Il Diritto e l’interazione tra gli uomini

Il Diritto e l’interazione tra gli uomini

Lon Luvois Fuller

Come indicato nel titolo, intendo il termine diritto in un senso molto ampio. Lo intendo nel senso di ricomprendervi non soltanto i sistemi giuridici statuali e nazionali, ma anche i siste¬mi di minore importanza – per lo meno «somiglianti al diritto» per struttura e funzione – presenti nelle associazioni di lavoratori, in quelle professionali, nei clubs, nelle chiese e nel¬le università. Questi sistemi giuridici in miniatura, beninteso, riguardando i doveri e i diritti di ricevere dei benefici da parte dei membri, all’interno dell’associazione stessa. Tali sistemi presentano il loro aspetto drammaticamente più rilevante quan¬do chi si allontana dal tracciato prestabilito è chiamato a rispondere di infrazioni che possono portare all’applicazione di provvedimenti disciplinari o all’espulsione.
Quando il concetto di diritto coincide con questo largo raggio di azione, diventa chiaro che molte questioni, ¬oggi centrali, sono, in senso lato, per loro natura giuridiche. La pressione del nostro stato presente si muove – come mai prima d’ora – ad uno sforzo di comprensione. Dobbiamo riu¬scire a cogliere e comprendere le forze morali e psicologiche che sono alla base del diritto in generale e che lo rendono efficace nelle vicende degli uomini.

 

1. La natura e il significato del «diritto consuetudinario»

Se, in questo sforzo di comprensione, prendiamo in considerazione le trattazioni sul diritto, troveremo che queste di solito cominciano col distinguere due modi di essere del diritto. Da una parte, si ha il diritto formalmente emanato o dichiarato da un’autorità che può esse¬re definito made law; dall’altra parte, si ha quello che è no¬to come diritto consuetudinario. Il diritto consuetudinario non è il risultato di un’emanazione pubblica, ma deve la sua efficacia al fatto di essere direttamente espresso nel comporta¬mento reciproco degli uomini.
Analogamente al modo in cui vengono considerati questi due modi di essere del diritto, le trattazioni in materia dedicano generalmente la loro quasi totale attenzione al diritto formalmente emanato o dichiarato, al diritto contenuto nelle legislazioni, nelle sentenze, nei regolamenti, nei provvedimenti amministrativi. La disamina del diritto consuetudinario spesso si limita a porre la questione «Perché dovrebbe essere consi-derato vero e proprio diritto?». Al di là dei dibattiti condotti su questo argomento, e al di là dell’analisi della sua funzione nelle società primitive, il diritto consuetudinario è ge-neralmente lasciato ai margini, in quanto ritenuto in gran misura irrilevante per le civiltà avanzate. Si tende a considerarlo come una sorta di pezzo da museo, idoneo a costituire oggetto di studio serio per antropologi incuriositi dai modi di vita dei popoli che si trovano allo stato tribale.
Ritengo che l’aver trascurato il fenomeno chiamato diritto consuetudinario abbia nuociuto gravemente al nostro modo di considerare il diritto in generale. Se pure si accetta l’analisi, piuttosto approssimativa, che i trattati offrono sull’argomento, ciò non toglie che un’adeguata comprensione del di¬ritto consuetudinario sia di capitale importanza nel mondo attuale. In primo luogo, gran parte del diritto internazionale, forse la parte più vitale di esso, è essenzialmente diritto consuetudinario. La pace nel mondo forse dipende dal buon funzionamento di un sistema giuridico di questo tipo. In secondo luogo, in gran parte del mondo è ancor oggi vigente il diritto consuetudinario. Le nazioni emergenti (in particolare in India, in Africa e nel Pacifico) sono attualmente impegnate nell’ardua transizio¬ne da sistemi di diritto consuetudinario a sistemi di diritto formalmente emanato. Le poste in gioco che questa transizione comporta – per loro e per noi – sono davvero altissime. Quindi, il fatto che regoliamo il comportamento verso i nostri compa¬trioti al di fuori del diritto consuetudinario non vuol dire, di per sé, che questo non abbia importanza per noi come citta¬dini del mondo.

La tesi che mi accingo qui a sostenere è, comunque, qualcosa di più radicale di una semplice insistenza sul fatto che il diritto consuetudinario riveste ancora oggi notevole importanza. Sto per dimostrare che non si può comprendere il di¬ritto «comune» (ossia il diritto pubblicamente dichiarato o formalmente emanato) a meno che non si riesca a comprendere il diritto denominato consuetudinario.

Devo confessare che, nel preparare la mia relazione, a questo punto ho incontrato una grossa difficoltà, che è dovuta proprio al termine «diritto consuetudinario». Questo è il termine che si trova nei titoli e negli indici dei libri e, se si vuol mettere a confronto ciò che devo dire con ciò che altri hanno detto, questa è l’espressione che si dovrà prendere in considerazione. Nello stesso tempo, l’espressione di cui si tratta è delle più infelici perché, pressoché inevitabilmente, occulta la natura del fenomeno che essa pretende di designare. Invece di fungere da indicatore neutro, questa espressione pregiudica ciò che esprime; essa afferma che l’efficacia e il significato di ciò che prende il nome di diritto consuetudinario consistono semplicemente nell’abitudine o nell’uso.

Contrariamente alla prospettiva sinora indicata, sosterrò che il fenomeno che va sotto il nome di diritto consuetudinario può essere descritto come un linguaggio di interazione. Per interagire in modo significativo, gli uomini hanno bisogno di un ambiente sociale in cui le mosse dei partecipanti al gioco rientreranno di solito in qualche modello prevedibile. Per impegnarsi in un efficace comportamento sociale gli uomini hanno bisogno del sostegno di anticipazioni che consentiranno loro di sapere che cosa faranno i loro simili, o che almeno li renderanno capaci di valutare la portata generale da cui saranno attinte le risposte alle loro azioni. A volte si parla di diritto consuetudinario come per indicare un codice non scritto di comportamento. La parola codice in questo caso è appropriata, perché ciò che vi è im¬plicato non è soltanto una negazione, una proibizione di determinate azioni colpite da disapprovazione, ma è anche l’altra faccia di questa negazione, il significato attribuito ad azioni prevedibili ed oggetto di approvazione, e che quindi offrono un punto di orientamento per risposte a comportamenti interazionali. Parsons e Shils hanno trattato, con riferimento all’azione sociale, della funzione delle «aspettative complementari» ; il ter¬mine aspettative complementari indica precisamente la funzione che qui sto attribuendo al diritto che si sviluppa a causa dell’interazione fra gli uomini, una forma giuridica che i dizio¬nari e i titoli dei libri ci costringono a chiamare diritto consuetudinario.
Nel continuare il raffronto con il linguaggio, supponiamo di dover aprire un trattato di linguistica e di imbatterci, come primo capoverso del libro, nell’affermazione seguente: «Una lingua parlata consiste in un certo tipo di suoni che gli uomini emettono con la bocca. Le forme di questi suoni sono sta¬bilite dalla consuetudine e dalla tradizione; la forza dell’abitudine è tale che, all’interno di qualsiasi cultura, gli uomini emetteranno sempre la medesima serie di suoni che i loro ante¬nati emisero, tutt’al più con modifiche ed aggiunte di secon¬daria importanza».

La reazione potrebbe essere che si tratta di un modo molto strano di aprire una discussione sulla lingua. Saremmo propensi a rispondere «ma questa affermazione non ci dice per che cosa esiste il linguaggio. Evidentemente, la sua finalità è comunicazione. Se questa è la sua finalità, la ragione per cui gli uomini continuano naturalmente ad usare in genere gli stessi suoni dei loro padri e, adesso, dei loro contemporanei è semplicemente che vogliono essere capiti».

Questa immaginaria introduzione alla linguistica tuttora non è lontana, nel pensiero, da quanto si trova, circa il diritto consuetudinario, nei trattati di giurisprudenza. Sarà bene cominciare a riflettere brevemente su alcune valutazioni del diritto consuetudinario tratte dalla letteratura esistente.
Una disamina molto citata si può trovare negli Elements of Jurisprudence di Holland. Questi sostiene che la ca¬ratteristica che contraddistingue il diritto consuetudinario è di «essere una linea di condotta osservata a lungo ed in generale». Holland continua spiegando che:

Nessuno mai ha assistito coscientemente al momento in cui prende avvio tale linea di condotta, ma difficilmente si può dubitare che in genere essa abbia avuto origine nella scelta consapevole della più conveniente fra due azioni, sebbene mol¬to probabilmente nell’adozione casuale di una fra due alternative indifferenti; la scelta, nell’uno come nell’altro caso, è stata ripetuta o deliberatamente o casualmente, fino a consolidarsi in abitudine.

L’esempio migliore della elaborazione di queste abituali linee di azione è il modo in cui è formato un traccia¬to attraverso un terreno. Un uomo attraversa il terreno, nella di¬rezione suggerita o dal fine che egli persegue ovvero dal pu¬ro caso. Se altri seguono la stessa strada, che probabilmente percorrono dopo che è stata calcata una prima volta, è fatto un tracciato.

Prima che si sia formata una consuetudine, non c’è alcuna ragione di diritto perché si prenda una direzione piut¬tosto che un’altra, benché possano esserci motivi di opportunità, di scrupolo religioso, o di ispirazione casuale. Una linea di azione abituale, una volta formata, diventa ogni anno più forte ed inviolabile. Si tratta di una linea di azione che tutti si sono abituati a vedere seguita, e in genere ritenuta vantaggiosa, e qualunque deviazione da essa è sentita come fuo¬ri dalla norma, immorale. Tale linea d’azione non è mai stata riconosciuta dall’autorità organizzata dello Stato, ma è stata indiscutibilmente osservata dagli individui che compongono lo Stato .

Ora, riconosco che, in tutta questa lucida riflessio¬ne, non si è assolutamente accennato al fatto che il diritto consuetudinario trova origine nell’interazione o che serve alla finalità di organizzare e di favorire l’interazione. Invero, l’immagine del battistrada solitario sembra scelta quasi apposta per escludere le complicazioni che sorgono quando gli uomini tentano di seguire un orientamento reciproco delle loro azioni.

Nella prima edizione della Encyclopedia of Social Sciences, l’articolo sul diritto consuetudinario comincia con la citazione di Holland, ne prende in prestito l’immagine del battistrada solitario, e termina il primo capoverso con lo spie¬gare che il ruolo giocato dal diritto consuetudinario nelle società primitive è dovuto alla «forza dell’abitudine», che «pre¬vale nell’intera preistoria della specie» .

Citerò adesso brevemente un passo tratto da un autore in genere più aperto – e, direi, capace di più profon¬da intuizione riguardo al diritto consuetudinario, rispetto a quelli appena citati. In Jurisprudence, Salmond discute la questione seguente: quali ragioni possono autorizzare una corte ad adottare una norma consuetudinaria come standard decisionale? Una di queste ragioni consiste nel fatto che:

La consuetudine è l’incarnazione di quei prin¬cipi che hanno ottenuto l’approvazione della coscienza nazio¬nale quali principi di verità, di giustizia e di pubblica utilità. Il fatto che qualche norma sia già sancita dalla con¬suetudine fa presumere che meriti di essere sancita anche dal diritto… Più in generale, sarebbe opportune che i tribunali, nel ricercare le norme di diritto che è loro compito applicare, fossero disposte ad applicare quelle che già godono del prestigio e dell’autorità derivanti da un consenso consolidato, piuttosto che tentare il più arduo compito di dar forma ad una serie di norme che di per sé apparissero sotto la luce della natura .

Queste osservazioni, naturalmente, sono ricche di saggezza – così come di una considerevole dose di conservatorismo. Ma, per quanto riguarda la natura del diritto consuetudinario, la nozione qui espressa sembra voler dire che, proprio come una società può avere norme impostele dall’alto, così, per una sorta di preferenza colletti¬va inespressa, gli uomini sono conside¬rati capaci di regolare le loro interazioni secondo un diritto che la società cui appartengono ha tacitamente indicato loro come giusto. Ciò che manca è una qualche ricerca sugli effettivi processi sociali attraverso i quali questo diritto è stato posto in essere e dai quali è supportato.

Potrei aggiungere altre citazioni tratte dalla letteratura giuridica, ma queste non introdurrebbero alcun cambiamento sostanziale, nel tono o nella sostanza, nella discus-sione già portata avanti. Il punto che qui vorrei sottolineare riguarda, in ogni caso, non tanto ciò che gli autori dicono del diritto consuetudinario, quanto ciò che essi non dicono. Essi pongono quasi tutte le domande riguardanti le norme consuetudinarie, tranne una: quali sono i processi formativi di queste norme? Essi si chiedono: che cosa fare del diritto consuetudinario ereditato? Ma non si pongono tante domande del tipo: quali funzioni, fra quelle che ha posto in essere, quel diritto ha soddisfatto? Esistono, nella nostra società, gli stessi bisogni funzionali? E, in caso affermativo, come andiamo loro incontro? Si verificano, attorno a noi, processi analoghi a quelli che, prima del diritto formalmente stabilito, ponevano in essere le nor¬me consuetudinarie?

Su tali questioni tornerò più avanti. Intanto, vorrei affrontare certe obiezioni che si possono sollevare con¬tro la proposta di considerare il diritto consuetudinario co¬me un linguaggio di interazione. Nel rispondere a queste obiezioni, riuscirò forse a chiarire il punto di vista dal quale mi pongo.

