“La sfida dell’immigrazione alla tenuta delle democrazie occidentali” di Fabio Ciaramelli

Il fondamento politico della democrazia

 

Leggendo l’ultimo libro di Geminello Preterossi sulla necessità di rivitalizzare il fondamento politico della democrazia[1], mi sono venute in mente le osservazioni che facevano una ventina d’anni fa Eric Hobsbawm e Ralf Dahrendorf in due interviste per dir così parallele concesse ad Antonio Polito: entrambi vedevano una minaccia per la democrazia nel superamento degli Stati[2], mettendo oggettivamente in discussione l’ottimismo dei teorici dello «spazio giuridico» sovra-statuale: penso soprattutto a Sabino Cassese e al suo fortunato libro sullo «spazio giuridico globale» da lui celebrato e valorizzato proprio perché portatore d’una razionalità e d’una tenuta indipendenti dalla democrazia politica, dal momento che la sua legittimazione, prescindendo dall’instabilità del consenso popolare, può affidarsi esclusivamente alle procedure giuridiche. In questa prospettiva, la «legittimazione attraverso il diritto», proprio perché sottratta alla politica e alla mutevole e talora irresponsabile ricerca del consenso che la muove, sarebbe l’unica garanzia dell’ ordine democratico[3].

In realtà, la democrazia non si riduce e non può ridursi al fatto che le decisioni politiche siano prese dalle maggioranze e perciò basate sul consenso popolare. Infatti, non tutte le prese di posizioni che s’avvalgono d’una legittimazione maggioritaria sono, per ciò stesso, «democratiche». La legge dei numeri, alla base del consenso popolare, non può essere l’unico criterio della democrazia, tanto più in un’epoca di crisi economica come quella che stiamo attraversando. Il riconoscimento della legittimazione attraverso il diritto prende le mosse dal rischio nient’affatto peregrino di decisioni che, avvalendosi della legittimazione attraverso il consenso, si rivelano lesive dei diritti delle minoranze.   Nulla esclude che le decisioni delle maggioranze, per quanto valide dal punto di vista procedurale, manifestino assenza o debolezza di comunità politica. E la politica è la premessa e non la conseguenza della democrazia. Senza la costruzione d’una comunità politica, senza la consapevolezza vissuta e condivisa di un’appartenenza comune, non c’è neanche vera democrazia.

 

 

La questione dell’immigrazione e le sue ricadute sulla democrazia contemporanea

 

Una delle principali difficoltà che incontra oggi il processo di politicizzazione o ripoliticizzazione delle decisioni democratiche nelle società occidentali avanzate è rappresentata dall’immigrazione. Nel seguito di queste pagine, vorrei perciò concentrarmi sulle implicazioni complessive di questo fenomeno epocale che sta mettendo in crisi la tenuta delle democrazie contemporanee.

Dietro ai tanti problemi giuridici, economici, sociali e psicologici che comporta l’arrivo massiccio di stranieri entro i confini dell’Occidente, è riconoscibile l’irruzione della pluralità di mondi estranei e diversi che viene a interrompere o sconvolgere l’unità (o la presunta unità) del mondo proprio. Ma questa irruzione dell’estraneo è anche l’occasione per scoprire che il mondo proprio non è così unitario, così familiare, così intimo e accogliente come di primo acchito si supporrebbe o si vorrebbe supporre. Il tema fondamentale su cui vorrei richiamare l’attenzione è dunque il seguente: tra il proprio e l’estraneo c’è una contaminazione, una sovrapposizione, un intreccio originario. L’immigrazione – il massiccio arrivo di estranei entro i confini del proprio – abolendo la distanza spaziale tra «noi» e gli altri o i diversi, fa emergere la verità di questa compresenza pre-giuridica e pre-politica.

 

 

 

Multiculturalismo e diniego ideologico della pluralità delle culture

 

Consapevole dell’estrema complessità di queste tematiche e delle loro incessanti modificazioni, procederò per tappe d’approssimazione parziale, cominciando col precisare che intendo analizzare qualche aspetto del tema dell’immigrazione in una prospettiva interculturale e non multiculturalista. La distinzione tra multiculturalismo e interculturalità rinvia a un’importante differenza non solo terminologica, ma anzitutto concettuale.

