altre parole, questo nuovo approccio post-secolare muove una critica alle visioni predominanti, sulla base dell’idea che valori come la democrazia, la libertà, l’uguaglianza, l’inclusione e la giustizia possano essere ben perseguiti non esclusivamente all’interno di una cornice immanente e secolare.

5.  Ma come possiamo spiegare questa evidente rinascita delle religioni nella politica mondiale, che è anche il contesto nel quale si registra una crescente preoccupazione per il tema della libertà religiosa? Queste sono domande di grande attualità soprattutto se si pensa a come la religione e la politica hanno di recente interagito sia nel mondo islamico e occidentale, sia – più o meno precariamente – tra di esse. Se si considera la rinascita globale della religione come parte di un più ampio processo epocale di trasformazione della società contemporanea internazionale che va al di là della sua matrice moderna e centrata sull’Occidente, si possono trarre alcune considerazioni interessanti – anche in riferimento alla questione della libertà religiosa. In altre parole, la rinascita della religione può essere compresa all’interno di un contesto di cambiamento della struttura della società internazionale, che si sta verificando contemporaneamente allo spostamento del potere materiale ed economico verso i paesi orientali e del BRICS. Più specificamente, si può dire – ed è a tal riguardo che l’affermazione di Samuel Huntington conserva parte della sua validità – che la rinascita della religione nello scenario mondiale debba essere letta nell’ambito del dibattito sulle civiltà che, definite in senso fondamentalmente religioso e culturalista, si riaffermano come cornici strategiche di riferimento ideologico e non come protagoniste dirette della politica internazionale. Questo sviluppo è un fatto caratteristico del periodo successivo alla guerra fredda, nel senso che le rivendicazioni che si rifanno a differenze di civiltà e i riferimenti religiosi giocano oggi nel contesto ideologico globale un ruolo assai più importante rispetto a quanto avveniva quando nel corso della guerra fredda gli universalismi secolari rivali dominavano la scena. Tale sviluppo può, comunque, anche essere letto come parte di un processo di sfida a lungo termine contro la dominazione occidentale, intensificato dalla seconda guerra mondiale e da ciò che Hedley Bull ha chiamato “la rivolta contro l’Occidente”. Secondo Bull, la rivolta contro la dominazione occidentale è stata caratterizzata da cinque ondate: innanzitutto la lotta per l’uguale sovranità contro i «regimi di capitolazioni»; secondariamente, la rivoluzione anticoloniale; in terzo luogo, la lotta per l’uguaglianza razziale; in quarta battuta la lotta per la giustizia economica; ed infine la lotta per ciò che egli chiama liberazione culturale. Quest’ultimo stadio della rivolta contro l’Occidente assume la forma della ricerca di un’autenticità culturale del mondo non occidentale e della lotta contro il neo-imperialismo culturale. I principali esempi di ciò a livello politico sono stati la rivoluzione iraniana del 1979 e la rinascita mondiale dell’Islam politico, così come il nuovo avanzare dei paesi orientali nel nome dei cosiddetti «valori asiatici». Si può affermare che oggi stiamo ancora vivendo in gran parte dentro quest’ultima ondata di rivolta culturale e che questo processo si è intensificato da quando con la fine della guerra fredda si è sostenuta la necessità politica di un comune modello comune liberale (politicamente, economicamente e socialmente) e occidentale per l’intero pianeta. In questo nuovo contesto, la religione è diventata uno degli elementi chiave della resistenza politica e della lotta nel nome dell’etica collettiva delle «comunità realmente esistenti» e delle rivendicazioni che nascono dalla vita quotidiana delle persone. In altre parole, le religioni hanno offerto la cornice per una critica radicale alla globalizzazione dell’ordine «occidentocentrico» e liberale. Per usare la recente ed efficace affermazione di Régis Debray, un tempo rivoluzionario marxista e amico di Che Guevara, «la religione finisce dopo tutto non per essere l’oppio dei popoli, ma la vitamina del debole».