La prima obiezione è che il diritto consuetudinario delle società primitive può formulare norme che non hanno a che fare con l’interazione fra gli uomini. Si possono avere of¬fese contro divinità e spiriti; un uomo può essere punito, perfino con la morte, per un’azione commessa in assenza di al¬tre persone, dove quell’azione violi qualche tabù. La mia ri¬sposta è che le visioni animistiche della natura sono capaci di ampliare immensamente il significato che le azioni di un uomo possono rivestire per quelli che stanno con lui. Vi è un passo, in Walter Bagehot, che cade molto a proposito. Bagehot osserva che «la ragione per la quale la cattiva religione di A non può crear danno, ora o per l’avvenire, al benessere di B è, strano a dirsi, un’idea moderna» . Il limite entro il quale le credenze e le azioni di un uomo saranno considerate capaci di interessare quelli che gli stanno vicini dipenderà dal livello al quale gli uomini considerano se stessi come parti l’uno dell’altro, e dalle loro credenze nelle forze sacre che li tengono uniti. All’interno della famiglia estesa la distinzio¬ne fra azioni altruistiche ed azioni rivolte a proprio vantag¬gio assumerà un aspetto molto diverso da quello che presenta nella nostra società, in larga parte composta, qual è, da estranei, fortemente increduli nel soprannaturale.

Un’ulteriore obiezione alla concezione del diritto consuetudinario come linguaggio di interazione può essere for¬mulata nei termini seguenti: una concezione del genere è un po’ troppo razionalistica ed attribuisce al diritto consuetudinario un’attitudine funzionale, una finalità così trasparente, che è ben lontana dalla consuetudine primitiva. Il diritto consuetudinario è pieno di routines rituali e di cerimonie senza scopo; queste ultime forse soddisfano una certa inclinazio¬ne al dramma, ma può essere difficile dire che esse siano finalizzate ad una reale comunicazione, o allo sviluppo di aspettative stabili che organizzeranno o favoriranno l’interazione.

Per rispondere, vorrei dire, invece, che funzione si¬gnificativa del rito è proprio la comunicazione, mediante azioni definite con tale precisione da non poter ingannare cir¬ca il loro significato. Erikson fa un’interessante disamina del fenomeno rituale che si sviluppa nelle interazioni fra la madre e il bambino.

Al risveglio, il bambino invia alla madre un messaggio e subito ridesta in lei tutto un insieme di comportamenti emozionali, verbali e di manipolazione. Ella gli si av¬vicina sorridente e sollecita, chiamandolo per nome con alle¬gria o con ansia, e comincia a darsi da fare: guardando, sentendo, odorando, si accerta dell’esistenza di possibili fonti di disa¬gio e dà inizio ad operazioni che servono a riordinare la situazione del bambino, preparandogli da mangiare, prendendolo in braccio etc. Se osservato per diversi giorni (specialmente in condizioni inconsuete), è chiaro che questo avvenimento quoti¬diano acquista una sempre maggiore formalizzazione, cioè la madre si sente obbligata (e, magari, per niente compiaciuta) a ri¬petere un’operazione che desta nel bambino risposte anticipabili, che incoraggiano lei, a sua volta, a continuare .

Erikson prosegue con l’osservare che la formalizzazione di questa operazione, la componente rituale presente in essa, è colta con maggiore acutezza dagli estranei, ossia da quelli che non appartengono alla famiglia, o al ceto o alla cultura al cui interno quell’operazione ha luogo. Erikson conclude col sostenere che la finalità dell’operazione è di espri¬mere un riconoscimento reciproco; la sua funzione fondamentale, in altre parole, è la comunicazione. Erikson si rifà a studi del comportamento rituale degli animali, che indicano come tale comportamento si sia sviluppato per «produrre una serie di segnali in modo da evitare fatali incomprensioni», e conclude che, nel caso del comportamento umano, «il superamento dell’ambiguità è una finalità importante della … ritualizzazione». Certamente, presso un popolo che non possiede alcun mezzo ufficiale di registrazione di matrimoni, si può dire che le elabo¬rate cerimonie nuziali di alcuni sistemi consuetudinari perseguono una finalità di comunicazione e di chiarificazione.

Per illustrare le questioni che ho trattato con riguardo al fenomeno rituale e, più in generale, con riguardo alla funzione di comunicazione caratteristica delle pratiche consuetudinarie, vorrei fare riferimento, in breve, ad un’evoluzione che sembra stia verificandosi nelle relazioni diplomatiche fra Russia e Stati Uniti. Forse si sta assistendo qui a qualcosa di simile ad un diritto consuetudinario in via di formazione. Sembra essersi affermata, fra questi due Paesi, una sorta di reciprocità, riferita al ritiro forzato di rappresentanze diplomatiche. Ad esempio, il governo americano ritiene che un membro dell’ambasciata russa sia implicato nello spionaggio, o forse, direi, lo ritiene iperimplicato nello spionaggio; lo dichiara persona non grata e chiede la sua partenza da questo Paese. La risposta che ci si aspetta, fondata su esperienze passate, è che la Russia accoglierà tale richiesta, ma nello stesso tempo chiederà in cambio il ritiro dalla Russia di un rappresentante diplomatico del medesimo rango. Viceversa, se i russi espellono un messo diplomatico, gli Stati Uniti reagiranno rispedendo in¬dietro un emissario russo.

Quanto meno si ha qui, per il momento, un complesso ab¬bastanza stabile di aspettative; nel campo interessato da que¬sta consuetudine, ogni paese è in grado di fare affidamento, con notevole anticipo, sulle reazioni della controparte. Ciò significa che le sue decisioni possono essere determinate da un calcolo preventivo dei costi abbastanza preciso. Noi sap¬piamo che, se cacciamo uno dei loro uomini, essi cacceranno uno dei nostri.

Sarebbe il caso di osservare che la consuetudine è diventata routine, e che presenta (almeno allo stato latente) caratteristiche rituali e simboliche. Per esempio, supponiamo che le autorità americane si trovino di fronte al seguente dilemma: i Russi hanno dichiarato persona non grata un membro di alto rango dell’ambasciata americana a Mosca, e risulta difficile trovare un membro altrettanto importante da far tornare in Russia. Potremmo ipotizzare, ad esempio, che le rappresentanze sovietiche del medesimo rango dell’americano espulso fossero persone che Washington preferirebbe restassero in questo Paese. In questa situazione, ai responsabili della decisione da assu¬mere potrebbe venire in mente, al fine di preservare un giusto equilibrio, di rispedire in Russia cinque uomini di rango più basso di quello dell’americano espulso, o forse addirittura di procedere all’espulsione di dieci funzionari d’archivio come ri¬torsione più idonea.

Ora, secondo me, qualunque responsabile ufficiale dovrebbe riflettere a lungo prima di abbracciare una simile alternativa. Il rischio starebbe nell’alterazione procurata al chiaro simbolismo del rapporto di uno a uno, nella confusione che potrebbe introdursi nel riconosciuto significato delle azioni implicate. È questo il caso in cui entrambe le parti probabilmente vorrebbero essere ben consigliate ad attaccarsi ad un rituale noto, in quanto un allontanamento da esso potrebbe far perdere i vantaggi acquisiti di uno stabile sistema di interazioni.

L’esempio appena discusso può non essere dei migliori, perché rappresenta, come qualcuno potrebbe osservare, una sorta di diritto consuetudinario, molto ridimensionato, un diritto che attribuisce una reciprocità non di vantaggi, ma di espressioni di ostilità. Occorrerebbe ricordare, però, che gran parte del diritto consuetudinario dei popoli primitivi espleta proprio questa funzione. Ostilità tribali aperte e sen¬za quartiere spesso diventano, nel tempo, oggetto di restri¬zioni tacite e formalizzate, e possono sopravvivere, alla fine, soltanto come una finta battaglia rituale . Inoltre, nella consuetudine diplomatica che ho illustrato, dev’esserci una reciprocità più articolata di quella che affiora alla superficie. All’epoca dell’incidente della Pueblo, fu avanzata la proposta che Russia e Stati Uniti potessero avere un medesimo interesse a spiarsi l’un l’altro con moderazione e discrezione. Non vo¬gliono che i russi indaghino sui nostri segreti militari, ma vo¬gliamo che essi, in base all’informazione su cui fanno affidamento, sappiano che noi non stiano pianificando un attacco a sor¬presa contro di loro. Questo interesse condiviso forse costitui¬sce parte del retroterra dello scambio di scortesie diplomati¬che che, conformato ad un modello rituale, esiste fra i due Paesi.

Ho già confessato di dover adoperare con disappunto l’espressione diritto consuetudinario così frequentemente in questo studio. Ambedue le componenti di questa espressione, aggettivo o sostantivo, presentano problemi. Riprenderò brevemente le difficoltà create dal sostantivo. Intanto, sarebbe opportuno esplorare, con maggior attenzione rispetto a quanto fatto finora, i problemi che la ricerca di un surrogato soddisfacente di diritto consuetudinario comporta. Come ho già osservato, la principale obiezione verso questa espressione è dovuta al fatto che essa la¬scia pensare che la semplice ripetizione di qualche azione da parte di A creerà in altri la giusta aspettativa che A ripeterà questa azione, con l’implicazione che la forza di que¬sta rivendicazione varierà proporzionalmente alla durata del comportamento ripetitivo di A. Naturalmente, nessun teorico del diritto consuetudinario condivide di fatto una assurdità del genere, per quanto gran parte del linguaggio adoperato possa a volte sembrare suggerire il contrario. Il mio vicino per anni potrebbe essersi alzato ogni mattina alle otto in punto, oppure nessuno considererebbe questa abitudine consolidata come capace di creare un obbligo verso di me, a meno di far parte di una qualche organizzazione delle nostre attività, come nel caso in cui dipendesse da lui farmi accompagnare in macchina al lavoro. Allora, invece di parlare vagamente di un obbligo che sorge attraverso una duplice abitudine o ripetizione, sarebbe meglio dire che un significato di obbligatorietà viene alla luce quando una stabilizzazione di aspettative interazionali si è determinata in modo tale che le parti si siano trovate a dirigere il loro comportamento reciproco in base a queste aspettative.

Il termine aspettativa interazionale, tuttavia, è da solo capace di ingenerare difficoltà. Sbaglieremmo, per esempio, a supporre che l’aspettativa o l’anticipazione relativa dovessero rientrare attivamente nella sfera della coscienza. Infatti, le anticipazioni che, nella maniera più inequivocabile, strutturano il nostro comportamento e gli atteggiamenti verso gli altri spesso operano proprio al di fuori della nostra coscienza. Per prendere un esempio da un qualunque banale contesto, è stato dimostrato che la distanza stabilita dalle persone fra di loro, nel condurre una normale conversazione, varia in modo prevedibile a seconda delle culture e da individuo a individuo. Al contempo, la maggior parte della gente, senza una indagine preliminare, non saprebbe indicare che cosa intende per distanza nella conversazione. La mia incapacità di definire in modo disinvolto una distanza adeguata non mi impedisce, tuttavia, di interpretare come offensivo il gusto di qualcuno che avvicinasse spiacevolmente la sua faccia alla mia, né diminuirebbe il mio imbarazzo e il mio disagio di fronte all’atteggiamento di chi, all’avvicinarmi ad una distanza da me ritenuta normale per una conversazione, continuasse ad arretrare. Il nostro atteg¬giamento verso gli altri, l’interpretazione del loro atteggiamento verso di noi sono, in altri termini, costantemente strutturati da standard che non rientrano nella sfera cosciente dei nostri processi mentali. L’analogia linguistica è, ancora una volta, pertinente; spesso prendiamo coscienza delle regole gram¬maticali solo quando sono violate, ed è talora la loro violazione che ci porta ad articolare per la prima volta regole che avevamo in precedenza applicato senza conoscerle.

Qualunque analisi in termini di «aspettative interazionali» deve pure affrontare il problema dell’oggetto che è in qualche modo estraneo alle aspettative che organizzano la vita di un gruppo particolare. Può trattarsi di un estraneo in senso vero e proprio, di un mercante, ad esempio, che viene da lontano per vendere le sue merci ad una tribù. Oppure può trattarsi di qualcuno che, quantunque nato e cresciuto all’interno del gruppo, può essere «alienato», troppo poco sensibile per capire il sistema, o forse troppo sensibile per accettare alcune delle assurdità ed anomalie. Evidentemente, a questo punto, sarebbe impossibile iniziare un’analisi adeguata dei problemi sollevati. Si può tuttavia azzardare un’ipotesi: è al vero estraneo – «lo straniero» del famoso saggio di Simmel – che dobbiamo non soltanto l’invenzione del commercio ma, più in generale, la scoperta che è possibile per gli uomini organizzare le loro relazioni reciproche con un contratto esplicito.

Passiamo adesso ai problemi legati al sostantivo nell’espressione diritto consuetudinario. Se si parla di un si¬stema di stabili aspettative interazionali come del modo più idoneo a descrivere ciò che i trattati nominano diritto consuetudinario, ci si trova nell’imbarazzo per cui molte di queste aspet¬tative hanno a che fare con questioni apparentemente lontane da qualsiasi contesto giuridico. Per esempio, le prescrizioni dell’e¬tichetta corrispondono in pieno alla definizione proposta, ma si sarebbe poco propensi a qualificare come giuridiche regole di questo genere.