Una decina di anni fa, Il Mulino pubblicò un volume curato da Carlo Galli dal titolo Multiculturalismo; in quest’opera, secondo me ancora attuale, si distingueva il dato di fatto del pluralismo culturale, che nelle società occidentali avanzate comporta la multiculturalità, dall’ideologia multiculturalista. Per multiculturalismo deve intendersi non già la presa d’atto della compresenza in uno stesso territorio di gruppi etnici e religiosi che si richiamano a culture differenti, ma la pretesa normativa consistente nella valorizzazione della loro separazione e reciproca irriducibilità che finisce per negare l’esistenza e la rilevanza d’uno spazio pubblico comune, come luogo di mediazione e collaborazione tra le differenze culturali. In questo senso, come ha scritto Francesca Rigotti, «il multiculturalismo è un modo per raccontare le cose e un modo per desiderarle. È una descrizione e una norma, un fatto e un ideale»[4].

Le ricadute del multiculturalismo tendono perciò a irrigidire le culture nella loro presunta identità predeterminata. In quanto versione normativa della multiculturalità, la pretesa teorico-ideologica del multiculturalismo consiste nell’approfondire e salvaguardare la separazione e l’irriducibilità delle differenze culturali. In altri termini, in ragione della loro presunta identità esclusiva, le culture andrebbero tenute a debita distanza l’una dall’altra, evitando la contaminazione, perché ciascuna di esse risulterebbe intrinsecamente costituita e caratterizzata da un attaccamento immediato all’origine del proprio – e questa sua purezza andrebbe difesa ed esaltata. Inoltre, una simile appartenenza identitaria avrebbe la prevalenza sull’autodeterminazione degli individui che le costituiscono. In questa visione, ciascun gruppo umano avrebbe un’immediata propensione a considerare la propria costituzione identitaria come qualcosa che non costituisca l’effetto di un processo storico né tantomeno la conseguenza d’una serie di alterazioni sociali, ma invece l’espressione diretta d’una mitica purezza originaria. La pretesa che il proprio sia portatore di una sua intimità ontologica al riparo da ogni contaminazione è alla base delle ideologie identitarie, secondo le quali ogni gruppo etnico, nazionale, religioso deve salvaguardare la sua specificità senza tollerare alcuna ibridazione che minaccerebbe l’appartenenza identitaria al proprio.

I modelli normativi attraverso i quali viene gestito il dato di fatto della convivenza di gruppi culturali ed etnici differenti all’interno delle società avanzate sono molteplici. I due modelli più conosciuti sono quello francese e quello anglosassone. Il primo può essere definito monoculturale, il secondo multiculturalista. Nel modello francese, la dimensione giuridico-politica, accentrata nello Stato laico e unitario, riconosce diritti uguali ai singoli cittadini, senza tenere alcun conto delle loro specifiche diversità etniche, culturali e religiose. Il modello monoculturale propende per l’integrazione assimilatrice degli individui nello spazio pubblico delle istituzioni repubblicane. Nel modello multiculturalista di tipo anglosassone vengono viceversa riconosciuti ampi margini di autonomia alle molteplici entità etnico-culturali. In questo caso, il contenuto normativo da istituire e salvaguardare non è più l’assimilazione ma la differenza multiculturale.