6.              Questo sviluppo è reso ancora più evidente e urgente dalla nuova centralità acquisita dal tema della democrazia e della democratizzazione nell’agenda internazionale post guerra fredda, e in particolare nel contesto politico successivo all’11 settembre. Contrariamente a quello che molti sostenitori della promozione della democrazia hanno sostenuto, non è probabile che la diffusione del modello democratico riduca la contestazione crescente nei confronti della natura occidentocentrica dell’attuale società internazionale. Al contrario potrebbe rinforzarla: sembra essere sempre più palese che i recenti processi di democratizzazione sono stati quelli guidati dall’indigenizzazione e reinterpretazione culturale della democrazia, come le recenti trasformazioni ispirate dai partiti di natura islamica nel mondo arabo sembrano provare. Questo processo di «inculturazione democratica» sembra essere il modo più appropriato di radicare le istituzioni e le forme democratiche di partecipazione politica in regimi stabili e di lunga durata – decisamente più efficace di una strategia che promuove (se non impone in maniera coercitiva) un modello liberale e democratico. Tali regimi possono essere considerati esempi significativi di un paradigma di «modernità multiple» e attestano la concreta possibilità di fusione dei valori politici «moderni», di pratiche locali e di modi di vita spesso radicati nelle tradizioni religiose.

7.              Il quadro delineato nei paragrafi precedenti può offrire alcune utili spiegazioni per la comprensione della dimensione politica della libertà religiosa; per esempio sono identificabili ragioni storiche e geopolitiche che spiegano gli approcci divergenti alla questione della libertà religiosa tra i paesi occidentali ed islamici – differenze che sono diventate sempre più visibili all’interno della recente discussione e del negoziato sulla libertà religiosa presso le Nazioni Unite e in altri congressi internazionali. Tali disaccordi non possono essere ridotti esclusivamente alle solite differenze di concezione della religione, ossia da un lato di una religione intesa come credenza (come nel caso della visione moderna occidentale) e dall’altro intesa come appartenenza culturale, etica ed anche politica (come nel mondo islamico). Per esempio, come ha sostenuto José Casanova, il principio della libertà religiosa declinato in maniera individuale è politicamente – e ciò non è affatto una questione religiosa – in contrasto con il diritto delle popolazioni indigene di proteggere la loro cultura dalla pressione esterna, che in quest’epoca di globalizzazione e omogeneizzazione culturale è percepito come qualche cosa di molto più essenziale per la sopravvivenza delle comunità; oppure, come Saba Mahmood ha recentemente mostrato, la storia della libertà religiosa nell’Impero Ottomano è stata legata all’esercizio del potere sovrano, della sicurezza regionale e nazionale, e della strategia geo-politica del controllo europeo nel Medio Oriente – un lascito, quest’ultimo, che nell’attuale discussione con i paesi a maggioranza musulmana l’Occidente può dimenticare soltanto a suo rischio.

PARTE 2: la comparazione delle cornici costituzionali e delle disposizioni giuridiche che riguardano la libertà religiosa o di credo.

1.      Secondo il report del 2009 del Pew Research Center, il 70% della popolazione mondiale vive in paesi dove la libertà religiosa o di credo è gravemente limitata. Milioni di persone sono soggetti a persecuzioni o a gravi discriminazioni a causa della loro religione. Ciò accade in diverse parti del pianeta, paesi occidentali inclusi, ai fedeli di diverse confessioni. Questa difficile situazione non è sfuggita all’attenzione degli stati e delle organizzazioni internazionali che hanno creato commissioni, osservatori e rappresentanti speciali per monitorare la condizione della libertà religiosa o di credo e per denunciare le violazioni nei suoi riguardi. È una questione di sostanza o di percezione? Ovvero la libertà di religione o di credo viene sempre più violata o lo è sempre stata, e a fare oggi la differenza è la nostra maggiore sensibilità nei confronti di tali violazioni? Probabilmente entrambe le opzioni sono valide, ma questa conclusione non è confortante. Perché, nonostante la forte protezione riconosciuta nei documenti internazionali e nelle costituzioni nazionali, il diritto alla libertà religiosa o di credo è così spesso violato? C’è forse qualcosa di sbagliato negli strumenti giuridici o nelle strategie politiche, messe in atto al fine di garantire tale diritto ai cittadini e ai residenti?