Quanto precede ci fa domandare: in quale misura ciò che è designato come diritto consuetudinario merita davvero di essere chiamato diritto? Gli antropologi hanno tentato di rispondere a questa domanda , e diverse sono le risposte fornite, ivi compresa quella per cui la domanda è mal posta, dal momento che non si può applicare un concetto intriso di nozioni espli¬citamente giuridico-legislative ad un contesto sociale in cui le regole di condotta sono introdotte senza l’intervento di un organo investito del potere di legiferare. Tra quelli che han¬no preso sul serio la questione, Hoebel ha formulato la rispo¬sta forse più interessante; sarà opportuno prenderla per un attimo in considerazione. Hoebel suggerisce che, quando si tratta delle società senza stato o primitive, «si può definire il diritto nei termini seguenti: una norma sociale è giuridica se l’ignorarla o il trasgredirla sono contrastati, dietro minaccia o in via di fatto dal ricorso alla forza fisica da parte di un in¬dividuo o di un gruppo in possesso del privilegio socialmente riconosciuto di agire in questo modo» .

Questa spiegazione comporta, a mio parere, un certo numero di problemi. In primo luogo, essa sembra definire il «diritto» in base ad una mancanza. Se la funzione del diritto è di dar luogo ad un ordinato sistema di relazioni fra i membri di una società, che dire di un sistema che opera in modo così scontato da non dare mai motivo di far ricorso alla forza o alla minaccia della forza per far rispettare le sue norme? Il perfetto funzionamento di un sistema del genere lo priva del titolo prestigioso di «diritto»?
Ancora, si può sempre sapere in anticipo se la tra¬sgressione di una determinata norma sarà punita con la violenza? La gravità della violazione di una qualsiasi norma è sempre, in una certa misura, in funzione del contesto. Si può azzardare l’ipotesi che poche società reprimano con l’uso della violenza le trasgressioni delle norme dell’etichetta. Poniamo, ad ogni modo, che le delegazioni in rappresentanza di due tribù sul piede di guerra si incontrino per fare la pace; il membro di una delle due delegazioni chiama con un soprannome offensivo la sua controparte; il risultato è una guerra sangui-nosa e disastrosa. È verosimile che i membri della tribù si limitino a comminare al colpevole una modesta sanzione di bia¬simo sociale? Se questo esempio sembra inventato, basta notare che, nella nostra libera società, è un principio giuridico riconosciuto che nessuno sia considerato responsabile per aver espresso un’opinione non lusinghiera circa l’intelligenza e la probità di qualcuno. Se un avvocato, sostenendo una causa in tribunale, si avvalesse di questa libertà nel rivolgersi al giudice, potrebbe benissimo essere accompagnato con la forza fuori dell’aula delle udienze e condannato a scontare una pena detentiva per vilipendio.

Forse, l’obiezione fondamentale alla proposta formulata da Hoebel è che questi ignora la caratteristica di sistema del diritto primitivo. Il diritto della tribù o della famiglia estesa non è soltanto una tabella di permessi e divieti; è un programma per la vita in comune. Alcune parti del program¬ma possono articolarsi come norme distinte, accompagnate da spe¬ciali sanzioni. Ma la logica fondamentale del diritto consuetu¬dinario continuerà ad appartenere al sistema nella sua interezza. Può darsi che Lévi-Strauss, a volte, porti questa caratteristica dei sistemi sociali primitivi al limite della caricatura , ma in tal caso i suoi lavori offrono un antidoto salutare alla tendenza a presumere che qualsiasi sistema consuetudinario pos¬sa ridursi ad una specie di codice di paragrafi numerati, ogni paragrafo evidenziandosi come una microlegge in sé completa.

Una recente polemica fra antropologi merita di essere presa in considerazione, a questo riguardo. In un’opera celebre, The Judicial Process Among the Barotse of Northern Rhodesia, Max Gluckman fa notare che un elemento-chia¬ve del pensiero giuridico dei Barotse risiede nel concetto di «uomo ragionevole». Il fatto che questo concetto svolge un ruo¬lo anche in sistemi più avanzati depone a favore, secondo Gluckman, di una certa universalità nel modo di pensare il diritto. Le conclusioni di Gluckman furono criticate in maniera alquanto vigorosa da alcuni suoi colleghi .

Può forse aiutare a chiarire quelle conclusioni, la considerazione di una norma giuridica, nota ad ogni lettore, consuetudinaria almeno in origine. Parlo del «regolamento del traffico», in base al quale (nella maggior parte dei Paesi), al sopraggiungere di un veicolo, si tiene la destra. Ora, parrebbe su¬perfluo e addirittura assurdo inserire in questa sede qualcosa di simile al concetto dell’uomo ragionevole; io tengo la destra non perché io sia un uomo ragionevole, ma perché questa è la regola.
Ma immaginiamo una situazione in cui i presupposti della regola non reggano più. Ad esempio, si guida in un’area di parcheggio, senza indicazione di corsie, dove altri veicoli vanno e vengono, avanti e indietro. Ancora, se si guida in una nor¬male autostrada, si va incontro ad un veicolo che si avvicina sban¬dando sulla strada a destra e a sinistra, apparentemente fuori controllo. In situazioni come queste, si richiedono semplicemente il giudizio e il discernimento dell’«uomo ragionevole»; in un contesto del genere, il regolamento del traffico può offrire una sorta di indicazione di massima sul da farsi nel caso in cui altri elementi della situazione non offrano alcuna chiara soluzione.

La società primitiva, come il traffico dei veico¬li, è regolata da un sistema di ruoli interdipendenti. Quando qualcuno viene meno al suo ruolo, o si verifica una situazione in cui un ruolo consueto viene privato di alcuni o di tutti i suoi significati, allora devono imporsi delle rettifiche. Non esiste altra formula capace di determinare queste rettifiche, se non la ragionevolezza – che si applica alla luce di quanto richiesto dal sistema nella sua globalità. Non è dunque un caso che Gluckman riferisca di aver colto per la prima volta il signi¬ficato dell’«uomo ragionevole» per il diritto dei Barotse quando ha riflettuto sulla controversia designata come «il caso del padre prevenuto» .

Prima di passare ad altre questioni, vorrei insiste¬re ancora un po’ sull’analogia tra i sistemi giuridici primiti¬vi e le norme che regolano il traffico. A questo punto, forse il lettore perdonerà un lavoro di fantasia un po’ sbrigliato. Cominciamo con l’immaginare che un abitante della terra sia intervistato da un visitatore extraterrestre. Nella sua dimora spaziale, questo visitatore esercita una professione che chiameremo antropologia del diritto. Nell’occuparsi del suo lavoro, il visitatore venuto dello spazio è stato attirato dalle leggi che regolano il traffico sulla terra, e che costituiscono qualcosa di assolutamente familiare a lui, perché sul suo pianeta il mo¬vimento di cose e di esseri viventi è assicurato automaticamente da un centro di calcolo. Il visitatore extraterrestre comincia col chiedere quale norma si applica quando due veicoli si avvicinano l’un l’altro da opposte direzioni. La risposta è che ciascun automobilista tiene la destra. Il visitatore venuto dallo spa¬zio chiede: «Perché la destra, e non la sinistra?». L’abitante della terra replica che non esiste un particolare motivo per giustificare questa o quella norma e che, in alcune culture che conoscono il traffico automobilistico, di regola si tiene la sinistra. (A que¬sto punto, l’antropologo annota sul suo taccuino che gli abitanti della terra sembrano stranamente indifferenti ai principi fondamentali del loro sistema giuridico, e che basta loro seguire delle norme in quanto si è detto che sono le norme giuste da seguire).

Riprende l’intervista, e l’antropologo chiede: «Quale norma si applica quando si sorpassa un altro veicolo? Secondo me, sarebbe la stessa, cioè che si tiene la destra; questo renderebbe la legge semplice e comprensibile». Con sorpresa del visitatore extraterrestre, l’abitante della terra ribatte che, in questo caso, si sorpassa a sinistra. Perché mai questa anomalia? L’abitante della terra risponde asserendo che non è af¬fatto un’anomalia, ma un logico corollario della norma che pre¬scrive di tenere la destra al sopraggiungere di un veicolo. A questo punto, l’antropologo comin¬cia a perdere la pazienza, e chiede all’abitante della terra di dargli una ragione facilmente comprensibile del perché la norma che obbliga a sorpassare a sinistra sia compatibile con la norma che obbliga a tenere la destra al sopraggiungere di un veicolo. Chi di noi avverte di poter difficilmente dare una risposta solle¬cita a questa domanda può consolarsi con l’osservare che questa nostra incapacità ci serve a capire le difficoltà che i pri¬mitivi incontrano talvolta nello spiegare agli stranieri la logica interna dei loro sistemi giuridici, con particolare riguar¬do ai complessi sistemi di classificazione della parentela.
Qualche riflessione sui problemi della regolazione del traffico può tornare utile anche ad aiutarci a comprendere l’influenza della trasformazione sociale – urbanizzazione ed industrializzazione, per esempio – su popoli abituati a regolare la propria vita in base al diritto consuetudinario. Come ogni esperto automobilista sa, la semplicità della vecchia espressione «circola tenendo la destra, e sorpassa a sinistra» ha subi¬to modifiche sostanziali nell’adattamento alle condizioni delle moderne autostrade. Questi cambiamenti si riflettono in artico¬li del tutto trascurati del codice stradale. Ad esempio, sorpassare a destra può essere lecito quando si guida in un’autostrada a più corsie, in strade urbane a senso unico, o quando chi guida da¬vanti segnala una svolta a sinistra. Ma queste qualificazioni in¬troducono un sacco di incertezze. È lecito sorpassare a destra quando si guida su una larghissima autostrada a più corsie, che non sia divisa in due carreggiate ad unico senso di marcia? Ancora, chi guida davanti segnala la svolta a sinistra, si parte per sorpassarlo a destra, poi si scopre (prima che l’altro se ne accorga) che non è possibile svoltare a sinistra. Ovvero, mentre si guida su di una strada a senso unico, ci si sta per avvalere del diritto di sorpassare a destra, quando all’improvviso ci si accorge che la strada sta per diventare a doppio senso di circolazione. L’automobilista americano che affronta queste compli¬cazioni può capire l’esitazione dell’uomo di una tribù africana, che si sforza scrupolosamente di vivere in città secondo un sistema di norme, in campagna secondo un altro, e talora in¬contra qualche difficoltà a tenere separati i due sistemi.

 

2. I fondamenti interazionali della «contract law»

La breve esposizione della contract law presentata qui di seguito è stata inserita in questo contesto innanzitutto per la luce che essa può gettare sul diritto consuetudinario che, come si dice frequentemente e a proposito, prevede un elemento di consensualità. Per questo comune aspetto, contract law e diritto consuetudinario sono, per la verità, cugini stretti, e l’analisi del primo servirà a comprendere il secondo. Nell’analisi che svolgerò, avrò modo di rivedere, in una pro¬spettiva un po’ diversa, alcuni dei problemi già affrontati, in particolare il problema di sapere come determinare il momento in cui si può a ragione sostenere che schemi di intera¬zione abbiano dato luogo ad un obbligo duraturo.

Per restare all’obiettivo generale appena indicato, ci occuperemo ora del contratto come fonte di un sistema sociale, come uno dei mezzi idonei a fondare «stabili aspetta-tive interazionali». Pertanto, l’espressione contract law, cosi come è stato indicato nel titolo di questo paragrafo, riguarda innanzitutto non il diritto dei o circa i contratti, ma la «legge» che un contratto di per sé fa nascere. Questo impiego della parola legge ovviamente costituisce un notevole allontanamento dalle convenzioni seguite in materia.

La nostra resistenza a ricondurre la parola legge all’obbligo creato da un contratto è comunque, per molti versi, un fatto anomalo. Nel far rispettare i contratti, i tribunali mo-strano di derivare i legittimi diritti e doveri delle parti in causa dai termini del loro accordo, come se fosse applicata una legge. Almeno in certi contesti, i Romani non esitavano ad identificare con la parola lex le condizioni contenute nei contratti, e invero il termine latino sembra trarre origine da un contesto contrattuale. Oggi, gli esperti di diritto internaziona¬le indicano nei trattati la prima fonte di questo diritto. Per quanto il termine diritto consuetudinario sia stato considera¬to da alcuni teorici del diritto come un abuso linguistico, attualmente la maggior parte degli autori sembra essersi liberata, al riguardo, da qualunque scrupolo; l’accettazione del diritto consuetudinario e il rispetto del diritto contrattuale sono, in via assoluta, le cose più importanti poiché, se ciò che è assimilato al diritto è come un esplicito processo di sviluppo legislativo, il contratto diventa molto meno ricettivo di quel modello rispetto ai processi taciti attraverso i quali il diritto consuetudinario si forma. Infine, a riprova del fatto che i giuristi non rifiutano l’espressione legge del contratto perché ritenuta in conflitto con qualsiasi esigenza di logica giuridica, ricordo la facilità con cui essi condividono l’idea racchiusa nell’espressione, purché convenientemente parafrasata. Pertanto, dubito che qualche giurista si trovi in profondo imbarazzo (sebbene possa essere un po’ interessato) di fronte alla formulazione contenuta nell’articolo 1134 del Codice civile francese, per cui un contratto «ha forza di legge» tra le parti (les conventions legalement formés tiennent lieu de loi à ceux qui les ont faites).

Se ci si consente di pensare la contract law come la «legge» che le parti stesse pongono in essere col loro accordo, il passaggio dal diritto consuetudinario alla contract law diventa facilissimo. La difficoltà consiste quindi non nel rubricare le due modalità di espressione del diritto, ma nel sa¬pere come tracciare una netta linea di demarcazione. Evidentemente, direi (col linguaggio qui usato) che, in un caso, le aspet¬tative legate all’interazione sono create dalle parole, nell’altro, dalle azioni.
Si tratta, però, di una visione troppo semplicistica della questione. Quando sono usate, le parole devono esse¬re interpretate. Quando il contratto ricade in un’area generale di rapporti caratterizzati da una ripetizione, esiste un sistema di pratica standard alla luce del quale le ambiguità verbali vengono superate. Qui, infatti, le regolarità interazionali che esistono al di fuori del contratto sono rese per iscritto nel caso dell’interpretazione. In genere, nel diritto commerciale, è difficile saper dire se, entrando in un particolare ambito di consuetudini, le parti si siano adeguate ad un sistema retto dal diritto consuetudinario o saper dire se, con un taci¬to accordo, esse abbiano inserito una pratica standard nelle condizioni del contratto.

