Autore: Inspire

L’uomo è, per Aristotele, un “essere sociale”

L’uomo è per natura un essere sociale, e chi vive escluso dalla comunità è malvagio o è superiore all’uomo, come anche quello che viene biasimato da Omero: “empio senza vincoli sociali”; infatti, un uomo di tal fatta desidera anche la guerra. Perciò, dunque, è evidente che l’uomo sia un essere sociale più di ogni ape e più di ogni animale da gregge.

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– Politica vera, comunità intermedie, potere – A trent’anni dal discorso di Luigi Giussani alla DC lombarda (1987)

Politica vera, comunità intermedie, potere.

A trent’anni dal discorso di Luigi Giussani alla DC lombarda (1987)[1]

 

 

Michele Rosboch

 

Il testo del discorso pronunciato da mons. Luigi Giussani all’assemblea della DC lombarda nel febbraio 1987 rappresenta un contributo di rilevante attualità per riflettere sul valore della politica e su alcuni nodi emergenti dal dibattito attuale; non ha perso – perciò – né vivezza, né tantomeno attualità.

Anche per questo motivo, se ne è discusso a Torino nel giugno di quest’anno insieme a Stefano Costalli e a Mario Prignano, le cui riflessioni sono pubblicate dopo questa breve introduzione.

 

Al di là delle questioni di ‘circostanza’ che motivarono trent’anni fa l’intervento ed i commenti a caldo, molti dei quali assai poco pertinenti ai temi trattati (con l’eccezione del bellissimo articolo di Augusto Del Noce pubblicato su “Il Sabato”)[2], vale la pena riflettere oggi, in estrema sintesi,  almeno su tre punti essenziali, quale premessa alle ben più articolate osservazioni proposte in seguito dai colleghi.

 

Il primo è il nesso riconosciuto ed affermato da Giussani fra politica e cultura; citando Giovanni Paolo II, il testo esordisce con la netta affermazione secondo cui: “La politica, in quanto forma più compiuta di cultura, non può che trattenere come preoccupazione fondamentale l’uomo”. L’affermazione, pur sembrando scontata, non lo è assolutamente. Essa contesta radicalmente l’idea dell’assoluta autonomia della politica dai valori e la possibilità di concepire l’agire politico, a tutti i livelli, sciolto da una impostazione culturale. Per altro verso tale affermazione ricorda pure alle “culture” che il disinteresse per la politica e l’assenza di impegno per tentativi di declinazione dei princìpi, delle concezioni e dei valori  nell’agone politico contribuisce a decretarne l’irrilevanza e la decadenza[3].

Tutto ciò assume un’importanza particolare per i cattolici, in specie in Italia; da questo punto di vista le riflessioni proposte a più riprese su questi temi da Del Noce sono di grande interesse[4]; si nota, infatti, ieri come oggi un’oggettiva difficoltà dei cattolici ad ‘interpretare’ originalmente il tempo presente, così come ad esplicitare i nessi fra pensiero e azione e fra  valori e soluzioni.

Secondo Giussani il punto di snodo per evitare tale dualismo risiede proprio nel recupero fattivo della dottrina sociale della Chiesa (fin nelle sue ultime conseguenze), sottolineando particolarmente il suo fondamento “personalista”, secondo cui – in antitesi a molti canoni della cultura contemporanea – desideri e libertà trovano dinamismo ed esito positivo solo se intesi unitariamente (cioè ‘religiosamente: “Il senso religioso appare così la radice da cui scaturiscono i valori”) e non individualisticamente come mera possibilità di scelta fra opzioni indifferenti; la forte valenza sociale dei desideri e della stessa dinamica della libertà porta perciò ad una “cultura della responsabilità”, che non teme di misurarsi ed ‘impastarsi’ con il potere.

 

Il secondo argomento di grande rilievo è la riflessione sul potere, mai demonizzato da Giussani  né destituito del suo ruolo essenziale per l’umana convivenza (riprendendo qui  le efficaci osservazioni di Romano Guardini)[5]; il potere tradisce invece se stesso quando mira a “governare i desideri dell’uomo” e conduce alla “perdita di libertà di coscienza da parte di interi popoli ottenuta con l’uso cinico dei mezzi di comunicazione sociale da parte di chi detiene il potere” (Giovanni Paolo II). Il potere tende così a diventare “strapotere” prepotente e omologante (secondo l’espressione citata di Pier Paolo Pasolini) , non solo nelle sue declinazioni totalitarie e ideologiche (come nazismo e comunismo), ma anche nella possibili degenerazione delle forme della convivenza democratica.