2.      Per rispondere a questa domanda, dobbiamo prima comprendere i motivi per cui la libertà religiosa o di credo è oggi così a rischio. Ci possono essere molte spiegazioni, ma due di esse richiedono una particolare attenzione. La prima prende in considerazione la maggiore visibilità che la religione occupa nello spazio pubblico. «Rivincita di Dio» o «de-privatizzatione della religione» sono alcune delle espressioni che sono state coniate per descrivere questo processo. La religione è ancora un elemento significativo nelle politiche internazionali e nazionali, riguarda problemi di sicurezza, attrae l’interesse dei media e così via. Questi sviluppi mettono in dubbio la nozione di spazio pubblico secolare che ha dominato il pensiero filosofico e giuridico occidentale negli ultimi due secoli e pongono problemi che investono la libertà religiosa o di credo in aree che precedentemente non erano state interessate. Pertanto, la portata delle questioni legate alla libertà religiosa o di credo è molto più ampia oggi di quanto non lo fosse alcuni decenni fa. La seconda spiegazione si basa sulla crescente diversità religiosa che ormai coinvolge molti paesi. A causa delle migrazioni e della globalizzazione, regioni del mondo che erano in precedenza relativamente omogenee sotto il profilo religioso, oggi ospitano una popolazione costituita da persone appartenenti a fedi differenti: la crescita delle comunità islamiche in Europa e quella delle comunità cristiane nella penisola arabica o in Africa sono solo alcuni esempi di questa trasformazione. Di conseguenza, la fede religiosa si manifesta attraverso simboli e comportamenti che sono inusuali e qualche volta inintelligibili alla maggioranza dei cittadini autoctoni, come nel caso di alcuni codici di abbigliamento religiosi in Europa. La forma assunta dalle questioni connesse alla libertà religiosa o di credo è molto più diversificata oggi di quanto non lo fosse alcuni decenni fa.

3.      A causa di queste trasformazioni, oggi un nuovo dizionario che riguarda la libertà religiosa e le sue violazioni sta prendendo forma; alcune di queste nuove (o forse vecchie) parole, che compongono tale dizionario, sono elencate qui di seguito. Esse includono termini quali apostasia, blasfemia, proselitismo, luoghi di culto, registrazione delle comunità religiose.

a) Apostasia. Cambiare religione è un diritto in alcuni paesi, un crimine in altri (qualche volta punito con la pena di morte). Dietro tale drammatica differenza, c’è una diversa concezione della religione: per alcuni la religione è una questione di credenza, per altri è una questione di appartenenza (naturalmente i due termini non sono mutualmente esclusivi). Nella tradizione occidentale la religione è soprattutto un fatto di coscienza, di scelta personale, mentre in altre tradizioni culturali è legata maggiormente all’appartenenza e al sentirsi parte di una comunità. In quest’ultimo caso lasciare una religione può essere visto come un tradimento del gruppo nel quale l’individuo è nato. Nel tempo quando le identità religiose, culturali e politiche tendono a sovrapporsi, il cambiamento di religione viene considerato non tanto un diritto individuale quanto una materia di interesse collettivo, che pertanto può essere soggetta a dei limiti. Tale cambiamento può determinare una regressione pericolosa per quanto riguarda la protezione della libertà religiosa o di credo. Che cosa si può fare per prevenire questo esito?

b)        Blasfemia. La questione della blasfemia sembrava un problema risolto una volta per tutte, ma oggi si è ripresentato. Le leggi sulla blasfemia sono state abolite in molti paesi, ma sono in vigore in altri. Che cosa dovrebbe essere protetto, la religione in sé o la sensibilità religiosa delle persone? Che cosa dovrebbe essere proibito, i reati di odio religiosamente motivati (come negli Stati Uniti) o anche i discorsi di incitamento all’odio motivati su base religiosa (come in molti Stati europei)?

c)         Proselitismo. Il proselitismo è anch’esso un diritto in alcuni paesi, un crimine in altri. I tribunali e le organizzazioni internazionali hanno cercato di trovare un terreno comune che tutelasse il proselitismo «in senso proprio» e proibisse quello «improprio», ossia quello che impiega mezzi violenti e ingannevoli o che trae vantaggio dalla posizione di superiorità di colui che fa proselitismo (si veda la decisione ECtHR nel caso Kokkinakis vs. Grecia). Ma la linea di demarcazione tra i due tipi di proselitismo è spesso sottile e difficile da localizzare e persino la legittimità del proselitismo «in senso proprio» non è incontestabile.