Il significato di un contratto non può essere determinato soltanto dall’area di consuetudini in cui il contrat¬to matura, ma dalle interazioni che fra le parti stesse si svi-luppano sin dall’entrata in funzione del loro accordo. Se l’adempimento di un contratto ha luogo durante un certo periodo di tempo, le parti dimostreranno spesso, col loro comportamento, ciò che esse a volte denominano «interpretazione pra¬tica del loro accordo»; questa interpretazione, fornita sulla base degli atti, può influenzare il significato che si suole attribuire alle parole del contratto stesso. Se la discrepanza fra atti compiuti dalle parti e parole dell’accordo da esso raggiunto diventa troppo grande per consentire ai tribunali di formulare un’interpretazione pratica, questi possono ritenere che il contratto sia stato tacitamente modificato o ad¬dirittura revocato, se si tiene conto del modo in cui le parti si sono comportate l’una verso l’altra dall’entrata in vigore dell’accordo.

In generale si può dire che, nell’effettiva esecu¬zione di un complesso accordo amichevole, il contratto scritto spesso costituisce la cornice che racchiude un sistema di relazioni, piuttosto che una precisa definizione di tale sistema. Per questa definizione si dovrebbe guardare ad una sorta di diritto consuetudinario a due, implicito nelle azioni delle parti, piuttosto che alle formule verbali del contratto; se questo è vero per i contratti che alla fine sono portati dinanzi ad un tribunale, ciò deve accadere molto più di frequente in situazioni in cui le parti fanno opera di interpretazione senza ricorrere al processo.

Se le parole di un contratto devono essere inter¬pretate nel loro contesto interazionale, o alla luce delle azioni ad esse sottese dalle parti, anche le azioni che il diritto consuetudinario pone in essere devono essere interpretate, talvolta, quasi come se fossero parole. Questo problema di interpretazione è il più importante problema del diritto consuetudinario e, insieme, il più trascurato; intrinsecamente arduo, esso è reso tale ancor più da teorie inadeguate circa la natura del diritto consuetudinario, come, per intenderci, quelle che lo interpretano come espressione della «forza dell’abitudine» che «predomina sin dall’inizio della storia dell’umanità».

Il problema centrale dell’«interpretazione» nel diritto consuetudinario è di sapere quando scorgere dentro un atto, o dentro una serie di atti ripetuti, un significato di obbligatorietà quale si può ricondurre ad una promessa esplicitata parole per parola. Non v’è chi non ammetta che una persona, una tribù o una nazione non contraggano un obbligo – morale o giuridico – per il semplice fatto che nelle loro azioni si pos¬sa riconoscere una serie di ripetizioni. Probabilmente nessuno nega, altresì, che le azioni capaci di dare origine al diritto consuetudinario devono essere tali da costituire interazioni, benché il discorso si complichi qualora si ricordi che, in ta¬lune circostanze, l’inazione può presentare le caratteristiche di azioni, come nel caso del tacito consenso o della tolleranza. Al di fuori di queste opinioni, c’è quasi un vuoto di idee.

In questo vuoto, per lo meno si tenta chiaramente di formulare una prova, che viene scoperta nella dottrina della opinio necessitatis. Secondo questo principio (che trova ancora qualche credito in diritto internazionale), il diritto consuetudinario si stacca da azioni caratterizzate da ripetizione quando e solo quando tali azioni sono motivate da un senso di obbligatorietà, in altri termini, quando ci si comporta come si deve non perché lo si voglia, o perché si agisca senza riflettere, ma perché si ritiene di dover agire in quel determinato modo. Si tratta di una spiegazione strettamente inadeguata che, in casi ben noti di diritto consuetudinario consolidato, diventa una tautologia; e non vale in situazioni in cui il di¬ritto consuetudinario è in via di formazione.

Forse si potrebbe suggerire che un modo migliore per affrontare il problema si può trovare nel principio formulato nel comma 90 della Nuova Esposizione dei Contratti dell’Istituto Americano di Diritto. Formulato per tenere il problema a portata di mano, tale principio correrebbe lungo le seguenti linee (sfortunatamente un po’ complicate): «Lì dove, con la sua azione rivolta a B, A (qualunque possa essere stata la sua reale intenzione) abbia ragionevolmente dato ad intendere a B di voler egli (A) comportarsi per l’avvenire, in situazioni analoghe, in una maniera analoga, e B abbia effettivamente adattato con ragionevolezza i suoi affari all’aspettativa per cui A si comporterà in futuro proprio se¬condo tale aspettativa, allora A è obbligato ad applicare lo sche¬ma fissato dalle sue azioni passate nei confronti di B. Questo crea in A un obbligo verso B». Se dunque lo schema di interazione applicato da A e B si estende alla comunità di appartenenza, viene a stabilirsi una norma di diritto consuetudinario generale. Questa norma, com’è ovvio, diventerà parte di un più ampio sistema, che implica una complessa rete di aspettative reciproche. L’assimilazione della nuova norma ad un più ampio sistema, naturalmente, è resa più facile dal fatto che le interazioni che hanno dato origine a quella norma si sono determinate nei limiti fissati da quel sistema, ed hanno mutuato parzialmente il loro significato per le parti dal più ampio contesto nel quale si sono verificate.

Il noto fenomeno del comunicarsi del diritto consuetudinario da un contesto sociale ad un altro richiede un’ulteriore distinzione fra diritto consuetudinario e contract law, che ora merita di essere criticamente esaminata. Si direbbe che un contratto obblighi solo le parti, mentre il diritto consuetudinario di solito fa valere le sue norme in un contesto sociale ampio e talora non chiaramente definito. Prima di tutto va osservato che, mentre rappresenta un fatto comune, la diffusione del diritto consuetudinario non è affatto inevitabile. Un diritto che si può chiamare diritto consuetudinario a due può esiste¬re ed esiste; è ancora soltanto un pregiudizio linguistico quello che ci fa esitare ad adoperare la parola diritto.

Lì dove il diritto consuetudinario di fatto si diffonde, non ci si deve ingannare circa il processo attraverso il quale questa estensione ha luogo. Lo si è talvolta con¬siderato alla stregua dell’espressione disarticolata di una volontà di gruppo; i membri del gruppo B si accorgono che le nor¬me che governano il gruppo A presentano un diritto adatto a loro; pertanto essi fanno proprie quelle norme con un atto di tacita ado¬zione collettiva. Una illustrazione di questo tipo fa astrazione dai processi di interazione che sono alla base del diritto consuetudinario, ed ignora la loro universale caratteristica comunicazionale. Si prenda, ad esempio, dall’ambito delle relazioni internazionali, la norma che impone di dare il benvenuto ai capi di Stato in visita con ventuno colpi di cannone. Sembra che, grazie ad un processo di imitazione, questa norma sia attualmente abbastanza diffusa tra le varie nazioni. Si può dire, superficialmente, che l’interesse rivestito da questa norma sta nel modo appro¬priato in cui il risuonare del colpo di cannone segnala l’ar¬rivo di un visitatore illustre. Ma perché ventuno colpi invece di sedici o di venticinque? Sembra che, una volta, lo schema del numero ventuno fosse consueto, ed il distaccarsene poteva dar luogo ad equivoci; chi assisteva allo spettacolo delle cannonate passava il tempo non a divertirsi per il potente rombo del can¬none ma a contare i colpi, attribuendo ogni sorta di significati – deliberati e non – a qualsiasi alterazione dell’ultima succes¬sione di colpi. In generale si può dire che, lì dove A e B hanno familiarizzato con una norma stabilitasi tra C e D, è pro¬babile che A adotti questo schema nei riguardi di B, non sempli¬cemente o necessariamente perché lo schema in questione sia particolarmente adatto alla loro situazione, ma perché A sa che B intenderà il significato del suo comportamento e saprà come rispondere.

Nel caso dell’enunciazione per cui un contratto obbliga solo le parti che lo hanno concluso, che attivamente e consapevolmente approvano le sue condizioni, un rapido sguardo alla moderna pratica contrattuale basta a mostrare quanto que¬sta enunciazione possa diventare lontana dalla realtà e pura¬mente formale. Solo una minuscola parte dei «contratti» stipu¬lati oggi sono realmente oggetto di negoziazione o rappresen¬tano qualcosa di simile ad una esplicita composizione dei ri¬spettivi interessi delle parti. Persino i contratti degli avvocati, in teoria adattati in modo particolare alla situa¬zione delle parti, possono essere pieni di clausole tradizionali o standard, prese in prestito da altri contratti e dalla pra¬tica generale. Queste clausole possono essere introdotte per innumerevoli motivi – perché l’avvocato ha fretta di concludere, o perché, in base ai precedenti, sa come i tribunali interpretano le clausole, e ancora perché gli interessi in gioco non ba-stano a giustificare l’onorario, che sarebbe adeguato ad un frasario particolarmente raffinato.

Ma la realtà della pratica contrattuale è molto più lontana dall’immagine di un «incontro di volontà» di quanto sia suggerito da un semplice riferimento a clausole standard. Difatti, la stragrande maggioranza dei contratti è prestampata, preparata da una delle parti per la realizzazione dei suoi interessi ed imposta all’altra parte sulla base del «pren¬dere o lasciare». Negli ultimi anni, i tribunali americani, occupandosi di questi contratti, hanno esercitato sempre più il di¬ritto di annullare clausole ritenute vessatorie o grossolana¬mente inique. Questa prassi contrasta con quella diffusa nella patria della common law, dove i tribunali sono molto più con¬servatori in materia, propensi come sono, in generale, a far rispettare il contratto «per come è scritto», ossia come se fosse stampato su lastra. Tutto questo fa un po’ sorridere perché, dall’epoca di lord Coke, i tribunali hanno liberamente rivendicato il diritto di rifiutare l’applicazione del diritto consuetudinario, ritenuto irrazionale e contrario al comune senso dell’equità. Se, nella società moderna, si dovesse cercare l’equiva¬lente più vicino al «ripugnante» diritto consuetudinario dell’epoca di Coke, lo si potrebbe certamente trovare nel contratto standardizzato prestampato, redatto da una delle parti e firmato, senza essere letto, dall’altra.
Resta da discutere un’ulteriore distinzione fra contract law e diritto consuetudinario. Questa distinzione sta nell’idea che un contratto comincia ad essere efficace subito, oppure dal momento in cui le parti decidono che lo diventi, mentre la consuetudine diventa legge solo attraverso una pratica osservata nel tempo. È, questa, una visione troppo semplicistica. L’idea che il diritto consuetudinario cominci ed avere efficacia gra-dualmente, e dopo un lungo periodo di tempo, è dovuta in parte ad errate implicazioni lette nella parola consuetudinario, ed in parte al fatto che per davvero occorre normalmente del tempo perché cristallizzino le reciproche aspettative interazionali. Ma esistono circostanze in cui il diritto consuetudinario (ovvero un fenomeno per descrivere il quale non abbiamo alcun altro nome) può sorgere quasi dalla sera alla mattina. Come ha osservato un’autorità nel campo del diritto internazionale, «una norma di diritto internazionale consuetudinario, fondata sulla prassi degli Stati, può imporsi molto rapidamente, addirittura quasi all’improvviso, se si sono verificate circostanze nuove, che ri¬chiedono perentoriamente una regolamentazione, benché il fat¬tore-tempo non sia mai del tutto irrilevante» . (L’affermazione, che a volte s’incontra, per cui, per essere riconosciuta come legge, una consuetudine deve esistere «da tempo immemorabile» è indirizzata ad una questione molto particolare: in quali casi la consuetudine dovrebbe essere considerata alla stregua di disposizioni inderogabili della norma generale? Evidentemente, questa domanda è abbastanza diversa dal chiedersi in quali casi la consuetudine regolerebbe una questione in precedenza non regolata affatto dal diritto. La dot¬trina della opinio necessitatis probabilmente trova origine dal medesimo contesto, perché forse ha senso dire che non si sarebbe nemmeno pensato che un uomo violasse foss’anche una sola legge lì dove agisse nella convinzione che una legge consuetu¬dinaria speciale o locale lo obbligasse a comportarsi in quel modo).
Così come per l’idea che un contratto crei imme¬diatamente un obbligo, e prima che venga compiuto qualunque atto, siamo di fronte ad una nuova, fallace semplificazione, specialmente quando la questione sia osservata da un punto di vista storico. Evidentemente, è pericoloso tentare generalizzazioni del corso storico dello sviluppo giuridico in tutte le società. Tuttavia, si può affermare, con relativa sicurezza, che l’osservanza dei contratti sul piano giuridico si impone per la prima volta in due contesti. Il primo contesto è dato dalla promessa rituale, che è la promessa accompagnata da un giuramento tradizionale o dal¬la pronuncia di una prescritta formula verbale. In tal caso, per la verità, il contratto obbliga immediatamente e senza bisogno di essere provato da una particolare azione. Ma il vero e proprio convenzionalismo di questo procedimento di «obbligazione», o il discredito suscitato dall’insistere su di esso, senza dubbio hanno sempre impedito di adoperarlo, come avviene nel caso dei suoi equivalenti moderni.