Riprendendo il pensiero di Vaclav Belohradsky (esponente di spicco della dissidenza dell’est europeo ed in specie di Charta’77)[6], Giussani mette in guardia dal pericolo della riduzione della coscienza e dall’annullamento della vitalità sociale da parte di apparati anonimi, di leggi e dello stesso Stato. In tale contesto, un’affermazione di capitale importanza e attualità: “Nell’appiattimento del desiderio ha origine lo smarrimento dei giovani e il cinismo degli adulti; e nell’astenia generale l’alternativa qual’è? Un volontarismo senza respiro e senza orizzonte, senza genialità e senza spazio e un moralismo d’appoggio allo Stato come ultima fonte di consistenza per il flusso umano”[7].

 

Si connette a quanto detto, la terza sottolineatura, a proposito dell’importanza delle “comunità intermedie”[8]. Esse rappresentano – da un lato – l’aspetto dinamico e propositivo di una responsabilità correttamente intesa ed esprimono compiutamente “la libertà delle persone potenziata dalla forma associativa”. Da un altro lato comunità, opere sociali e corpi intermedi documentano capillarmente il primato della società nei confronti dello Stato, contribuendo non poco alla costruzione del bene comune (concetto richiamato con vigore da Giussani nel suo “concetto tomistico” ripreso, fra gli altri, dal magistero di Leone XIII): sinteticamente, “Più Società, meno Stato”[9].

La valorizzazione o meno delle comunità intermedie diventa allora il criterio paradigmatico per valutare l’organizzazione e l’operato dello Stato, nonché per giudicare anche le diverse proposte politiche, dando concretezza a quel “principio di sussidiarietà” in cui si concreta da sempre (accanto a quello di solidarietà) l’approccio alla politica della dottrina sociale della Chiesa[10].

Senza tale concretezza, anche le critiche del potere possono diventare sterili, utopiche  nostalgiche, perché incapaci di opporsi allo status quo determinato dal potere (anzi spesso ne risultano utili e inconsapevoli alleate…); al contrario “Politica vera, è quella che difende una novità di vita nel presente, capace di modificare anche l’assetto del potere”[11].

Anche qui si vede la lungimiranza e il realismo del discorso di Giussani, che è auspicabile possa essere a trent’anni di distanza riletto e ‘meditato’ dai politici, e non solo.

Mario Prignano

 

Per comprendere a pieno il valore dello storico intervento di don Giussani al congresso della Dc lombarda, occorre partire dal contesto politico in cui si svolse.

L’invito era venuto dal segretario regionale del partito, da pochi mesi presidente della Lombardia, Bruno Tabacci. Ancora oggi Tabacci è in politica, deputato del gruppo “Centro democratico”, appartenente alla schiera di ex dc che hanno sempre orgogliosamente rivendicato la loro storia politica e ideale.

Erano, quelli, anni difficili, politicamente molto turbolenti. Segretario dello Scudo crociato era Ciriaco De Mita, contrapposto all’uomo forte del Psi Bettino Craxi, allora presidente del Consiglio.

Per paradosso, l’impegno dei cattolici in politica era frenato proprio dall’esistenza della Dc. O meglio: se voleva avere una qualche incidenza doveva necessariamente passare attraverso la Dc, che aveva l’esclusiva della rappresentanza non solo in politica ma anche nella società, nella scuola, nei sindacati, nei cosiddetti corpi intermedi.

Anche per questo, forse, il cardinale di Milano Carlo Maria Martini non voleva che Giussani accettasse l’invito del partito. Per essere piu’ precisi, non risulta che il cardinale abbia mai proibito a Giussani di accettare, altrimenti Giussani, sempre obbediente alla gerarchia ecclesiastica, non sarebbe andato.

Furono piuttosto i collaboratori dell’arcivescovo a mettere i bastoni tra le ruote, come ricorda oggi lo stesso Tabacci.

Sta di fatto che il fondatore di Cl rispose, e rispose di sì. Fu una decisione assai felice, con il senno di poi. Uno degli slogan più fortunati rilanciati dopo quell’incontro fu “Più società meno Stato”, uno slogan – una precisa linea politica – che ha segnato anche buona parte degli anni Novanta.

Per Giussani non era una dottrina economica o sociale, ma solo una conseguenza di una constatazione. La constatazione che l’uomo è costituito dal senso religioso, definito come “l’elemento dinamico che, attraverso le domande fondamentali, guida l’espressione personale e sociale dell’uomo”.[12]

Tutto, per Giussani, ruota attorno al concetto di “opera”, attorno alla creazione di opere che rispondono ai bisogni in cui si incarnano i desideri dell’uomo: bisogno di educazione, di lavoro, di assistenza… Sono queste opere che, secondo Giussani, contribuiscono a far nascere le comunità intermedie.