d)        Luoghi di culto. I luoghi di culto e i cimiteri sono diventati il principale bersaglio di distruzione e dissacrazione in molte parti del mondo; anche dove tali fenomeni sono infrequenti, la costruzione di un luogo di culto può essere soggetta a restrizioni legali e ostilità popolare (come nel caso della costruzione di moschee e minareti in alcuni paesi d’Europa). I luoghi di culto sono potenti simboli religiosi: sono visibili, possono attrarre un gran numero di fedeli e possono cambiare il paesaggio tradizionale di quel luogo. Questi elementi riescono a spiegare le ragioni per cui il luogo di culto di una minoranza religiosa può causare sentimenti di paura nella maggioranza, sebbene non siano giustificabili le eccessive limitazioni ad avere un luogo adeguato per esercitare il diritto alla libertà religiosa.

e)         Registrazione delle comunità religiose. Le comunità religiose hanno bisogno di svolgere alcune attività di base: affittare o comprare dei locali, aprire dei conti bancari, ricevere donazioni dalle loro congregazioni ecc. In molti paesi tali attività possono essere svolte soltanto dalle comunità religiose che sono registrate o riconosciute a livello locale e nazionale. Per questo motivo il riconoscimento/registrazione può essere una questione di vita o di morte per una comunità religiosa. Gli Stati godono di una certa discrezionalità in questo campo, ma, soprattutto quando lo Stato non interviene con alcun supporto (finanziario o di altra natura), negare ingiustificatamente la registrazione e il riconoscimento di una comunità religiosa può determinare una violazione del diritto collettivo alla libertà di religione dei suoi membri. C’è ancora molto lavoro da fare in questo settore per garantire delle regole chiare e delle procedure eque che proteggano i diritti delle minoranze religiose.

4. Questo elenco di problematiche che riguardano la libertà di religione o di credo potrebbe estendersi ulteriormente (si pensi alle questioni connesse ai simboli religiosi nello spazio pubblico o alla discriminazione religiosa nei luoghi di lavoro). Tuttavia sono abbastanza numerose per mostrare che alcuni dei modelli tradizionali dei rapporti stato-religione – e in modo particolare quelli basati su una rigida separazione delle organizzazioni statali e religiose, o quelli fondati su una stretta identificazione dello stato con una religione – non funzionano più così agevolmente. Tenuto conto della presenza di differenti religioni nella sfera pubblica, abbiamo bisogno di apprendere le strategie attraverso cui garantire la coesione sociale in un contesto di diversità religiosa e culturale. In questo campo, sia gli Stati sia le religioni sono chiamati a dare il loro contributo, assicurando che ciascuno di essi rispetti il proprio ruolo: lo Stato offrendo un habitat ospitabile e sicuro per il dialogo tra le diverse religioni, le religioni impegnandosi genuinamente e con rispetto in tale dialogo.

PARTE 3: comprendere la libertà religiosa o di credo e la libertà di espressione in diversi contesti sociali e culturali. Dove ci posizioniamo?

1.         I dibattiti che sono seguiti nel 2006 ad una serie di vignette sul profeta Maometto pubblicate su un quotidiano danese e più di recente quelli alimentati da un film americano che mostrava la vita del profeta Maometto sotto una luce negativa, ruotano perlopiù intorno al conflitto tra due diritti fondamentali: la libertà religiosa e di credo e la libertà di espressione. Questo approccio ha condotto ad una situazione senza vincitori: la protezione della libertà di religione e di credo richiede la limitazione della libertà di espressione e viceversa. In entrambi i casi i diritti umani sono sconfitti. Cercare di inquadrare la questione nei termini di libertà individuale vs. libertà collettiva, ossia da un lato il diritto di ciascuno a criticare la religione e dall’altro il diritto della comunità religiosa a vedere rispettato il proprio credo, non conduce a risultati migliori. È necessario un approccio differente. Al fine di comprendere la complessità di questo argomento e formulare delle idee che possano contribuire a superare tale impasse, potrebbero essere utili alcune osservazioni sulle radici storiche delle leggi che proteggono la religione e il loro campo di applicazione.