La seconda manifestazione giuridica originaria del principio contrattuale riguarda la situazione dello scam¬bio diseguale. A consegna del pesce a B in cambio della promessa da parte di B di un cesto di verdura. A prende il pesce ma rifiuta di consegnare la verdura. È evidente che, in questa situazione, si poté accedere ad una riparazione per via giuridica in una lontana epoca storica. Va comunque rilevato che l’obbligo fatto rispettare si fondava non semplicemente su parole, ma in primo luogo sull’azione (e sull’inazione) che ad esse veniva fatta seguire.
Verosimilmente, in tutti i sistemi giuridici l’applicazione del contratto bilaterale da eseguire coincide con un’evoluzione abbastanza tardiva. È questa la situa¬zione in cui A e B si accordano, come già detto, sullo scambio di pesce contro verdura; quando A comincia a consegnare il pesce, B rifiuta la sua offerta e disconosce l’accordo. Sembra che il riconoscimento, in capo ad A, di una pretesa giuridica in tale situazione si sia prodotto contemporaneamente allo sviluppo di qualcosa di simile ad un’economia di mercato. Ma è probabile che, in un contesto del genere, si abbia un’azione, almeno nel senso di tolleranza (astensione), al verificarsi della registra¬zione del contratto. Nel cercare un’opportunità per scambiare il pesce con la verdura, A rinuncia, concludendo il contratto con B, all’opportunità di entrare in un commercio analogo con C, D o E. così, ancora una volta, l’accordo diventa esecutorio perché le sue parole sono state sottolineate, per così dire, dalla fiducia ripostavi, nel caso in esame, dall’aver tralasciato altre opportunità una volta concluso il contratto in questione.
Infine, va ricordato che la promessa di un dono libero da riserva o obbligo conserva a tutt’oggi uno status giuridico alquanto incerto. Possono darsi ingombranti forme giuridiche perché ta¬li promesse diventino esecutorie, ed i tribunali hanno talora mostrato notevole ingenuità nel rilevare impliciti elementi di scambio in ciò che si presenta, all’apparenza, come espres¬sione di pura generosità. Negli Stati Uniti si è imposta una dottrina (ora note in generale come teoria del comma 90) in virtù della quale la promessa può diventare esecutoria quando il promissario abbia seriamente e ragionevolmente preso in considerazione il suo previsto adempimento nel regolare i propri affari. Come in precedenza ho suggerito, questo principio non è lontano dallo stesso principio che sta alla base del diritto consuetudinario in generale.

 

3. I fondamenti interazionali del diritto formalmente emanato

Già all’inizio di questo capitolo ho formulato l’intenzione di sostenere una tesi più radicale di una mera in¬sistenza sul fatto che il diritto consuetudinario è ancor og¬gi di notevole importanza: vale a dire che non si può capire il diritto comune (ossia il diritto pubblicamente dichiarato o formalmente emanato) se prima non si riesce a capire che cosa è quello che viene chiamato diritto consuetudinario. Il tempo ha cominciato a dare ragione al tentativo qui operato.

Nelle pagine precedenti ho trattato sia il diritto con¬suetudinario sia la contract law come fenomeni interazionali. Li ho considerati come derivati dall’interazione e come idonei a regolare e a favorire l’interazione. Si può dire lo stesso del diritto formalmente emanato quale, ad esempio, è rappresentato dal diritto legislativo? Si può considerare il diritto formalmente emanato come dipendente dallo sviluppo di «stabili aspettative interazionali» fra legislatore e cittadino? Il diritto formalmente emanato realizza la finalità di regolare e di favorire le interazioni dei cittadini fra di loro?

Non si può negare la presenza di idee come queste nella letteratura. Si può dire che occorre scoprirne le tracce con cura. Analogamente la finalità generale del diritto formalmente emanato, la formula standard – sia in giurisprudenza, sia in so¬ciologia – si riferisce al risultato che il diritto permette di ottenere come strumento di controllo sociale. A volte, insieme con questa concezione si trova l’idea che il bisogno del diritto è dovuto per intero alla natura umana moralmente imperfetta; se si potessero ritenere gli uomini moralmente affidabili, non ci sarebbe bisogno del diritto. Per come è concepito, il diritto viene posto in essere per un esercizio di autorità e non dall’interazione di aspettative reciproche. La legge non invita il cittadino ad interagire; la legge agisce al di so¬pra di lui.

Esaminiamo la questione se il diritto formalmen¬te emanato sia idoneo a regolare e a favorire l’interazione umana, domandandoci in qual modo questa concezione si riferisca ad alcuni modi effettivi di espressione del diritto. In primo luogo, consideriamo il diritto che è rubricato sotto i seguenti titoli: contratto, rappresentanza, matrimonio e divorzio, proprietà (sia privata sia pubblica) e le norme di diritto processuale. Tutte queste espressioni fondamentali del diritto sono innanzitutto sufficienti a stabilire i termini in cui gli uomini si mettono in rapporto fra di loro; esse favoriscono l’interazione umana allo stesso modo in cui il traffico è reso scorrevole dalla disposizione delle strade e dalla installazione di pali segnaletici. Dire che non ci sarebbe bisogno di queste forme giuridiche se gli uomini fossero dispo¬sti ad agire moralmente è come dire che gli uomini potrebbero fare a meno del linguaggio se fossero abbastanza intelligenti per comunicare senza di esso. Il fatto che le forme giuridiche sopra elencate contengano limitazioni come pure autorizzazioni non toglie nulla, in alcun senso, al loro potere di favorire l’interazione; ciò non è più paradossale dell’affermare che il traffico autostradale può essere facilitato da segnali che in¬dicano «Divieto di svolta a sinistra» oppure «Stop, dare la pre¬cedenza».

Tuttavia, è difficile che una teoria del diritto come interazione possa trovare accoglienza semplicemente perché sembra adatta a certe espressioni del diritto, quali i contratti, la proprietà, la rappresentanza, i diritti di famiglia. Ad esempio, il diritto penale offre un campo di prova completamente diverso, perché in questo caso una concezione fondata sull’inte¬razione trova un contesto molto meno congeniale alle sue premesse. Sarebbe ridicolo, per esempio, interpretare la norma che punisce l’omicidio come se fosse diretta a favorire l’interazione allontanando dai conflitti fra gli uomini la paura che possano uccidersi a vicenda. Verosimilmente, l’omicidio è proi¬bito perché è ingiusto, non perché la minaccia di esso possa ridurre la potenziale ricchezza delle relazioni fra gli uomini.

In una prospettiva storica, tuttavia, la questione assume un carattere molto diverso. Gli studiosi della società primitiva hanno colto la prima vera comparsa del concetto di diritto come tele nelle limitazioni poste all’ostilità di sangue. Un membro della famiglia A uccide un membro della famiglia B. In una società primitiva, la naturale risposta a questo atto consiste, per i membri della famiglia B, nel cercare di vendicarsi con¬tro la famiglia A. Se a questa vendetta non sono fissati limiti, può scoppiare una guerra mortale fra le due famiglie. Di conseguenza, si è diffusa, in molte società primitive, una norma per cui, nel caso in esame, la vendetta di sangue da parte della fa¬miglia B deve essere limitata ad una sola uccisione, benché si ritenga che la famiglia offesa abbia titolo, come se fosse di diritto, a questa sorta di controuccisione. Uno sviluppo normativo più recente proibirà di solito la vendetta di sangue e richiederà invece un risarcimento sotto forma di «moneta di sangue» da pagare per un omicidio. In tal caso, evidentemente, la legge che punisce l’omicidio serve a regolare l’interazione e, magari, a favorire l’interazione ad un livello più vantaggioso, per tutti gli interessati, della catena di omicidi e contro-omicidi.

Al giorno d’oggi, la legge che punisce l’omicidio sembra, a prima vista, essersi del tutto staccata dalle sue origini interazionali; è come se questa legge proiettasse il suo comando, «tu non ucciderai», sui membri della società in generale ed a prescindere dalle loro interrelazioni. Ma di fatto è accaduto che fenomeni di interazione che una volta erano centrali sono stati spinti, dallo sviluppo giuridico e morale, ai margini, dove resta¬no vivi come sempre. L’esempio più chiaro è dato dal diritto di autodifesa; si è ancora legittimati ad uccidere un aggres¬sore se ciò è necessario a salvare la propria vita. Ma, in questo contesto, come si interpreterà «necessario»? Fino a che pun¬to ci si può aspettare che un uomo rischi la propria vita per evitare di toglierla ad un altro? Inoltre, esiste il problema di diminuire la gravità del reato di omicidio «a sangue caldo», come nel caso di chi sorprenda un altro a letto con sua moglie. Infine, non vanno dimenticati i problemi riguardanti l’omicidio commesso per evitare un delitto o per fermare un delinquente in fuga. In tutti questi casi molto dibattuti, la norma che punisce l’omicidio può essere modificata, o la pena può essere ridotta, in riferimento alla domanda che cosa ci si può ragionevolmente aspettare da un uomo che si trovi in queste situazioni interazionali?
Credo sia evidente che qui non sto sostenendo la tesi che il diritto, per il modo in cui effettivamente è formulato e reso operante, realizzi sempre ed esclusivamente la finalità di rego¬lare e favorire l’interazione fra gli uomini. Di sicuro, non si possono senza difficoltà far entrare a forza in questo schema ideale alcuni modi di essere del diritto. Forse il modo di essere più significativo risiede nell’ambito del diritto penale riguardan¬te ciò che è noto col nome di «delitti senza vittime». Vi rien¬trano le leggi che vietano la vendita di bevande alcooliche e i metodi anticoncezionali, l’uso di pratiche omosessuali, la prostituzione, e il gioco d’azzardo. Premesso che le per¬sone implicate siano sane di mente, e che non vi sia inganno, – ad esempio che la ruota della roulette non sia stata manomessa –, queste leggi, ben lungi dal favorire l’interazione, hanno la finalità di impedire le forme di interazione desiderate da chi vi partecipa e non destinate direttamente, quanto meno, a ledere altri.
Ritengo non trattarsi di un caso se in questo campo – proprio quello in cui la limitazione introdotta dal diritto si mostra, nella maniera più inequivocabile, come uno «strumento di controllo sociale» – si sono dovunque aperte, nel diritto, le più grosse lacune. Si tratta di un campo caratterizzato dalla corruzione, da un’osservanza selettiva e sporadica delle leggi, dal ricatto, dall’esplicita tolleranza dell’illegalità. Non c’è bisogno di sostenere, in questa sede, che tale contesto giu¬ridico richieda un riesame critico. Il problema è di sapere con quale criterio-guida procedere a tale riesame.
Comincerei col chiedermi perché il diritto venga meno così sensibilmente ai suoi compiti in questo ambito dei delitti senza vittime. La risposta consueta è che non si può imporre la moralità per legge. Ma non è così. Mantenere le promesse è probabilmente un obbligo morale, ma il diritto può costringere e costringe efficacemente gli uomi¬ni a mantenere le promesse. Di più, la coazione giuridica a man¬tenere le promesse, lungi dall’indebolire il senso morale dell’obbligo, serve a rafforzarlo. Poniamo, ad esempio, che i soci di un’impresa commerciale stiano discutendo intorno alla necessità di dare esecuzione ad un contratto sfavorevole. Coloro che ritengano di essere moralmente obbligati ad eseguirlo sono in grado di ricordare ai soci che si sentono meno obbligati che, se si rompe il contratto, saranno trascinati in giudizio e subiranno, non solo il costo, ma anche l’infamia di una sentenza sfavorevole. Esistono dunque aree di interessi umani in cui non funziona il cliché per cui il diritto non può obbligare gli uomini a com¬portarsi secondo moralità. Ritengo si tratti proprio delle aree di interesse in cui le sanzioni giuridiche rafforzano le aspet¬tative interazionali e ne favoriscono il rispetto.
A proposito dei sistemi primitivi, talora si pren¬de in considerazione una distinzione fra atti illeciti e peccati . Un atto illecito è un atto che infligge un danno evi¬dente alla struttura dei rapporti sociali; si pensa invece che un peccato arrechi un danno fisico e morale più diffuso, provocando una sorta di contaminazione. In modo particolare, nelle società primitive, atti illeciti e peccati sono trattati in base a standard e procedimenti differenti, procedure regolari formalizzate secondo le leggi, che si è soliti mitigare nel caso dei peccati. Pur non volendo raccomandare di far ricorso alla stregoneria o all’ostracismo come modo di trattare i peccati moderni, ritengo che si potrebbe prendere utilmente a prestito dalla società primitiva un po’ del buon senso mostrato nella distinzione fon¬damentale fra atti illeciti e peccati. Si potrebbe forse integrare quel briciolo di buon senso con l’intuizione che, per il diritto, il modo migliore per occuparsi di almeno taluni dei mo¬derni peccati è di non occuparsene.

Nella presente analisi dei fondamenti interazionali del diritto formalmente emanato, mi sono finora interessato prin¬cipalmente alla questione di sapere se si possa considerare il diritto formalmente emanato come capace di regolare e favorire l’interazione fra gli uomini. È tempo ormai di affrontare quella che sembra la questione di fondo: l’esistenza dello stesso diritto formalmente emanato dipende dallo sviluppo di «stabili aspettative interazionali» fra legislatore e cittadino?

In caso di risposta positiva, che è quella da me proposta, ci si contrappone ad un’ipotesi oggi generalmente con¬divisa in giurisprudenza ed in sociologia, vale a dire all’ipotesi per cui la caratteristica fondamentale del diritto sta semplicemente nell’essere un esercizio di autorità. Ma, dobbiamo chiederci, autorità per fare cosa? Molte persone godono di autorità senza essere investite del potere di legiferare. Sia un colonnello dell’esercito, sia il capo di un ufficio stampa go¬vernativo hanno autorità nel campo che si ritiene spetti loro di pieno diritto, esercitando un controllo su coloro che sono affidati alla loro direzione. Tuttavia, essi non sono considerati legislatori. Allora, qual è la distinzione tra le funzioni espletate da chi ci permettiamo di chiamare capo e quelle espletate da un legislatore? È evidente che queste due figure rappresentano modelli differenti di controllo sociale. Ma come definire questa differenza?