La politica vera, quindi, per Giussani, è “quella che difende una novità di vita nel presente, capace di modificare anche l’assetto del potere”.[13]

Da qui l’appello da lui rivolto alla politica, che nel caso specifico non poteva non coincidere, per i motivi detti in premessa, con la Democrazia cristiana: “Un partito che soffocasse, che non favorisse o non difendesse questa ricca creatività sociale contribuirebbe a creare o a mantenere uno stato prepotente sulla società”.[14]  Ecco perchè più società e meno Stato.

Oggi, trent’anni dopo, non è cambiata solo la situazione politica. È cambiata, per molti aspetti, la stessa percezione che abbiamo di noi stessi. La globalizzazione ha modificato il nostro modo di vivere e osservare la realtà dal punto di vista economico, culturale, sociale.

Per quello che qui interessa, la crisi dei partiti tradizionali, primo dei quali la dc, ha portato a due conseguenze immediatamente visibili.

 

La prima:

  • La suggestione utopistica e perciò pericolosa e nichilista dell’uno vale uno, che non è molto diversa dal suo contrario, dal leaderismo, dall’ uno vale tutti, e dal partito personale, suggestione destinata a naufragare perché nessuno può farcela da solo

Quando uno come Romano Prodi è costretto a dire che se si riconciliano Enrico Letta e Matteo Renzi si riconcilia il Paese,[15] vuol dire che il destino di popolo dipende da quello di un politico, una singola persona, mentre dovrebbe essere il contrario…

Lo stesso vale per la Francia, dove Macron ha inventato un partito e ora il bene e il male del Paese sembrano dipendere solo da lui.[16]

Ma pensiamo anche all’idea che un referendum o un voto online ci salverà e che la maggioranza ha sempre ragione.

Anche su quest’ultimo punto gli esempi non mancano: basta vedere su quali basi teoriche il Movimento 5 Stelle fonda le sue scelte politiche, ma anche – andando Oltremanica – la Brexit, di cui ora una gran parte degli inglesi è pentita.

Per restare al nostro tema, oggi non c’è più un monopolio come quello che aveva la Dc, che, come abbiamo visto, rappresentava forse una cappa ma assicurava la rappresentanza degli interessi.

In altre parole, oggi, rispetto a 30 anni fa la responsabilità politica è qualcosa che coinvolge ogni cristiano. Non c’è più un partito-mamma a cui rivolgersi. C’è, al contrario, una situazione di grande, vertiginosa libertà.

È come se l’appello di Giussani oggi non fosse rivolto ad un movimento politico ma ad ognuno di noi. Ad ogni credente.

Come ricorda papa Francesco nella esortazione apostolica “Evangelii gaudium”: “Essere fedele cittadino è una virtù e la partecipazione alla vita politica è una obbligazione morale” (EG, IV, n.220).[17]

 

E qui veniamo alla seconda conseguenza della sparizione dei partiti tradizionali e delle ideologie, anche nel senso storicamente più nobile:

  • Oggi l’idea di comunità è sostituita sempre più dal concetto di gruppo, che sia gruppo di interessi o gruppo di Whatsapp, non cambia molto.

 

Di fronte a questi rischi, individualismo e gruppi di interessi particolari, qual è il compito del cristiano che vuole adempiere a quel suo obbligo morale di cui parla Francesco?

La partecipazione, dice subito il papa, non può bastare. Occorre diventare “cittadini responsabili in seno ad un popolo”, altrimenti si diventa “massa trascinata dalle forze dominanti” (EG, IV, n. 220).

La missione di costruire un popolo, aggiunge, non è una parte della mia vita, un ornamento, un momento tra i tanti. È qualcosa che non posso sradicare se non voglio distruggermi. Io sono una missione su questa terra, scrive addirittura il papa (cfr. EG, V, n. 273).

 

Diventare popolo richiede a sua volta alcune condizioni, la più importante delle quali è il riconoscere che la realtà è superiore all’idea.

Sempre il papa osserva che molti politici si domandano perché il popolo non li segue nonostante le loro proposte siano così logiche e chiare. La risposta che dà il papa è che forse si sono collocati nel regno delle pure idee (cfr. EG, IV, n. 232).

 

Per il cristiano questo è impossibile, perché all’origine del popolo c’è una persona, non una dottrina.  Una persona. Questo è il motivo per cui il cristiano è così attento ai bisogni: non alle idee, ma ai bisogni. Bisogni e sollecitazioni sociali nei quali non a caso – l’abbiamo già ricordato – secondo Giussani si esprime il senso religioso della persona.

San Giovanni Paolo II le chiamava “nuove forme di vita per l’uomo”,[18] Giussani le chiamava opere, Francesco nella “Evangelii gaudium” le chiama “opere di giustizia e carità” (EG, IV, n. 233).