2.      Le leggi sulla blasfemia sono tra quelle più antiche e più diffuse a livello mondiale. La necessità di proteggere la categoria del «divino» – quindi Dio, i simboli religiosi, i libri sacri, ecc. – dalle offese umane la si ritrova già molto indietro nel tempo e riguarda tutte le religioni del mondo, incluse quelle occidentali. In anni recenti le leggi sulla blasfemia sono state associate in modo particolare ai paesi islamici (come il Pakistan), ma in base al report del 2011 del Pew Forum, le leggi contro la blasfemia non sono limitate a questi paesi; per esempio sono in vigore in India, Sud Africa e in un certo numero di paesi europei. In Europa, tali leggi hanno subito un processo di trasformazione che è iniziato dopo la seconda guerra mondiale: in alcuni paesi sono state semplicemente abolite e la religione ha cessato di avere una protezione speciale nel codice penale (ciò può essere considerata una conseguenza della secolarizzazione dei sistemi giuridici europei), mentre in altri paesi le leggi sulla blasfemia sono state conservate, ma hanno cessato di proteggere una singola religione (quella di maggioranza) e sono ugualmente rivolte alle diverse espressioni di fede (questa può essere interpretata come una risposta alla crescente diversità religiosa della popolazione europea). Allo stesso tempo un certo numero di paesi europei, in conformità all’art. 20/2 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, ha iniziato a punire i discorsi di incitamento all’odio contro i membri dei gruppi religiosi come parte di un sistema più ampio di protezione che riguarda gli individui ed i gruppi identificati in base a caratteristiche quali il colore della pelle, la disabilità, l’etnia, il genere, la nazionalità, la razza e l’orientamento sessuale. Nonostante alcuni avvocati o legislatori abbiano considerato queste leggi come versioni aggiornate delle leggi sulla blasfemia, esse sono essenzialmente differenti, perché ciò che è protetto da tali leggi non è Dio o la religione in sé, ma gli individui o i gruppi che professano una religione, la cui libertà religiosa è indubbiamente limitata dall’essere etichettati come oggetto di odio. Inoltre, a differenza delle leggi sulla blasfemia, le leggi sui discorsi di incitamento all’odio possono essere applicate soltanto quando la pace sociale è minacciata da affermazioni che incitano alla violenza o ad azioni pregiudizievoli contro una persona o un gruppo. Gli Stati Uniti costituiscono finora un’eccezione, in quanto le leggi sui discorsi di incitamento all’odio non sono comuni (mentre le leggi sulla blasfemia sono ancora in vigore in alcuni dei suoi stati).

3.      Alla fine di questo processo di trasformazione, le leggi sulla blasfemia restano in vigore (sebbene raramente applicate) in alcuni paesi europei, mentre la maggioranza ha optato per leggi che puniscano i discorsi di incitamento all’odio (inclusi i discorsi di odio contro la religione). Questo cambiamento non si è verificato nella maggior parte dei paesi influenzati dalla religione musulmana, dove le tradizionali leggi sulla blasfemia sono ancora in vigore. Questo diverso approccio è emerso in anni recenti nello scontro che si è verificato alle Nazioni Unite tra una coalizione di stati (guidati dai paesi musulmani) che ha spinto per una risoluzione che condannasse la diffamazione della religione e un altro gruppo di stati (e tra questi gran parte dei paesi occidentali) che si opponeva ad essa. La diffamazione della religione tende a punire le parole o le azioni volte a denigrare o criticare una specifica religione o la religione in generale. Si avvicina molto di più alla blasfemia che ai discorsi di incitamento all’odio, nel senso che tende a proteggere la religione in quanto tale anziché le persone che professano quella religione. Tenuto conto dunque di questa differenza dovuta alle diverse tradizioni giuridiche dell’Occidente e dei paesi musulmani, le radici di questo conflitto diventano chiare.

4.      Come affermato nelle righe iniziali di questo saggio, la necessità di un nuovo approccio al rapporto tra libertà religiosa e libertà di espressione è ampiamente sentita tra i politici, gli accademici e i rappresentanti delle organizzazioni internazionali. Alcuni hanno sottolineato che da una prospettiva di diritti umani, la libertà di religione e la libertà di espressione piuttosto che trovarsi in opposizione l’una con l’altra si pongono su un continuum giuridico: sia la libertà di religione che la libertà di espressione sono componenti centrali di una società democratica e pluralistica. Da questa angolazione, le tensioni inevitabili tra questi due diritti (ed i conseguenti limiti di entrambi) dovrebbero essere considerati partendo dalla prospettiva che tutti e due possono offrire un contributo al funzionamento di una società tollerante, plurale e democratica. Il rispetto dei «diritti e della libertà degli altri» (art. 9 ECHR) è un principio cruciale per determinare l’interazione tra la libertà di espressione e di religione o di credo. Tuttavia l’attuazione pratica di questo approccio promettente deve essere ancora più precisamente identificato.