Si rispondeva in passato – ed è una risposta scom¬parsa dai dibattitti odierni – col sostenere che la caratteri¬stica fondamentale del diritto sta nella sua generalità. Il di¬ritto esprime norme generali. La direzione manageriale può procedere mediante comandi particolari: «Fa’ questo!», «A, cambia di posto con B!», oppure «Domani a rapporto alle otto e trenta». Il problema, al riguardo, è che la direzione manageriale spesso si attua anche mediante norme generali o regole permanenti di condotte. Un manager dotato di prudenza e di capacità di usare un linguaggio appropriato, tanto da non aver mai avuto modo di emettere null’altro che ordini generali, diventa per questa caratteristica un legislatore?
Per cogliere la distinzione fra la funzione di ca¬po e quella di legislatore dobbiamo riesaminare la caratteri¬stica della generalità, e chiederci perché si sia ritenuto che il diritto debba assumere la forma di norme generali. L’unica risposta è relativamente semplice: il diritto non dice che cosa si dovrebbe fare per realizzare scopi precisi stabiliti dal legislatore; il diritto pone agli uomini delle linee di base entro le quali organizzare la vita in società. Una violazione di questi li¬miti può comportare gravi conseguenze per il cittadino – che per questo può essere impiccato –, ma la instaurazione di questi limiti non è un esercizio di direzione manageriale. Il diritto offre al cittadino una struttura all’interno della quale vivere, sebbene, di certo, si diano circostanze in cui tale strut¬tura può sembrare così spiacevolmente negligente oppure così perversamente costrittiva che l’uomo a cui si rivolge può rite¬nere preferibile una chiara direzione manageriale.

Se si accetta l’idea per cui la finalità centrale del diritto è di offrire linee-guida all’interazione fra gli uomini, allora si chiarisce la ragione per la quale l’esistenza del diritto formalmente emanato come sistema effettivamente funzionante dipende dall’instaurarsi di stabili aspettative interazionali fra legislatore e cittadino. Da un lato, il legislatore deve essere capace di aspettarsi che, nel complesso, i cittadini approveranno come diritto, ed in genere rispetteranno, il sistema di norme che il legislatore avrà promulgato. D’altro lato, il sog¬getto di diritto deve essere in condizione di prevedere che il governo si atterrà alle norme da esso stesso poste in essere quando si trova e giudicare gli atti del cittadino; come, per esempio, nel decidere se questi ha commesso un reato oppure se rivendica una proprietà in base ad un titolo valido. Una grossa lacuna nella realizzazione di ciascuna di queste aspettative – del governo verso il cittadino e viceversa – può avere l’effetto che il codice redatto con la maggior attenzione possibile non rie¬sca a diventare un efficace sistema giuridico.

È un fatto storicamente curioso che, quantunque i libri più vecchi siano pieni di stadi sul principio per cui il diritto comporta norme generali, non esista quasi nessun rico-noscimento esplicito che l’emanazione di regole generali diven¬ta insignificante se il governo per primo si considera libero di ignorarle ogniqualvolta gli convenga. È qui descritto, forse, un fenomeno che già ha costituito oggetto di discussione, per cui le aspettative che più saldamente guidano le nostre azioni verso altri sono spesso pro¬prio quelle che non affiorano alla coscienza. Tali aspettative sono come le regole grammaticali che di fatto osserviamo senza aver modo di articolarle, finché non siano state violate in maniera lampante. Forse, al proposito, si produce anche una confusione, derivante dal fatto che ci si rende conto come di solito un legislatore possa cambiare una delle leggi da lui emanate semplicemente abrogandola e procurando che ci sia una legge piuttosto diversa per la regolamentazione dei fatti successivi alla sua entrata in vigore. Sembra strano che l’organo dota¬to del potere di riscrivere l’intero codice legislativo sia te¬nuto al rispetto della sua legge più trascurabile nel giudi¬care fatti che si fossero verificati sotto la sua vigenza. È questo, per usare le parole di Simmel, il paradosso della «interazione entro una sottomissione apparentemente a senso unico e passiva» . Tuttavia, al di fuori di tale paradosso, il con¬cetto di diritto formalmente emanato diventerebbe privo di si¬gnificato.
Quali sono le implicazioni pratiche del dupli¬ce requisito che il diritto sia formulato secondo norme generali e che il governo si attenga alle norme da esso emanate nei rapporti col cittadino? In breve, si può rispondere che queste implicazioni sono tanto indefinibili e complesse da non poter essere adeguatamente studiate in questa sede. Di certo, qui non si intende affatto proporre che il comune cittadino vada in giro, codice alla mano, per accertare se il governo osservi le nor¬me da esso emanate. Normalmente, in complesso, il cittadino deve necessariamente fidarsi che il suo governo giochi lealmente col diritto. Ma, proprio perché questa fiducia svolge un ruolo così importante nel funzionamento di un sistema giuridico, una delusione verificatasi in un solo punto, oppure uno spregio della legalità meno evidente, ma persistente in un intero contesto giuridico, può minare i fondamenti morali di un sistema giuridico, sia per chi è alla base, sia per chi ne è al vertice.

Per quanto riguarda gli aspetti morali del problema, non si vuole affatto dire che la difesa della legalità non richieda intelligenza come pure buone intenzioni. Ad esempio, un organo legislativo approva una legge che autorizza la disloca¬zione di un parco nella città di Zenith. Questo atto legisla¬tivo vìola il principio per cui le leggi devono presentarsi sotto forma di generalità? Ci si può disimpegnare da questo proble¬ma col ricondurlo a niente più che ad un gioco di parole con la parola diritto, ma in altri casi, dal momento che il governo espleta normalmente funzioni sia manageriali ed amministrative sia legislative, il problema può diventare più imbarazzante. Ancora, immaginiamo la situazione assurda di un governo che possieda una sola legge nei codici: «Fa’ il bene ed evita il male!». In tal caso, la norma è generale in un modo che mina la le¬galità più sensibilmente di come una quantità imprecisata di leggi speciali possa fare. Questi esempi possono illustrare soltanto alcune delle complicazioni che sorgono nella effettiva applicazione del principio di legalità . Quando si tenga conto di queste complicazioni, il compito di fondare e di reggere un si¬stema giuridico sarà considerato come un’impresa di tipo mol¬to diverso da quello presentato quando si descriva riduttivamente tale compito come un esercizio di autorità finalizzato alla realizzazione del controllo sociale.

Nell’analisi che adesso si avvia alla conclusione, tre diversi modi di essere del diritto sono stati passati in rassegna: diritto consuetudinario, contract law e diritto formalmente emanato. Da questo elenco è assente un quarto modo di essere, vale a dire il diritto giurisdizionale esemplificato nella common law semplicemente come una espressione del diritto formalmente emanato, diversa dalla legislazione soltanto per la fonte, poiché la statute law è emanata da un organo legislativo, mentre una norma di common law è formulata da un tribunale. Questa opinione ignora le caratteristiche particolari esemplificate dalla common law, caratteristiche che un tempo – ben a ragione – la assimilavano ad un modo di essere del diritto consuetudinario. Perché la common law, grazie alla sua particolare attitudine a creare diritto caso per caso, affonda le sue radici nell’inte¬razione fra gli uomini più profondamente di quanto non faccia il diritto legislativo – per quanto sembri che, nel Paese dove ha avuto origine, la common law stia perdendo le caratteristiche che una volta la distinguevano, forse perché i giudici han¬no cominciato, ad un certo punto, a rendere le loro decisioni conformi al modello teorico-giuridico che si è attribuito alla common law per più di un secolo.

Se si reputa il diritto capace di realizzare la finalità di regolare e di favorire l’interazione fra gli uomini, evidentemente il produrre diritto comporta il rischio di non po¬ter cogliere in anticipo le varie situazioni di interazione che possono ricadere nell’ambito di una norma preformulata. Una legge che si riveli palesemente inadatta a situazioni di fatto, che più tardi diventano oggetto di un processo – situazioni evidentemente nascoste dal linguaggio usato nella legge, ma ovviamente male interpretate o non previste dal suo estensore –, una legge del genere di certo non merita un plauso particolare semplicemente perché è chiara in ciò che vuol dire e perché è proclamata anticipatamente. La common law, per il fatto di procedere caso per caso, ha il potere di modellare e rimodellare le sue prescrizioni a seconda delle configurazioni che la vita proietta nel processo. Quel che alla common law manca, in termini di chiara preformulazione, e forse più che compensato dalla sua capacità di riplasmare e di riformulare le sue norme alla luce delle situazioni che realmente si presentano in sede decisionale.
La common law risulta dunque un complesso amalgama di tipologie giuridiche, una mistura di diritto legislativo espli¬cito come di taciti accomodamenti propri del diritto consuetudinario, talora capace di esprimere le caratteristiche più apprezzabili di entrambi i sistemi e capace, ma raramente, di mostrarne le meno apprezzabili .

 

4. Interazioni tra diritto e contesto sociale

Implicita in tutto ciò che precede è l’idea che il diritto, e l’ambiente sociale in cui esso si colloca, stanno in rapporto di reciproca influenza; nessun determinato modo di essere del diritto influenzerà le forme di interazione dell’ambiente so¬ciale in cui esso si trovi, senza essere da queste a sua volta influenzato e strutturato. Ciò vuol dire che, per un determinato contesto sociale, un dato modo di essere del diritto è forse più adatto di un altro, e che il tentativo di applicare per forza un modo di essere del diritto ad un ambiente sociale ad esso refrattario può ottenere risultati controproducenti.
Tutto ciò impone di sapere come definire e come caratterizzare i vari tipi di contesto sociale. Al riguardo, la letteratura sociologica offre purtroppo un vocabolario particolarmente ampio di termini: Gemeinschaft e Gesellschaft; solidarietà organica e meccanica; spazio sociale; distanza so¬ciale; relazioni familiari, contrattuali ed obbligatorie; il continuum città-campagna; il gruppo primario; ed una folla di termini connessi l’uno all’altro, con cui si tenta di descrivere le varie trame, i modelli, e le densità mostrate dalla strut¬tura sociale .

Per gli scopi che qui ci propiniamo adopererò soltanto il concetto di spettro o gamma di relazioni, che vanno dall’intimità all’ostilità, con un punto fermo intermedio che può essere individuato nell’habitat di estranei in rappor¬ti di amicizia, tra i quali le aspettative interazionali restano in larga misura aperte e non formalizzate. Come per esemplificare la relazione d’intimità, prenderò in considerazione la fa¬miglia americana media, senza domestici fissi, con bambini piccoli, lavori domestici da assegnare a giornata, familiari in rap¬porti sufficientemente buoni tra loro. All’altro capo dello spet¬tro immagino ci siano non due individui tra loro nemici, ma due nazioni in rapporto di ostilità non sottoposte al controllo di un potere politico superiore in grado di comprimere la loro tendenza ad azioni apertamente ostili.

Nell’esaminare, in questa sede, i diversi modi di essere del diritto in rapporto ai vari contesti sociali, comincerò dal diritto contrattuale, espressione, questa, con cui indico, come il lettore ricorderà, il «diritto» stesso, non il diritto formalmente statuito dei o circa i contratti. La ragione per cui scegliere il diritto contrattuale come punto di parten¬za è che, in un certo senso, esso si trova a metà strada fra diritto consuetudinario e diritto formalmente emanato, presentando caratteristiche appartenenti ad entrambi. Da un lato, il diritto contrattuale somiglia al diritto consuetudinario perché le sue pre¬scrizioni non sono imposte alle parti da qualche autorità esterna: le parti producono da sé il loro diritto. D’altro lato, il diritto contrattuale somiglia alla legislazione per il fatto che comporta la creazione esplicita di norme espresse in formule verbali per la regolazione delle relazioni fra le parti. Se cominciamo dalle relazioni «di intimità», è evidente che il contratto è uno strumento che mal si adatta a regolare le relazioni familiari, che si tende ad interpretare in termini di affettività, col dire che le persone, unite da le¬gami affettivi difficilmente si metterebbero a negoziare, che qualunque tentativo fosse operato in questa direzione potrebbe alterare l’armonia domestica. Ma il problema presenta anche un aspetto che si può chiamare operativo; la distribuzione dei com¬piti in una famiglia è turbata da contingenze mutevoli e non suscettibili di essere preventivate: c’è chi si ammala, un ragazzo è indietro con i compiti, il papà deve partire per un viaggio, ecc. Nessuna prudenza contrattuale sarebbe in grado di reggere in anticipo il ritmo di tutti questi cambiamenti negli affari che riguardano la famiglia.

Sembra si possa supporre con una certa prudenza che non molte coppie sposate abbiano tentato di regolare i loro affari interni con qualcosa di simile ad un contratto esplicito. Nei pochi casi di cui si ha conoscenza, nei quali è stata chiesta l’esecuzione giudiziale di contratti del genere, le corti non ne hanno riconosciuto la rilevanza in termini giuridici. Una corte ha rilevato che «un’indagine giudiziaria su questioni di ta¬le natura, tra marito e moglie, avrebbe arrecato danni irreparabili» . Un’altra corte ha fatto osservare che, se le parti fossero capaci di stipulare un contratto idoneo ad obbligarlo per quel che riguarda la regolazione delle relazioni fra di loro, ciò «aprirebbe uno spazio illimitato alla controversia e al litigio e distruggerebbe il fattore di flessibilità richiesto ne¬gli adattamenti a nuove condizioni…» .