Senza queste opere, per Francesco, il dinamismo del cristiano è sterile e sfocia nell’intimismo e nello gnosticismo (cfr. EG, IV, n. 233).

Ecco perché la dottrina sociale della Chiesa annette tanta importanza alle forme di creatività dal basso, che chiama comunità intermedie.

Se la costruzione di un popolo come abbiamo cercato di descriverlo è missione imprescindibile del cristiano, missione del cristiano che vuole far politica è difendere la possibilità che questa idea di popolo (non questo popolo, ma questa idea di popolo) possa crescere.

C’è, infine, un altro aspetto toccato da Giussani che per molti versi assume i contorni di un tabù, ieri come oggi. È l’aspetto del potere.

 

In un’intervista pubblicata subito dopo il discorso di Assago, Giussani ne parlò in termini che tuttora non smettono di sorprendere. Il cristiano, disse, deve desiderare il potere; deve desiderarlo per servire la persona.[19]

Il fondatore di Cl si ispirava chiaramente al pensiero del grande teologo Romano Guardini, da lui ben conosciuto e stimato, secondo il quale l’uomo ha il diritto e il dovere di esercitare il potere perché Dio stesso gliel’ha consegnato.[20]

Solo che c’è il rischio della corruzione. Non intesa come semplice e puro passaggio di denaro, ma, in senso latino, come qualcosa che guasta e rovina, corrode e corrompe l’umano.

Insomma, la corruzione come cedimento al potere fine a se stesso, in tutte le sfaccettature e modalità in cui può manifestarsi: potere quindi come obiettivo e non come mezzo per il fine, che è servire la persona.

Quando la politica diventa questo si trasforma nel suo contrario, il contrario di quella politica che, con un’espressione che ha fatto scuola, Paolo VI definì come “una delle forme più alte della carità”.  Se per Paolo VI la politica è carità, Giussani dice che non c’è niente di più vicino alla parola potere della parola amore.

Papa Francesco va ancora oltre. “La politica –ha detto due anni fa durante un’udienza ad alcuni gruppi di gesuiti – è una sorta di martirio quotidiano: cercare il bene senza lasciarsi corrompere, cioè senza guastarsi, perdersi, autodistruggersi”.[21]

Il che dà molto bene l’idea di come la politica, il potere siano davvero la via per la santificazione o per la dannazione.

Non è un caso se, come abbiamo letto e sentito in questi giorni, proprio la corruzione può essere causa di scomunica. Non si tratta del “solito” papa Francesco, che critica il malaffare e sferza i disonesti, quelli che adorano il dio denaro. No.

Alla luce di quello che abbiamo detto, si comprende come tradire la politica per il cristiano significhi tradire consapevolmente l’io di cui siamo fatti, tradire l’impronta divina che Dio stesso ha lasciato nel nostro cuore. Ed è quindi naturale che ne segua la cacciata dal popolo di Dio, che è, appunto, il significato della scomunica.

 

 

 

Stefano Costalli

 

 

 

Ho accolto volentieri l’invito del Centro Culturale Pier Giorgio Frassati a commentare il discorso che Mons. Luigi Giussani pronunciò nel 1987 al Congresso della DC lombarda, anche se si tratta di un compito non facile. Giussani ci ha lasciato un testo asciutto eppure molto importante, che affronta in modo sintetico ma profondo, senza tentennamenti e con svolte talvolta inattese alcuni nodi fondamentali dell’agire in politica. Nel discorso svolgono un ruolo centrale concetti forti come responsabilità e libertà, vi si trovano affermazioni che si impongono all’attenzione del lettore come l’idea che la politica sia la forma più compiuta di cultura, e tutto concorre a rendere il testo attuale per chiunque voglia (ri)pensare seriamente la politica.