Può essere utile riportare una sintetica descrizione dei due modi opposti di rapportarsi alle identità culturali. «Il modello assimilazionista espelle le diversità culturali etniche e religiose dalla sfera pubblica e forza gli immigrati ad adattare la loro cultura a quella maggioritaria. Gli individui hanno uguali diritti e doveri, indipendentemente dalla loro appartenenza etnica, culturale, religiosa e sono uniti da un contratto sociale in cui sono definiti i valori universali che ognuno è deputato a custodire e riprodurre. Il principio di laicità definisce rigidamente la separazione tra religione e stato». Tutti gli individui sono liberi di professare qualunque religione nei luoghi privati, ma sulla scena pubblica i riferimenti alla religione devono scomparire e tutti sono uguali davanti alla legge. «Le identità particolari, comprese quelle religiose, riguardano la sfera privata e non godono di alcun riconoscimento. Nessun gruppo etnico può ricevere trattamenti speciali». Le cose cambiano completamente nel multiculturalismo, nel cui «modello pluralista, adottato in Europa dalla Gran Bretagna, la differenza culturale è riconosciuta pubblicamente: la scena pubblica è occupata dalle identità particolari; l’identità etnica e religiosa si affianca a quella nazionale. Ai cittadini e agli immigrati non viene richiesto l’abbandono della propria identità culturale in cambio dell’integrazione o dell’accesso ai diritti. Il legame sociale è prodotto dall’azione delle diverse comunità, talvolta in aperta e aspra competizione tra loro per imporre la propria cultura alla società. La riproduzione delle differenze culturale e identitaria può avvenire mediante politiche che favoriscono un approccio multiculturalista. Possono essere adottate anche politiche di ‘discriminazione positiva’, che introducono trattamenti preferenziali per gruppi dalle identità specifiche al fine di combattere l’esclusione e favorire l’integrazione. […] I diritti sono pensati in funzione dell’appartenenza dell’individuo alla comunità e riconosciuti come tali»[5].

È doveroso aggiungere, sia pur solo di passaggio, che un modello italiano semplicemente non esiste. Da noi, anche su questo piano, si naviga a vista.

 

 

 

L’interculturalità e l’intreccio di proprio ed estraneo

 

Quando si parla di interculturalità[6], s’intende sottolineare l’impossibilità di considerare l’identità delle culture come un dato sostanziale ed esclusivo; s’intende quindi insistere sulla dimensione relazionale che costituisce ciascuna cultura in quanto «spazio simbolico». Questa considerazione acquista particolare rilevanza in una fase storica come la nostra, che toglie stabilità e rigidità ai confini e ai punti di riferimento tradizionali, ma che provoca per reazione l’arroccamento a una difesa delle identità che le irrigidisce, trasformandole da fenomeni storico-sociali in dati naturali. Le culture finiscono in tal modo con l’apparire come organismi omogenei e contrapposti, forniti d’una fisionomia specifica, di cui è quasi irriconoscibile la genesi, cioè il concreto processo sociale e storico di formazione.

Lo specifico del mito, scriveva Roland Barthes in Miti d’oggi, è trasformare la storia in natura[7]. In questo senso, si diffonde oggi una visione mitologica delle culture che tende a «naturalizzarne» le caratteristiche, e in primo luogo la stessa «identità» di ciascuna, che finisce col perdere la sua struttura intrinsecamente relazionale e col porsi come autoreferenziale ed esclusiva. Un simile slittamento dalla storia alla natura si ripercuote in una concezione identitaria delle differenze territoriali e delle loro stesse componenti culturali, le quali finiscono col presentarsi come attributi sostanziali e dunque metastorici.

In opposizione a una lettura identitaria delle culture, che inevitabilmente finisce per ridurle a dati naturali, occorre insistere decisamente sulla loro dimensione storico-sociale e di conseguenza sull’inevitabile pluralità delle culture. In tal modo, si esclude di poter determinare in astratto e senza riferimenti all’altro da sé la natura, l’essenza, il senso originario o il destino d’una nozione come la «cultura», capace di evocare una vasta gamma di simboli, tutti però legati alla concretezza dei processi storici. L’interculturalità muove dalla considerazione del dato di fatto che la compresenza di culture differenti all’interno di uno stesso spazio geografico determina inevitabilmente processi di alterazione, contaminazione e ibridazione, a partire dai quali soltanto emerge l’identità del proprio. In tal senso, la relazione con l’estraneo – nella sua portata filosofica – si dimostra strutturalmente costitutiva dell’identità di ciascuna cultura.

