Editoriale – Politica e (post)democrazia

Tokyo, Parigi, Pechino. A distanza di un anno circa dall’inizio dell’avventura della nostra Rivista tre fatti (di diverso tenore, gravità e rilievo) inducono a riflettere sull’ipotesi di una promozione di una cultura politica umanistica così come indicato dal manifesto di Politica.eu.

Andando con ordine: il governo giapponese ha approvato di recente un documento atto a limitare le lauree «improduttive», dirottando la gran parte dei finanziamenti sui corsi e sulle ricerche applicate e tecnico-scientifiche.

Di tutt’altro tenore, invece, la politica accademica cinese, volta al reclutamento su larga scala di giuristi, politologi, umanisti provenienti dalle più affermate università occidentali; la decisione segue il curioso aneddoto legato alla pubblicazione in cinese de L’ancien régime et la révolution di Alexis de Tocqueville, consigliato per la lettura a tutti i funzionari ed alti dirigenti comunisti nel 2013.

E, da ultimo, i tragici fatti di Parigi dello scorso novembre, che aprono scenari inquietanti sulla sicurezza del mondo occidentale, oltre a mettere in discussione i consolidati (ma forse deboli…) modelli «multiculturali», le più diffuse valutazioni del ruolo delle religioni nello spazio pubblico (che sembrano semplicistiche ed inadeguate), fino alle domande profonde sul problema del male e sui fondamenti di una convivenza ordinata e pacifica.

Si può ipotizzare uno sviluppo della società mettendo in secondo piano i suoi fondamenti umani (culturali, religiosi, morali)? È sufficiente l’approccio «tecnico» (o tecnocratico) per affrontare i nodi intricatissimi del nostro tempo, affidando agli «esperti» di ogni campo la soluzione dei problemi? Nel suo saggio pubblicato in questo numero Vittorio Possenti parla – a ragione – di crisi dei fondamenti e della necessità per la filosofia (inclusa quella politica) di sapere partire dal proprio tempo per sapersi esprimere, però, al di là di esso.

In questo senso, certamente occorre fare delle scelte, anche al di là di stereotipi consolidati, e – pur nella consapevolezza dei suoi limiti – è il tempo della politica.

Una politica come espressione dei valori umani e delle tradizioni (ricche di patrimonio religioso, artistico, naturale, etc.) della Polis e delle differenti civitates, capace anche di confrontarle fra loro (senza appiattire tutte le differenze), aperta ai contributi delle formazioni sociali originarie e delle diverse comunità.

E pure antichi steccati fra “conoscenza scientifica” e “conoscenza umanistica” sono forse destinati a sciogliersi nella considerazione di una necessaria osmosi fra le discipline e dell’irrinunciabilità del rigore metodologico e delle questioni ultime ed «eterne» (secondo una felice sottolineatura di Possenti) in ogni campo (come illustri scienziati, quali Eccles, Zalamea, Piazza, Barrow e Israel – fra i molti – hanno mostrato a più riprese).

Anche l’importanza delle vicende e dei dettami dell’economia nel nostro tempo, inclusa quella «guerra economica» di cui tratta Giuseppe Della Torre in un interessante saggio qui pubblicato, non possono scalzare la necessità di ripensare la politica a partire dai suoi fondamenti.

In questo senso l’attuale complessità delle società post-ideologiche (che reca con sé anche la crisi della tradizionale idea di Stato) necessita del contributo di ogni soggetto «portatore di significato» – anche con il suo bagaglio di «emozioni», di cui tratta Frank Wehyer a partire da alcuni aspetti del pensiero di Marx – per creare sinergie virtuose ed alimentare il senso della persona umana (in tutte le sue dimensioni e nella sua unicità irriducibile) e per non annegare nell’indistinzione l’inestimabile valore di «verità» della nostra cultura politica e giuridica. Si rinvia in proposito alla critica dell’ideologia del pluralismo giuridico, formulata nell’articolo di Bjarne Melkevik.

La necessità di solidi agganci mostra che senza una ricerca ed un’affermazione convinta di tali fondamenti umani non potrà esserci futuro se non la supremazia della forza: i nodi oggi irrisolti della rappresentanza politica, della cittadinanza, del principio di maggioranza e del suffragio universale conducono – infatti – ad un deciso slittamento verso la «post-democrazia», dai contorni ancora indefiniti, come osserva Nicola Antonetti nel suo bel saggio).

Il monito vivo e paradossale di Chesterton (scrittore recentemente richiamato da un giurista come Paolo Cappellini) resta pur sempre valido richiamo per tutti: «La situazione si presta al paradosso – dichiarò –. In un certo senso noi siamo la democrazia più pura perché siamo diventati un regime dispotico. Non avete notato che nella storia la democrazia diventa continuamente dispotismo? La gente la chiama decadenza della democrazia, al contrario ne è semplicemente la realizzazione. Perché prendersi il disturbo di numerare e registrare e affrancare tutti gli innumerevoli John Robinson, quando si può prendere un solo John Robinson con lo stesso intelletto o mancanza di intelletto di tutti gli altri, e chiuderla lì?» (G.K. Chesterton, Il Napoleone di Notting Hill, Lindau, Torino, 2010, p. 33).

Urge una vera responsabilità «politica».

                                                                M.R.

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