Giussani fin da subito non nasconde che l’uomo impegnato nella responsabilità di operare il collegamento fra i valori che discendono dalle esigenze fondamentali dell’uomo e la realtà ha a che fare con il potere. Il potere, chiarisce subito Giussani, o “è determinato dalla volontà di servire l’uomo”[22], o “tende a ridurre la realtà umana al proprio scopo”[23]. Se il potere mira solo al suo scopo, esso deve cercare di governare, di ridurre, di plasmare, di addomesticare i desideri dell’uomo, poiché “il problema del potere […] è quello di assicurarsi il massimo di consenso da una massa sempre più determinata nelle sue esigenze. Così i desideri dell’uomo, e quindi i valori, sono ridotti. […] I mass media e la scolarizzazione diventano strumenti per l’induzione accanita di determinati desideri e l’obliterazione o l’estromissione di altri.”[24] È evidente in queste parole la preoccupazione di Giussani per quello che potremmo chiamare il “pericolo autocratico”, o “della politica forte”, in cui le forze politiche hanno la capacità di controllare la società. Oggi la società si presenta destrutturata e i desideri proliferano in libertà, moltiplicati a dismisura, ma le parole di Giussani restano attuali perché i desideri spesso sono già ridotti e hanno perso la loro connessione forte con le esigenze fondamentali dell’uomo. Di conseguenza, quasi ogni desiderio privato tende a trasformarsi indistintamente in pretesa sul piano pubblico, senza che vi sia più un ordine riconosciuto di legittimità e di urgenza. Trova così terreno fertile la tentazione tuttora attuale di ridurre e selezionare i desideri a uso e consumo del potere, non in base a una scala di priorità orientata dal bene comune. È una tentazione che resiste e si manifesta nell’elaborazione e nella diffusione di parole-chiave (o parole d’ordine) attraverso nuovi canali mediatici. Si tratta però di una prospettiva debole, propria di una politica che è anch’essa ormai debole. La politica odierna non ha perso la propria scaltrezza, né la tendenza all’uso spregiudicato del potere, ma è una politica debole. Emerge chiara nel nostro tempo la sensazione che le forze politiche siano come stordite, impegnate a rincorrere, un po’ a caso, la domanda politica caotica dei cittadini, senza essere in grado di elaborare un’offerta politica ragionata, seria, responsabile: ossia capace di mettere in connessione i desideri non ridotti – che chiamerei esigenze – dei cittadini con la realtà, in un’ottica di bene comune e non di semplice acquisizione del potere nel breve termine.

Tuttavia, sia nello scenario in cui la politica schiaccia la società che in quello dove la politica scaltra ma debole insegue una società che ricorda la “grande omologazione” di Pasolini, viene meno un corretto rapporto dialogico fra forze politiche e cittadinanza. In entrambi i casi, la politica non è “la forma più compiuta di cultura” che ha come propria “preoccupazione fondamentale l’uomo”. In entrambi i casi viene meno la funzione educativa della politica, che non ha nulla a che fare con l’indottrinamento, ma che consiste nella costruzione e nel mantenimento di un rapporto di rappresentanza profondo e cosciente, basato sull’elaborazione di politiche che siano innervate da valori e ideali. Se la politica è cultura, non può essere svincolata da una dimensione educativa, che però va correttamente intesa. Non si tratta di appaltare l’educazione del popolo alla politica, ma di comprendere correttamente la delicata dinamica che la politica dovrebbe instaurare con la società. Educazione, infatti, non è ammaestramento, bensì incontro di due libertà, di due discernimenti, reciproco ascolto e reciproca comprensione all’interno di un rapporto in cui tuttavia i ruoli e le responsabilità sono diverse. In un rapporto educativo, un soggetto guida responsabilmente e fornisce all’altro gli strumenti per decidere liberamente se seguire o meno. Una guida responsabile ha un’ipotesi di lavoro, parte da una propria proposta ispirata al bene dell’altro, non a un progetto di potere sull’altro. Una guida responsabile introduce l’altro alla propria proposta, che però è appunto un’ipotesi, non una legge né una conclusione. Si tratta, certamente, di una dinamica impegnativa, che in definitiva può essere posta in atto solo all’interno di un orizzonte di amore per l’altro, sia esso il proprio figlio, il proprio studente, il cittadino che si vuole rappresentare. Non serve un grande sforzo analitico per misurare la distanza di questa prospettiva dall’approccio prevalente dell’attuale classe politica, che in molti Paesi ondeggia pericolosamente fra il plebiscitarismo e l’autoreferenzialità, in ogni caso incapace di vero dialogo.

“Nell’appiattimento del desiderio – dice Giussani – ha origine lo smarrimento dei giovani e il cinismo degli adulti; e nell’astenia generale l’alternativa qual è? Un volontarismo senza respiro e senza orizzonte, senza genialità e senza spazio, e un moralismo d’appoggio allo Stato come ultima fonte di consistenza per il flusso umano. Una cultura della responsabilità deve mantenere vivo quel desiderio originale dell’uomo da cui scaturiscono desideri e valori: il rapporto con l’infinito, che rende la persona soggetto vero e attivo nella storia.”[25] Giussani individua dunque in una cultura della responsabilità che abbia a cuore la natura profonda dell’uomo e i suoi desideri non ridotti (ossia le sue esigenze) la via d’uscita dallo smarrimento. Papa Francesco nell’Evangelii Gaudium sembra esplicitare un metodo per rendere concreta la cultura della responsabilità di cui parla Giussani. E’ pertanto possibile (non solo doveroso) non arrendersi, ed esiste una via per agire diversamente in politica: si tratta di un metodo fondato su quattro principi che non si rivolgono solo ai cristiani, ma che creano un ponte verso i non credenti.