 

 

L’originaria contaminazione di proprio ed estraneo

 

Ed eccoci al cuore del problema. L’estraneità, cui ho fatto prima riferimento, non è un dato che emerga dall’esterno come evento legato all’irruzione degli stranieri, ma caratterizza fin dall’inizio l’identità del proprio, in quanto ne costituisce una componente originaria e una dimensione costitutiva. La contaminazione di proprio ed estraneo diventa per noi attuale sicuramente a partire dall’esperienza dell’immigrazione; quest’ultima costituisce un tema non completamente inquadrabile in una prospettiva giuridica, poiché ad essa precedente. In questo senso, l’elemento pre-giuridico da cui prendere le mosse è proprio il dato nuovo, recente, dei drammatici sconfinamenti di cui leggiamo ogni giorno sui giornali. C’è da aggiungere che il nostro Paese, da terra di emigrazione è diventato, ma solo da un certo numero di anni, luogo di immigrazione. Il dato congiunturale in esame, cioè l’irruzione continua di gruppi numerosi di stranieri, è l’occasione per ricordare che il nostro mondo proprio, a noi familiare e intimo, non era poi così accogliente; almeno non lo era, per quelli dei nostri che, in un passato non certo molto lontano, ma che s’ha tendenza a rimuovere, furono spinti a partire, pieni di angosce e speranze, proprio come gli stranieri che oggi approdano dalle nostre parti. Insomma, tra il proprio e l’estraneo emerge fin dall’inizio una contaminazione, un intreccio o una sovrapposizione. I migranti, abolendo la distanza spaziale tra noi e gli altri, o tra noi e i diversi, fanno venire a galla il dato strutturale – la verità –  di questa originaria compresenza.

 

 

La paura dell’estraneo e il disagio del proprio

 

La filosofia contemporanea di ispirazione fenomenologica, facendo propria l’impostazione dell’antropologia psicoanalitica, fa tesoro di questo intreccio, di questa costitutiva contaminazione, e aiuta a mettere  a fuoco le radici psichiche e sociali della xenofobia: il luogo in cui si radica e da cui emerge la paura dell’estraneo va individuato esattamente nel preliminare disagio del proprio[8]. Le radici della xenofobia sono dunque la non accettazione – più precisamente la negazione difensiva, il disconoscimento o il diniego – della stessa stratificazione che caratterizza il proprio, indipendentemente dall’evento congiunturale della vicinanza più o meno minacciosa di un numero maggiore o minore di stranieri.

Per delucidare questa congiuntura occorrerebbe indagare le radici storico-sociali e psichiche di detti fenomeni, il che ovviamente qui non è possibile. Tuttavia, vorrei sottolineare che l’analisi dei casi concreti in cui di fatto si realizza il contatto, il confronto, talora lo scontro con gli estranei, è decisiva. In ogni caso, a monte delle diverse occasioni che favoriscono o impediscono l’intesa intersoggettiva e sociale, c’è l’intreccio inevitabile tra le due dimensioni dell’esperienza, ossia tra ciò che si vive come estraneo e ciò che di converso s’avverte come proprio. L’ambiguità della presenza dell’estraneo nel cuore del proprio, presenza che si rivela contemporaneamente affascinante e minacciosa, impone una presa di distanza dalle scorciatoie politiche che oscillano tra la demonizzazione degli stranieri – che si vorrebbero d’incanto abolire – e la minimizzazione degli enormi problemi economico-sociali e politici che la loro massiccia presenza comporta, e che è molto più comodo fingere di ignorare, invece di darsi la pena di provarsi a risolvere. L’esperienza comune nella sua quotidianità insegna che l’assenza di un’intesa totale non impedisce la formazione di compromessi più o meno onorevoli che rendano possibile la convivenza. Questo dato della necessità di compromessi viene nascosto surrettiziamente, tanto dalle prospettive catastrofiste della demonizzazione, quanto dalle prospettive della retorica buonista, che propendono per una minimizzazione apriori dei pericoli e delle minacce.