Se si passa a considerare l’altro estremo dello spet¬tro di relazioni, i contratti fra parti che si trovano in quel che ho denominato relazione sociale di ostilità, una regola¬zione contrattuale, ancora una volta, viene ad essere non soltanto difficile da trattare, ma spesso è anche un mezzo inidoneo al raggiungimento del fine perseguito. Per spiegare questo si può semplicemente dire che le parti in stato di ostilità non si fidano l’una dell’altra, e la fiducia reciproca e essenziale sia alle trattative sia alla esecuzione di un contratto. Ma anche questo problema presenta un aspetto operativo. Le trattative che precedono un contratto, qualunque sia la sua complessità, implicheranno una difficoltosa composizione di interessi divergenti. Ciò significa, alternativamente, che, nel caso della negoziazione – a seconda che faccia o rifiuti qualche concessione –, ognuna delle parti è costretta a dare qualche informazione sul¬lo stato dei suoi interessi. Il rilascio di queste informazioni forse danneggia la parte, soprattutto se le trattative falliscono. Poniamo, dunque, che, nelle trattative che riguardano una riduzio¬ne degli armamenti tra due Paesi in relazioni di ostilità, il Paese A, con sorpresa del Paese B, sembri abbastanza disposto a negoziare una notevole limitazione alla produzione e all’uso dell’arma X. Il Paese B comincia subito a chiedersi: perché? l’altra parte è a conoscenza di qualche limite all’efficacia dell’arma X, che a noi non consta, oppure vuol farci rinuncia¬re alla produzione dell’arma X, di cui ha paura, e farci dirottare i nostri mezzi sull’arma Y, contro la quale l’altra parte forse ha approntato una difesa adeguata? La necessità di una qualche apertura di credito, in ordine al raggiungimento di una proficua composizione degli interessi delle parti, è spesso di ostacolo, non soltanto nelle relazioni internazionali, ma anche in altri campi, a volte persino nel mondo degli affari. Forse, la soluzione definitiva risiede nello stabilirsi, con gradualità e pazienza, di molteplici vincoli associativi tra le parti, in modo tale che il loro legame sociale non si riduce unicamente alle trattative o ad un documento. Quando ciò accade, tuttavia, il principio che organizza le relazioni fra le parti già non è più di tipo contrattuale e diventa fondamentalmente un prin¬cipio di diritto consuetudinario.
Vorrei adesso volgermi a considerare la parte in¬termedia dello spettro dei contesti sociali, l’area che in precedenza ho definito come l’ambiente naturale degli estranei in rapporti di amicizia, fra i quali le aspettative interazionali re¬stano in grande misura aperte e non formalizzate. Questa è proprio l’area in cui il diritto contrattuale si trova più a suo agio ed ha maggiore efficacia; è anche in quest’area relazionale, indubbiamente, che il concetto autentico di contrattazione esplici¬ta è stato formulato per la prima volta.

Ci si è abituati a pensare che, nella misura in cui ci si allontana dalle relazioni di intimità, la nostra libertà di espressione e di azione si restringa progressivamente; in presenza degli estranei siamo a disagio; è soltanto con gli amici intimi che siamo liberi di dire quel che pensiamo e di ri¬velare quel che ci piacerebbe avere. Ma di fatto, nel trattare con chi ci è intimo, siamo frenati, spesso senza rendercene affatto conto, da un mucchio di aspettative non ben definite – sia¬mo costretti, per così dire, a comportarci in base a ruoli ta¬citamente assegnatici in incontri precedenti. Come Simmel fa notare, spesso proprio l’estraneo è il destinatario dell’«apertura più sorprendente – confidenze che sarebbero accuratamente nascoste ad una persona che ci fosse maggiormente vicina» . È questa apertura delle relazioni fra estranei che favorisce le trattative, in un modo che sarebbe impossibile (e probabilmente sconsigliabile) all’interno di un gruppo, come la famiglia, caratterizzato da relazioni di intimità.

Le relazioni di intimità diffuse in tutto il mondo, quelle della famiglia estesa, della tribù e del villaggio rurale, si sono mostrate un ostacolo allo stabilirsi di rapporti su una base puramente commerciale. Per fare un esempio, è difficile obbligare un parente o un amico intimo a saldare sollecitamente il conto. La Mair riferisce un’osservazione antropologica generale, per cui le «pressioni dirette ad impedire di fare ampio affidamento su chi apra un negozio nel suo villaggio sono tenden¬zialmente così forti che costui non può riuscire nel suo affare» . Si dice che un’intraprendente tribù amerindia dello Stato di Washington abbia subito un analogo impedimento nel tentare di impegnarsi in imprese commerciali da condurre nella riserva . Forse la più interessante osservazione in proposito è contenuta in The Irish Countryman di Conrad Arensberg. Secondo Arensberg, nelle campagne irlandesi il cliente del negoziante del posto è abituato a non pagare praticamente mai del tutto il suo conto; in realtà, lo farebbe soltanto in un ac¬cesso d’ira. Il conto che resta da saldare, ridotto di volta in volta da pagamenti parziali, simboleggia un obbligo di fiducia reciproca – il cliente diventa abituale, il negoziante proro¬ga il suo credito . Molti americani hanno osservato un fenomeno analogo: quando qualcuno fa un acquisto nel grande ma¬gazzino e, invece di farselo addebitare, come di solito fa, offre di pagarlo in contanti, il negoziante può sentirsi offeso da questo comportamento. Quando si consideri l’estrema dif¬fusione di questa tendenza a ritrarsi impauriti da una relazio¬ne sistematica assolutamente impersonale, non c’è da stupirsi che i mercanti ed i negozianti pionieri siano sembrati ovunque degli estranei – gli ebrei in Europa, gli zoroastriani in India, gli indiani e i libanesi in Africa, i cinesi nel Pacifico e, forse, agli inizi, si potrebbe dire, gli yankees nel Nord-America. Come è suggerito da alcune voci di questo elenco, sembra addirit¬tura che una differenza religiosa possa favorire, in certi casi, la realizzazione di quella particolare distanza sociale che è indispensabile al darsi di relazioni puramente contrattuali.

Varrebbe qui la pena di sottolineare che, talvolta, la sola riuscita di una relazione contrattuale ha l’effetto di sostituirla con qualcosa di simile ad un diritto consuetudinario a due. Coloro che rinnovano i contratti ogni anno, e che in tal modo entrano in relazioni di intimità, incontrano pro¬babilmente crescenti difficoltà a preservare un’atmosfera di contrattazione esplicita; essi diventano prigionieri delle aspet¬tative create dalle abitudini contratte in passato. È naturale che ciò probabilmente accada in modo particolare dove si sia sviluppata una situazione in cui le parti non trovano facilmente fonti alternative per la soddisfazione dei loro bisogni, una situazione, questa, che si avvicina al «monopolio bilaterale» .

Si è detto tutto per quanto concerne le interazioni fra diritto contrattuale e contesto sociale. Per passare ades¬so al diritto consuetudinario, va osservato innanzitutto che questo sistema giuridico è assolutamente congeniale ai più diversi contesti sociali, da quelli caratterizzati da maggior intimità a quelli caratterizzati da aperta ostilità. Che la famiglia non possa organizzarsi senza difficoltà mediante un processo di esplicita contrattazione non esclude la possibilità della crescita al suo interno di aspettative reciproche analoghe a quelle che, ad un livello di maggiore formalizzazione, sarebbero indicate col nome di diritto consuetudinario. In realtà, la famiglia non potrebbe svolgere le sue funzioni senza que¬ste tacite direttive predisposte per l’interazione; se ogni in-terazione dovesse essere ogni volta orientata di nuovo e ad hoc, nessun gruppo, come la famiglia, riuscirebbe a disimpegnare i suoi compiti. Mediamente, va osservato che lo sviluppo più effi¬cace ed evidente del diritto consuetudinario moderno si è avu¬to proprio nel campo dei rapporti commerciali. Infine, pur avendo difficoltà a contrattare con le parole, parti fra loro ostili possono utilmente semi-contrattare, come spesso fanno, con scritture legali. Paradossalmente, le limitazioni di diritto consuetudinario tra nemici hanno maggiori probabilità di svilup¬parsi sotto la guerra che non in presenza di situazioni relazionali di ostilità senza sbocchi; il combattimento, in questo senso, è in se stesso una relazione sociale, dal momento che presuppone la comunicazione.

Che il diritto consuetudinario, come l’ho presentato, sia congeniale all’intero spettro dei contesti sociali non significa che esso mantenga le medesime caratteristiche ovunque compaia. Al contrario, il diritto consuetudinario può veder mutare radicalmente le sue caratteristiche essenziali, nella mi¬sura in cui lo si sposti da un capo all’altro dello spettro. Al punto limite delle relazioni di intimità, il diritto consuetudinario ha a che ha a che fare in primo luogo non con atti prescritti ed eseguiti, ma con ruoli e funzioni. Le operazioni interne ad una famiglia, ad un gruppo di parentela, o perfino ad una tribù posso¬no richiedere non semplicemente una conformità a norme, ma una attribuzione di autorità, e una capacità di amministrare in capo a coloro che prendo; o decisioni ed impartiscono direttive. Nell’area intermedia, occupata dai rapporti commerciali a distanza, il diritto consuetudinario prescinde dalle qualità e dagli stati d’animo della persona, e concentra la sua attenzione nell’imputare al comportamento esteriore conseguenze adeguate e chiaramente definite. Infine, per quanto attiene alle relazioni di ostilità, si verifica un mutamento radicale nella generale intenzione del diritto consuetudinario. In tal caso, la prima co¬sa che si desidera è il raggiungimento – naturalmente tramite azioni, non a parole – della comunicazione chiara dei messaggi dal significato abbastanza ristretto e negativo; ci si concentra, perciò, in misura notevole, sul simbolismo e sul rituale.
L’influenza del contesto sociale, secondo me, andrebbe tenuta in considerazione quando si confrontano i diversi punti di osservazione degli antropologi in ordine alla natura del di¬ritto consuetudinario. È interessante, a questo proposito, mettere a confronto due opere che sono diventate classiche: Malinowski, Crime and Custom in Savage Society (1926), e Gluckman, The Judicial Process Among the Barotse of Northern Rhodesia (1955, 2° ed. 1967).

Malinowski individua il principio fondamentale del diritto consuetudinario nell’attribuzione di vantaggi reciproci; egli pensa addirittura, incautamente, che la sanzione che as¬sicura la conformità alle norme del diritto consuetudinario stia nella tacita minaccia che, se qualcuno non presta il suo apporto, gli altri possono negare il loro. Pur essendo, nella maggior par¬te dei casi, attento a limitare le generalizzazioni che propone alla società particolare da lui studiata, Gluckman dà l’impressione di considerare come centrale nel diritto consuetudinario in generale il concetto dell’«uomo ragionevole». Per Gluckman, l’uomo ragionevole è l’uomo che sa qual è il suo posto e quali sono le sue responsabilità, e che risponde in modo ade¬guato alle mutevoli esigenze della vita di gruppo. Semplificando abbastanza, possiamo dire che, per Malinowski, la figura centrale è fondamentalmente un commerciante o, meglio, un individuo che commercia in termini stabiliti in larga misura dalla tradizione, piuttosto che in termini negoziali. Per Gluckman, la figura centra¬le coincide con lo scrupoloso membro della tribù, incaricato di curare il benessere del gruppo a cui appartiene.

Quando tuttavia si guardi alle organizzazioni econo¬miche e ai sistemi di parentela delle due società studiate, si capisce perché i due autori giungessero a conclusioni così di-verse circa il tipo d’uomo che il diritto consuetudinario esprime. Malinowski comincia con l’osservare che gli uomini oggetto del suo studio, sparsi in varie isole, «hanno voglia di commerciare e di fare scambi». La situazione concreta, che Malinowski ha affron¬tato per prima, riguarda due comunità di villaggio che abitavano, nella stessa isola, a poca distanza l’una, costiera, dall’altra, situata nell’entroterra. In base ad un’intesa stabilita fra le due comunità, il villaggio costiero rifornisce regolarmente di pesce il villaggio dell’entroterra, in cambio di verdura. Il commercio tra i due villaggi, naturalmente, non è il risultato di una contrattazione esplicita, ed a volte, in realtà, ciascuno dei due cercherà, non di ridurre la quantità di forniture, ma di mettere l’altro in condizione di sfigurare superandolo nella misura dell’approvvigionamento.

D’altra parte, fra i Barotse studiati da Gluckman, la produzione economica e il consumo sono organizzati in larga mi¬sura su base parentale. I casi studiati da Gluckman prima dei kuta erano soprattutto casi riguardanti quelli che si potrebbe definire come affari interni di una famiglia estesa, benché tali affari comprendessero questioni di proprietà. Parte dei casi studiati è suggerita da un campione dei titoli assegnativi da Gluckman: «Il caso dell’adulterio fra uomini incrociati», «Il caso del granaio della moglie», «Il caso del marito che orina». Il clima delle dispute e delle decisioni, rappresentato da Gluckman in maniera così icastica, ricorda il clima che ci si immagina possa regnare in una sorta di tribunale, chiamato a svolgere opera di mediazione nei complicati affari di famiglia e chiamato, occasionalmente e a malincuore, ad esercitare un potere per rimetterli in ordine con un giudizio imparziale. È chiaro che i due sistemi giuridico-consuetudinari stu¬diati da Malinowski e da Gluckman funzionavano in contesti so¬ciali abbastanza diversi, per quanto ciò non escluda che un Malinowski potesse eventualmente rintracciare fattori di reciprocità o di scambio fra i Barotse, o che un Gluckman fosse capace di cogliere l’opportunità di applicare agli abitanti delle Trobriand il concetto dell’«uomo ragionevole». In generale, vorrei far presente che, se si va alla ricerca di costanti tra i diversi sistemi di diritto consuetudinario, le si rinverrà nei processi di interazione che pongono in essere tali sistemi, anziché nel ri¬sultato particolare che ne deriva, che deve necessariamente ri¬flettere una storia e un contesto. Aggiungerei che, se si osservano con attenzione i vari contesti che la nostra stessa società presenta, risulteranno analogie con quasi tutti i fenomeni ritenuti tali da contraddistinguere il diritto primitivo.