  • Il tempo è superiore allo spazio. Si tratta di un principio fondamentale, che ci interroga singolarmente e ha molto a che fare con il rapporto che ciascuno di noi ha con il potere. Lo spazio è presenza, ma chi privilegia l’occupazione e il riempimento degli spazi rispetto alla costruzione di processi, l’oggi rispetto al domani, ha un problema con il potere. Inoltre, dare valore al tempo libera dall’ossessione di dover cambiare radicalmente il mondo oggi, e dalla presunzione di poterlo fare. Per il cristiano che opera in politica, riconoscere il valore del tempo significa ammettere che il compimento di ciò che inizia attraverso di lui dipende da un Altro; per tutti significa pensare e operare con un orizzonte che vada oltre la propria vicenda personale.
  • L’unità prevale sul conflitto. Il che non significa negare l’esistenza del conflitto, ma una cosa è accettare l’esistenza del conflitto, un’altra è fermarsi alle logiche conflittuali o addirittura compiacersene e ricercarle. La politica di cui abbiamo bisogno di fronte al conflitto ricerca soluzioni creative, sviluppa una comunione nelle differenze.
  • La realtà è più importante dell’idea. Dice Giussani: “Le caratteristiche di opere generate da una responsabilità autentica devono essere realismo e prudenza. Il realismo è connesso con l’importanza del fatto che il fondamento della verità è l’adeguazione dell’intelletto alla realtà.”[26] Dunque, l’ipotesi di cui parlavamo sopra, la proposta politica, deve essere elaborata partendo dalla realtà, e per partire dalla realtà è necessario prima conoscerla, fare la fatica di conoscerla. L’idea coglie e dirige la realtà, ma non può mai prescinderne. Non solo non può prescinderne nel momento della formulazione dell’ipotesi, della proposta, ma neppure in seguito. La politica deve dialogare con la realtà, con le persone, con le comunità. D’altra parte, l’idea – ossia l’ideale – deve innervare la proposta, poiché altrimenti la rappresentanza diventa contigua al clientelismo.
  • Il tutto è superiore alla parte. E’ un invito a evitare i particolarismi, gli egoismi, i localismi, ma allo stesso tempo a non dimenticarsi della prossimità. Una politica responsabile che abbia veramente a cuore l’uomo deve partire dalla prossimità, ma non fermarcisi, non restarne prigioniera. Si tratta di lavorare nella prossimità con uno sguardo ampio, sul tutto.

 

Se questo è il metodo, qual è il contenuto? Tre concetti mi paiono di estrema importanza e mi sembra che emergano sia dalle parole di Giussani che da quelle di Papa Francesco, mentre oggi risultano un po’ dimenticati, oppure distorti. Mi riferisco ai concetti di libertà, solidarietà e comunità. Dice Giussani: “È quindi nell’impegno con questo primato di libera e creativa socialità di fronte al potere, che si dimostra la forza e la durata della responsabilità personale. È nel primato della società di fronte allo Stato che si salva la cultura della responsabilità. Primato della società, allora, come tessuto creato da rapporti dinamici tra movimenti, che creando opere e aggregazioni costituiscono comunità intermedie e quindi esprimono la libertà delle persone potenziata dalla forma associativa.”[27] Postulando il primato della società sullo Stato, Giussani non pensa alla società atomizzata che fa così comodo a chi detiene il potere, composta da individui soli, disorientati e un po’ rancorosi, abbandonati a un egoismo spacciato per libertà e guidati da una personale e quasi fisiologica miopia. Piuttosto, si tratta della società che si fonda su un’idea di comunità, o meglio di una società che si fonda sull’esistenza di comunità intermedie.

È necessario qui soffermarsi un attimo e osservare che non stiamo parlando di un semplicistico primato della cosiddetta società civile sulla politica, bensì di difendere e promuovere una società intesa come insieme di comunità rispetto allo Stato. In questa prospettiva esiste pertanto un ruolo specifico per la politica, la quale non è soppiantata da altro, neppure dalla società civile, che in alcune stagioni del nostro Paese è stata, spesso strumentalmente, considerata la cura per i mali della politica. Sostituire la società civile alla politica non risolve miracolosamente i problemi della politica, ma la politica non è buona politica senza un rapporto vivo e fecondo con le comunità intermedie che si trovano nella società. Ma perché le comunità intermedie sono importanti? E perché lo è anche la politica? Ossia, perché c’è un ruolo per la politica?