5.      In base a queste osservazioni è possibile formulare alcune domande che potrebbero servire come punto di partenza per la discussione:

a)     per proteggere la libertà di religione e di credo, si richiedono delle disposizioni generali che criminalizzino forme di discorso offensive verso le religioni o coloro che professano la religione?

b)    la libertà di religione e di credo è sufficientemente protetta attraverso limitazioni di forme espressive che hanno il potenziale di causare danno agli individui e minacciare la pace sociale?

c)     le leggi contro i discorsi di incitamento all’odio sono un limite eccessivo alla libertà di espressione?

PARTE 4: combattere l’intolleranza religiosa e promuovere la comprensione reciproca: il ruolo cruciale dei media.

1.         L’attuale situazione internazionale caratterizzata da grandi tensioni culturali, progressiva intolleranza religiosa e fermento politico obbliga a perseguire una politica di dialogo interreligioso e interculturale: impegnarsi nel dialogo interculturale è cruciale per la pace, in quanto non può essere ignorato che sin dall’11 settembre – proprio nell’anno proclamato dalle Nazioni Unite come «l’anno del dialogo delle civiltà» – la violenza politica nel mondo e i conflitti hanno raggiunto un nuovo livello critico, sia a livello quantitativo che qualitativo, e l’ombra di un futuro scontro di civiltà si è diffusa nel mondo, in maniera anche molto minacciosa, innestandosi nella psicologia collettiva della gente. Inoltre, questo contesto politico di crescente incomprensione culturale e di sfiducia, il quale ha spinto alcuni a parlare del reale pericolo di uno «scontro d’ignoranza», è stato amplificato dalla mancanza di un consenso internazionale sui confini legittimi tra libertà di religione e libertà d’espressione. A tal proposito, il collegamento tra il dialogo di civiltà e il dialogo interreligioso, la comprensione reciproca e la pace sta diventando sempre più riconosciuto. L’ideale di «edificare ponti di comprensione reciproca» con l’obiettivo di imparare (o imparare di nuovo) a vivere insieme tra comunità diverse a livello culturale e religioso, è considerato ormai cruciale per il futuro della pace nel mondo.

2.         I mass media (inclusi i cosiddetti nuovi media) giocano un ruolo importantissimo nell’incanalare ed amplificare i complessi flussi di informazione e comunicazione che popolano la crescente sfera pubblica transazionale tra il mondo occidentale e quello islamico. Il loro ruolo è stato sottolineato ed è diventato oggetto di indagine in occasione di un elevato numero di eventi critici, come quello legato alla controversia sulle vignette danesi, al discorso del Papa a Ratisbona, al recente film americano sul profeta Maometto, all’iniziativa di bruciare il Corano e alle rivolte arabe.

3.         Una delle questioni più ricorrenti poste ai leader musulmani a partire dall’11 settembre – e in seguito anche agli altri attacchi terroristici perpetrati dagli estremisti islamici – ha riguardato il motivo per il quale non si siano levate voci di autorità e istituzioni religiose islamiche che condannassero quelli attacchi (per esempio nei media). Questa è una polemica retorica piuttosto sconcertante che è stata ripetuta molto spesso da vari analisti politici e giornalisti occidentali ed è diventata una sorta di senso comune dato per acquisito nella sfera pubblica dei paesi occidentali. Ciò costituisce un’immagine vera e fedele, una reale valutazione della principale reazione musulmana agli attacchi terroristici e ad altre forme di violenza politica religiosamente ispirata? Chiaramente no. Tutte le maggiori istituzioni islamiche, i diversi leader musulmani del mondo hanno inequivocabilmente condannato l’11 settembre e gli altri attacchi terroristici. Soltanto una piccola minoranza di radicali e di organizzazioni e leader religiosi per lo più non stimati religiosamente, non lo hanno fatto. Perché allora c’è stata una percezione così diversa? Una possibile risposta, che necessita di un esame serio, ha a che fare con il ruolo che i più importanti media hanno giocato nell’amplificare e nel dare voce alla minoranza radicale violenta, silenziando di fatto i principali leader e autorità islamiche che rappresentavano la gran parte dei credenti musulmani.