Nel riassumere la nostra analisi degli effetti del contesto sociale sui diversi modi di essere del diritto, ci resta da prendere in considerazione il diritto formalmente emanato in quanto esemplificato in una legge. Al principio è evidente, come penso, che il «terreno familiare» del diritto formalmente emanato coin¬cide ampiamente con ciò che già abbiamo considerato come l’am¬bito più congeniale al principio ordinatore del contratto, ossia con l’area intermedia dello spettro dei contesti sociali – il campo occupato dagli estranei in rapporti amichevoli, le cui re¬lazioni reciproche in generale restano aperte, nel senso che non sono prestrutturate da vincoli di parentela o da repulsioni do¬vute ad ostilità vicendevole.

Se il diritto formalmente emanato e il diritto con¬trattuale si somigliano nel trovare particolarmente congeniale il punto medio sullo spettro dei contesti sociali, essi si mo-strano anche ugualmente incapaci di tentare qualcosa di simile al¬la regolazione interna della famiglia. Se un contratto è uno strumenti troppo poco idoneo a dar forma agli affari di una famiglia, potrebbe dirsi lo stesso, con maggior enfasi, se si tentasse di imporre dettagliati regolamenti formalizzati alle re¬lazioni di intimità proprie del matrimonio e della paternità e maternità .

Inoltre, come ho rilevato in questa sede, gran parte del diritto consuetudinario realizza – e spesso con buoni risultati – la finalità di regolare le relazioni fra parenti. Come si spie¬ga questa particolare attitudine del diritto consuetudinario ri¬guardo agli affari di famiglia? Credo che ciò sia dovuto al fatto che il diritto consuetudinario non si limita a prescrivere o a proibire azioni definite in modo preciso, ma può anche designare ruoli e funzioni, quindi, quando si dà il caso, può obbligare coloro che disimpegnano questi ruoli e funzioni ad esegui¬re le loro prestazioni. Questa concezione non è in contrasto con l’analisi del diritto consuetudinario esposta all’inizio del presente saggio. Stabili aspettative interazionali possono determinarsi in riferimento sia a ruoli e funzioni, sia ad azioni particolari; un linguaggio interazionale consisterà non soltan¬to in un vocabolario di atti ma anche in una grammatica fonda¬mentale che ordinerà tali atti entro schemi significativi.

È importante osservare che le caratteristiche, che fanno del diritto formalmente emanato uno strumento inidoneo a regolare le relazioni di intimità, sono proprie le stesse che attribuiscono a tale diritto una particolare idoneità a regolare le interazioni fra gli uomini all’interno di un più ampio contesto sociale impersonale. Entro questo più ampio contesto, la necessità fondamentale è di imporre norme che ver¬ranno a stabilire i limiti che gli uomini devono rispettare nelle loro interazioni, col lasciarli liberi, entro questi limiti, di perseguire i loro propri scopi. Ciò vuol dire, ancora, che il di¬ritto ha a che fare con atti determinati, non con stati d’animo o con modi di pensare. Il principio di legalità valuta le azioni compiute da un uomo in confronto alla legge, non l’uomo stesso rispetto a qualche ideale vagamente sottinteso alle proposizio¬ni giuridiche. Quello che qui è in gioco può essere indicato dalla distinzione tra giudicare la persona e giudicare l’atto . Nei problemi della vita di ordinaria amministrazione questi due tipi di valutazione sono in costante interazione. Giudichiamo un uomo dalle sue azioni; valutiamo le sue azioni come espressione di ciò che egli è. Sappiamo che un uomo talvolta deve agire in un certo modo «perché è fatto così»; sappiamo inoltre che, per tutta una vita, un uomo, almeno fino ad un certo punto, fa di sé quello che è con un mucchio di decisioni prese su come com-portarsi in situazioni particolari.

I sistemi giuridici primitivi, ivi compresa la common law inglese delle origini, recepiscono senza problemi il punto di vista del senso comune in materia, e sono poco interessati a man¬tenere una distinzione fra l’uomo e le azioni a lui riferibili. In origine, il collegio dei giudicanti era scelto tra gente che si conosceva, in modo tale che i giudicanti avessero la possibilità di conoscere personalmente i contendenti e forse persino i fat¬ti oggetto della disputa. Del diritto penale facevano parte i cosiddetti delitti di status – come, ad esempio, il delitto di «essere una megera comune».
Tutto ciò, evidentemente, è cambiato in maniera radicale. Oggi, in un processo penale le conoscenze personali dell’impu¬tato sarebbero normalmente escluse dalla giuria, la prova di una cattiva condotta passata è inammissibile, ed è impensabile che un testimone, per quanto ben informato circa l’imputato, sia autorizzato a dire alla giuria come consideri la persona dell’imputato . Alla giuria spetta stabilire nel miglior modo possi¬bile quale azione o quali azioni l’imputato abbia commesso, o giudicare tali azioni in base alle norme di legge.

L’immagine di una giustizia affidabile e parca, che evita deliberatamente di guardare all’uomo come tale, si offusca notevolmente, tuttavia, quando si consideri che cosa accade prima e dopo il dibattimento che ha luogo in un pubblico processo. Prima che la causa venga portata davanti al tribunale, l’imputato deve essere arrestato, e sarebbe certo insolito che un po¬liziotto – a prescindere dalla natura o dalle circostanze del delitto – arrestasse d’abitudine chiunque fosse ritenuto colpevole. Certamente, nell’occuparsi di delitti di secondaria importanza, il funzionario di polizia usa, e ci si aspetta che usi, «giudizio»; questo giudizio è inevitabilmente influenzato da quel che il funzionario pensa del tipo di persona che gli sembra il sospettato. Quando il caso è sottoposto al pubblico ministero, questi è a sua volta influenzato, in una certa misura, da analoghe considerazioni nel decidere di promuovere eventualmente l’accusa. Se l’accusatore procede al rinvio a giudizio, in molti casi di solito segue un processo, che deve essere indicato col nome di patteggiamento. Si tratta di una procedu¬ra attraverso la quale il pubblico ministero e l’avvocato difensore, col benestare del giudice, predispongono un accordo col quale l’imputato si confesserà colpevole di un’imputazione mi¬nore di quella asserita perché sia oggetto di difesa da parte di coloro che rappresentano lo Stato. L’esito di questa procedura è inevitabilmente influenzato dalle opinioni circa gli at¬teggiamenti fondamentali dell’imputato. Se si va al rinvio a giudizio e l’imputato viene riconosciuto colpevole, si deve decidere sulla domanda di una sentenza appropriata. Nel decidere su tale domanda, il giudice terrà conto di quanto si sa circa l’im¬putato stesso, il suo passato, e le sue probabili inclinazioni future. Naturalmente, analoghe considerazioni determineranno la concessione della libertà sulla parola o un’assoluzione. Infine, qualora si consideri che, probabilmente, meno del dieci per cento delle imputazioni penali iscritte a registro sfociano in un processo, l’accento posto in un giudizio esplicito sull’azione, anziché sulla persona dell’imputato, perderà importanza al punto da sembrare forse soltanto un omaggio di tipo simbo¬lico al principio del giudicare gli atti e non l’uomo.

Tuttavia, questo simbolismo è di importanza fondamentale. Se fosse completamente perso di vista, il principio di legalità, il rule of law, diventerebbe una vuota mistificazione. Le apparenti contraddizioni interne a tutti i processi penali sono tollerabili perché, in genere, almeno i diretti interessati capiscono che caratteristici ruoli istituzionali sono eser¬citati da chi arresta, accusa, difende, processa, pronunzia una sentenza, concede la libertà sulla parola, scarcera, assolve – tutti ruoli, questi, rivolti allo svolgimento di funzioni diverse. Non è sicuro se queste distinzioni siano sempre colte dal pubblico o dallo stesso imputato. Non c’è dubbio, comunque, che una di¬stribuzione delle funzioni così sviluppata sia impossibile all’interno di un contesto sociale di intimità; essa presuppone processi ampi ed impersonali.

Qualora si consideri il problema sotto questa luce, diventa chiaro che, in una moderna società complessa, il diritto formalmente emanato ed i principi ordinatori impliciti nel diritto consuetudinario non appaiono semplicemente come modalità alternative per regolare le interazioni fra gli uomini, ma invece come mezzi spesso idonei alla realizzazione di una re¬ciproca integrazione mediante una divisione naturale del lavoro. Si può dire, in generale, che il diritto formalmente emanato verrà meno alla sua vocazione nelle complesse relazioni di interdipendenza che non si possono organizzare mediante una serie di regole che attribuiscono facoltà e doveri; queste situazioni non sono affatto limitate all’intimità intesa in un qualunque senso di affettività . Che tali situazioni non possano essere regolate da leggi ordinamentali non equivale a dire che esse non possono, come lo sono nella nostra società, essere suscettibili di una efficace regolazione mediante operazioni tacite che, se riferite ad una società primitiva, sarebbero indicate col nome di diritto consuetudinario.

Gran parte della letteratura corrente sembra am¬mettere che la nostra società sia incapace di funzionare in base ad una combinazione del senso morale individuale e del controllo sociale, esercitato tramite la minaccia delle sanzio¬ni contemplate dal diritto statuito. Abbiamo bisogno di ricor¬dare che noi orientiamo costantemente le nostre azioni recipro¬che in riferimento a pali segnaletici che non sono fissati né dalle morali, in alcun senso corrente, né dalle parole scritte nei libri di diritto. Se la presente relazione sarà servita a rivalutare questo elemento, avrò ottenuto il mio scopo.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

ARENSBERG Conrad M., 1968, The Irish Countryman. Natural Hisotry Press, ed. riv., New York.

BAGEHOT Walter, 1956, Physics and Politics. Beacon Press, Boston.

BOHANNAN Paul, 1967, Law and Warfare – Studies in the Anthropology of Conflict. Natural History Press, New York.

Encyclopedia of the Social Sciences, 1930. The Macmillan Company, New York.

ERIKSON Erik H., 1966, «Ontogeny of Ritualization». In R.M. Loewenstein (a cura di), Psychoanalysis – A General Psychology – essays in Honor of Heinz Hartmann. International Universities Press, New York.

FULLER Lon Luvois, 1963, «Collective Bargaining and the Arbitrator». In Wisconsin Law Rewiew, 1963, 3-46.

FULLER Lon Luvois, 1965, «Irrigation and Tyranny». In Stanford Law Review, 17, 1021-1042.

FULLER Lon Luvois, 1968, Anatomy of the Law. Praeger, New York.

FULLER Lon Luvois, 1969, «Two Principles of Human Association». In J. R. Pennock e J. Champan (a cura di), Voluntary Associations. Atherton Press, New York, 3-23.

FULLER Lon Luvois, 1969, The Morality of Law. Yale University Press ed. riv., New Haven (ed. it. La moralità del diritto, trad. it. a cura di A. Dal Brollo, Milano 1986).

GLUCKMAN Max, 1955, The Judicial Process among the Barotse of Northern Rhodesia. Manchester University Press 2° ed., Manchester, U.K.

GLUCKMAN Max, 1965, Politics, Law, and Ritual in Tribal Society. Aldine Press, Chicago.

HOEBEL E. Adamson, 1954, The Law of primitive Man. Harvard University Press, Cambridge, Mass (ed. it. Il diritto nelle società primitive, Bologna 1973).

HOLLAND Thomas Erskine, 1896, The Elements of Jurisprudence. Macmillan 8° ed., New York.

L. FRIEDMAN Lawrence M., 1965, Contract Law in America, University of Wisconsin Press.

LÉVI-STRAUSS Claude, 1966, The Savage Mind. Chicago University Press, Chicago (ed. it Il pensiero selvaggio, Milano 1990).

MACAULAY Stewart, 1963, «Non-Contractual Relations in Business: A Preliminary Study». In American Sociological Review, 28, 55-67.

MAINE Henry, 1884, Ancient Law. John Murray 10° ed., London 1884.

MAIR Lucy Philip, 1965, An Introduction to Social Anthropology. The Clarendon Press, London.

PARRY Clive, 1965, The Sources and Evidences of International Law. Manchester University Press, Manchester, U.K.

PARSONS Talcott e SHILS Edward (a cura di), 1951, Toward a General Theory of Action. Harvard University Press, Cambridge, Mass.

SALMOND John William, 1924, Jurisprudence. Swett e Marwell 7° ed., London.

TÖNNIES Ferdinand, 1957, Community and Society, a cura di C. Loomis. Michigan State University Press, East Lansing (ed. it. Comunità e società, Edizioni di Comunità, Milano 1963).

WOLFF Kurt (a cura di), 1950, The Sociology of Georg Simmel. Free Press, New York.

I nostri recapiti

Redazione

Via delle Rosine, 15 - 10123 Torino

Sede di studio

Via delle Rosine, 11 - 10123 TORINO

 

ISSN

ISSN 2421-4302

powered by