Giussani spiega il motivo per cui le comunità intermedie sono importanti, ma più esplicitamente possiamo dire che esse sono preziose perché sposano libertà e solidarietà, libertà e responsabilità, libertà e comunità. Nella dimensione delle comunità intermedie si rendono concreti e si combinano costruttivamente i valori che oggi scarseggiano nell’approccio prevalente alla politica, e non pare dunque un caso che scarseggi un vero dialogo fra politica e comunità intermedie, per non parlare di una vera valorizzazione di queste ultime, soprattutto al livello della politica nazionale. Tali comunità sono essenziali in una società perché rappresentano il luogo, la forma, la dimensione in cui la libertà dell’uomo si gioca in modo costruttivo. Esse costituiscono e sorreggono un tessuto sociale vivo, allo stesso tempo coeso e pluralista. Non è certo un caso che nel corso della storia ogni forma di autoritarismo abbia soppresso il libero associazionismo, che i partiti di massa abbiano cercato di selezionare e cooptare strumentalmente le comunità intermedie e che il leaderismo imperante nella politica contemporanea le ignori o le ostacoli. Le comunità intermedie hanno dunque strutturalmente e collettivamente delle caratteristiche e delle funzioni che ne fanno un bene prezioso per la società, che deve essere valorizzato dalla politica. Arriviamo così al motivo per cui permane un ruolo autonomo della politica da questo punto di vista, o anche da questo punto di vista. Essa deve valorizzare le comunità intermedie ma anche mediare fra queste e il bene comune. Anche le comunità intermedie, infatti, sono organizzazioni, e funzionano con le logiche tipiche delle organizzazioni. In estrema sintesi si potrebbe dire che anche le comunità intermedie “sono fatte da uomini”. Sta alla politica, dialogando con le comunità intermedie, senza affossarle né ignorarle, individuare e perseguire il bene comune, che comprende le comunità intermedie, ma non si identifica né si limita a nessuna di esse.

Avviandoci alla conclusione, ritengo sia importante toccare un ultimo punto, ossia i pericoli della politica. Alcuni emergono chiaramente dai quattro principi metodologici, o dalle quattro tensioni, di cui parla l’Evangelii Gaudium. Altri sono non meno gravi, né meno noti: li potremmo chiamare il rischio della gestione, dell’abitudine al potere, della dipendenza dal potere. Il potere è indispensabile per operare nella società, ma va maneggiato con cura. Nel recente passato probabilmente non si è riflettuto abbastanza su due questioni, su due relazioni di carattere probabilistico che emergono dalla storia e che vale la pena tenere ben presenti. Prima di tutto, il potere tende a essere usato in modo sbagliato più facilmente (sia in maniera intenzionale che in maniera non intenzionale) dopo tanto che lo si esercita. In secondo luogo, il potere tende a essere utilizzato in modo distorto più facilmente se si hanno poche alternative di vita valide alla politica (o se non se ne hanno affatto). A questo proposito, Giussani sostiene che quanto più il potere è servizio, “tanto più esiste un’umanità felice.”[28] Per porsi in questa prospettiva – aggiungo io – il potere deve in definitiva essere guidato dall’amore. Il potere rettamente inteso è servizio. “Il potere – sostiene Giussani – si giudica sintomaticamente, se vive il principio di sussidiarietà [di aiuto all’uomo] o se è prepotenza”[29] e ricorda: “Il Papa [Giovanni Paolo II] ha detto in un discorso  che è meglio morire piuttosto che perdere la propria umanità. La propria umanità è persa quando il potere ti determina pensieri e sentimenti.”[30]

Il corretto utilizzo del potere in politica è anche strettamente connesso al principio di democrazia, inteso come “senso dell’uomo perché è, considerazione, rispetto e affermazione dell’uomo perché è.[31] “Un governo della cosa pubblica che si ispiri al concetto cristiano di convivenza – prosegue Giussani – avrà come ideale il pluralismo. Le trame, cioè, della vita sociale dovranno rendere possibile l’esistenza e lo sviluppo di qualunque tentativo d’espressione umana”.[32] Sono passaggi forti, chiari e molto importanti. Vale la pena sottolineare che il pluralismo non va confuso con il relativismo. Il pluralismo non è equiparazione del tutto o cancellazione delle differenze, ma accettazione del diverso fondata sull’amore all’altro e concretizzata nel dialogo. Abbiamo visto a più ripreso che il dialogo è uno strumento prezioso, potremmo dire indispensabile, in politica. È così anche nelle relazioni fra cristiani e non credenti. I cristiani devono informare, rendere fertili la cultura e la politica con la Fede, ma non aver bisogno di giustificare la politica in base alla Fede. La Fede non va dimenticata, ma i cristiani in politica devono essere autenticamente laici, ossia capire come la Fede aiuti a individuare la verità delle cose, così da poterla rendere intelligibile ai non credenti e costruire insieme il bene comune. “È un cammino nient’affatto facile, ma duro come del resto il cammino di ogni verità nella vita. Ma bisogna non aver paura, anche in questo caso, di quello che diceva il Santo Evangelo: Chi si tiene strette le sue cose, la sua vita, le perderà e chi darà in nome di Cristo la sua vita, la guadagnerà””.[33]

 

[1] L. Giussani (2000), L’io, il potere, le opere. Contributi da un’esperienza,  Genova, Marietti 1820.