4.    Allo stesso modo, perché, quando una piccola chiesa americana ha annunciato la sua intenzione di commemorare 1’11 settembre bruciando il Corano, la notizia si è diffusa rapidamente in tutto il mondo attraverso i media, i social network e altri mezzi di comunicazione di grande diffusione? Mentre gli sforzi crescenti da parte delle persone comuni di tutte le fedi e di tutte le tradizioni di intraprendere il dialogo e lavorare insieme per colmare le differenze ed aumentare la comprensione reciproca – qualche volta anche su scala imponente, come nel caso del raduno interreligioso organizzato nel cosiddetto ‘spirito di Assisi’ – non hanno avuto spazio sui titoli di prima pagina. C’è la necessità di una discussione seria sulla responsabilità etica dei media nel combattere l’intolleranza religiosa e favorire la comprensione reciproca?

5.         Come possono i governi e le altre istituzioni politiche, con l’aiuto essenziale dei media, promuovere la fioritura di iniziative comuni (culturali, sociali, comunicative e politiche) per costruire nuove pratiche trasversali di solidarietà, cooperazione e mobilitazione che coinvolgano gruppi con differenti background culturali e affiliazioni religiose e agiscano insieme sulla base del bene comune?

6.         Un importante aspetto finale, che non ha ancora ricevuto un’adeguata attenzione nel processo politico per combattere l’intolleranza religiosa e promuovere la comprensione reciproca, riguarda la recente analisi sociologica dei tipi di identità religiosa (o religiosità) che producono con buona probabilità un comportamento politico violento. Tale analisi sembra suggerire un’immagine piuttosto diversa da quella ipotizzata nel dibattito dominante, in base alla quale, sintetizzando in maniera schematica, le identità religiose più forti sono anche più propense alla violenza. È, infatti, stato riscontrato che la violenza politica di natura religiosa, che è anche stata descritta come «religione forte» a livello politico, si caratterizza come «religione debole» a livello dottrinale. In altre parole, le identità religiose superficiali, ovvero le identità religiose che sono sradicate e sminuite e che non sono state sostenute da un processo intergenerazionale di trasmissione della tradizione – se non da ignoranza e indifferenza religiosa – sarebbero quelle che conducono di più alla politicizzazione violenta della religione da parte degli «imprenditori politici» e dei predicatori radicali. È interessante notare come tale schema sia confermato se si analizza il background religioso dei terroristi di Al Qaeda che hanno commesso gli attacchi dell’11 settembre: contrariamente alle attese, essi venivano da famiglie relativamente agiate, tipiche della classe media, che non erano particolarmente religiose, e sembravano avere avuto una debole educazione religiosa (cioè limitata nella portata e nella profondità) ottenuta essenzialmente attraverso un tardivo processo radicalizzante. Al contrario, le identità religiose forti a livello dottrinale – radicate nella cultura e nutrite dal processo intergenerazionale di trasmissione della tradizione – sembrerebbero essere più comuni negli attori religiosi legati a pratiche di risoluzione dei conflitti e peace-making. Ed è questo il motivo per cui è stato ipotizzato – sorprendentemente per molti fautori di posizioni secolari e per buona parte dell’opinione pubblica – che una maggiore cultura ed educazione religiosa andrebbe stimolata per rendere minore la probabilità di una facile manipolazione delle dottrine religiose da parte degli «imprenditori» o ideologi politici. Quindi, come possono i governi ed altre istituzioni pubbliche – con il sostegno cruciale dei media – sviluppare politiche e strategie comunicative di educazione che siano costruite su questi nuovi risultati contro-intuitivi e che siano in grado di facilitare il ruolo proattivo degli attori e delle istituzioni religiose nel combattere l’intolleranza religiosa e costruire una reciproca comprensione?

Pubblicato in occasione del Workshop Internazionale con il mondo accademico, i think tank e i rappresentanti dei media, svoltosi l’11 Febbraio 2013 presso il Ministero degli Affari Esteri italiano.

scritto da Silvio Ferrari e Fabio Petito

ISPI discussion papers

(traduzione dall’inglese di Lucia Santelia e Marco Stefano Birtolo)

Alla luce delle discussioni del Workshop il paper è stato rivisto ed esteso dagli autori in un Report ISPI dell’Ottobre 2013 intitolato «Promoting Religious Freedom and Peace through Cross-Cultural Dialogue».

Silvio Ferrari, Università di Milano e Membro del Steering Committee, International Consortium for Law and Religion Studies; Fabio Petito, Università del Sussex e Coordinatore scientifico del Seminario Mae-Ispi-Trento su «Religion and International Relations».

Le opinioni qui espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente la posizione dell’ISPI.

Le parti 1 e 2 sono state tradotte da Marco Stefano Birtolo; le parti 3 e 4 da Lucia Santelia.

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