[2] A. Del Noce,  Ascoltiamo quell’uomo, in A. Del Noce (1998), Cristianità e laicità. Scritti su “Il Sabato” (e vari, anche inediti), a cura di F. Mercadante-P. Armellini, Milano, Giuffrè, pp. 117-121.

[3] Di rilievo risultano, per un approfondimento di questi temi e per una valutazione dei tentativi di presenza sociale e politica sviluppatasi già dagli anni’70 proprio a partire dall’impostazione esposta ad Assago (sulla linea del magistero sociale della Chiesa): L. Giussani (2000), L’io, il potere, le opere, pp. 171-213  e L. Giussani (2014),  Il movimento di Comunione e liberazione (1954-1986), conversazioni con R. Ronza, Milano, Bur, pp. 132-161 e pp. 210-220.

[4] Cfr. soprattutto A. Del Noce (1994), I cattolici e il progressismo, Milano, Leonardo.

[5] R. Guardini (1984), La fine dell’epoca moderna. Il potere, Brescia, Morcelliana, pp. 109-217.

[6] Cfr. V. Belohradsky (1986), L’epoca degli ultimi uomini, in “L’Altra Europa”, 6, pp. 5-24.

[7] L. Giussani (2000), L’io, il potere, le opere, p. 168.

[8] Sull’argomento mi permetto di rimandare a M. Rosboch a cura di (2017), Le comunità intermedie e l’avventura costituzionale. Un percorso storico-istituzionale, Torino, Heritage Club.

[9] In tutt’altro contesto l’espressione è stata significativamente richiamata da Paolo Grossi: ad esempio, P. Grossi (2015), Ritorno al diritto, in specie pp. 3-32 ; lo stesso Autore richiama espressamente il contributo di Giussani a proposito dell’idea di libertà quale esemplare dello “scavo riflessivo della teologia cattolica”: Grossi (2007), Mitologie giuridiche della modernità, Milano, Giuffrè, pp. 153-154.

[10] Fra i moltissimi richiamo l’originale approccio di L. Antonini-G. Lombardi, La difficile democrazia. La speranza della sussidiarietà, in Un “io” per lo sviluppo, (2005), a cura della Fondazione per la Sussidiarietà, Milano, Bur, pp. 25-71.

[11] L. Giussani (2000), L’io, il potere, le opere, p. 170.

[12] L. Giussani (2000), L’io, il potere, le opere. Contributi da un’esperienza, p. 165.

[13] Ivi, p. 170.

[14] Ivi, p. 169.

[15] Il riferimento, qui, è alle tensioni seguite alla nomina di Matteo Renzi a Palazzo Chigi al posto di Enrico Letta, nel gennaio 2014. Tensioni che tre anni dopo, quando è stato pronunciato questo intervento (giugno 2017), anziché sopirsi si erano se possibile acuite.

[16] Emmanuel Macron ha vinto le Presidenziali francesi e ha successivamente trionfato alle Politiche del 2017 con il movimento “En marche”, da lui fondato appena un anno prima.

[17] Nella edizione on line dal sito W2.vatican.va

[18] Discorso ai partecipanti al III Meeting per l’amicizia tra i popoli, 2, 29 agosto 1982, in: W2.vatican.va

[19] Cfr. L. Giussani (2000), L’io, il potere, le opere, p. 178.

[20] Cfr. R. Guardini (1984), La fine dell’epoca moderna. Il potere, p. 129.

[21] Incontro con le Comunità di vita cristiana (CVX) e la Lega missionaria studenti d’Italia, 30 aprile 2015, in: W2.vatican.va

[22] L. Giussani (2000), L’io, il potere, le opere. Contributi da un’esperienza, p. 166.

[23] Ibidem.

[24] Ibidem.

[25] L. Giussani (2000), L’io, il potere, le opere, p. 168.

[26] L. Giussani (2000),  L’io, il potere, le opere, p. 169.

[27] Ibidem.

[28] L. Giussani (2000), L’io, il potere, le opere, p. 176.

[29] L. Giussani (2000), L’io, il potere, le opere, p. 177.

[30] L. Giussani (2000), L’io, il potere, le opere, p. 178.

[31] L. Giussani (2000) L’io, il potere, le opere, p. 179.

[32] L. Giussani (2000),  L’io, il potere, le opere, p. 181.

[33] L. Giussani (2000), L’io, il potere, le opere, p. 170.

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