 

 

Linee essenziali d’una fenomenologia dell’estraneo

 

Facevo riferimento poc’anzi alla nozione di estraneità, sostenendo che la fenomenologia e la psicoanalisi ne scoprono la presenza e la rilevanza all’interno stesso della costituzione del proprio e dell’identità. In tal senso, l’estraneo, o l’estraneità, deve essere distinto dall’altro, o dall’alterità; l’altro (heteron, in greco) già in Platone è uno dei massimi generi dell’essere. La distinzione ontologica tra il medesimo (autos) e l’altro è ricca di implicazioni etiche. È invece sprovvista d’una base ontologica – e non rimanda a una differenza oggettivabile di contenuto – la distinzione tra il proprio e l’estraneo, che attraversa dall’interno l’esistenza umana, radicando in tal modo l’indispensabile dimensione sociale di quest’ultima nel solco dell’intersoggettività come Erlebnis, cioè come senso vissuto. Non a caso, proprio in virtù della sua attenzione al vissuto, la fenomenologia di Husserl, soprattutto nella quinta delle sue Meditazioni cartesiane, ha messo al centro della riflessione sull’intersoggettività, prima ancora del rapporto tra il medesimo e l’altro, la tensione fra il proprio e l’estraneo.

Quando la fenomenologia con Husserl parla di proprio ed estraneo non fa riferimento ai generi sommi dell’essere, ma ad un evento che coinvolge il vissuto soggettivo in cui una dimensione che gli resiste e non si lascia dominare, risulta essere tuttavia qualcosa di cui lo stesso vissuto soggettivo non può fare a meno, qualcosa a cui risulta inestricabilmente intrecciato. L’estraneità dell’estraneo, a differenza dell’alterità dell’altro, è qui caratterizzata dall’assenza di una distanza spaziale. L’estraneo, dunque, non è necessariamente al di fuori del proprio, mentre l’alterità dell’altro che si contrappone al cerchio del medesimo occupa uno spazio esterno a quest’ultimo, cioè si situa al di fuori di esso. Quando Platone contrappone ontologicamente autos e heteron, intende prendere le distanze da Parmenide, il quale concepiva l’essere come una pienezza originaria, cioè come una sfera unitaria contenente l’insieme della realtà e quindi al di fuori della quale non c’era – non poteva esserci – niente. Platone modifica tale concezione e pensa a una dimensione ancora ontologica, ancora reale, ma esterna al medesimo, altra da esso. L’alterità si situa dunque al di fuori del cerchio del medesimo.

Viceversa quando la fenomenologia, negli stessi anni in cui sorge e si sviluppa la psicoanalisi, parla di proprio ed estraneo, si riferisce a un’esperienza vissuta in cui entriamo in rapporto con una dimensione intersoggettiva che non dominiamo pienamente, ma che non si situa al di fuori dell’esperienza vissuta. Parlando di estraneità ci si riferisce a una dimensione e a un’esperienza che non possiamo espungere al di fuori dei vissuti che ci coinvolgono; al contrario, l’intendiamo come qualcosa in cui ci imbattiamo, che inevitabilmente ci colpisce, benché non sia direttamente accessibile a noi stessi, benché quindi non sia pienamente dominabile.

Se rispetto al medesimo, l’alterità dell’altro appare caratterizzata da determinazioni ontologiche e quindi relative al suo contenuto, la fenomenologia insegna a cogliere lo specifico dell’estraneo interrogando il modo stesso in cui vi si può accedere. Nasce da qui l’estremo interesse della definizione husserliana: «Il carattere d’essere dell’estraneo si fonda su questo processo in cui l’originalmente irraggiungibile è raggiunto confermativamente [Art bewährbarer Zugänglichkeit des original Unzugänglichen[9]. In questa definizione il carattere d’essere dell’estraneo è determinato solo attraverso il peculiare modo della sua accessibilità. L’elemento decisivo è che questa accessibilità o raggiungibilità è solo indiretta perché l’estraneo si sottrae a una cattura totale. Perciò risulta estraneo ciò che per definizione e per principio non si dà «in carne e ossa», non si lascia percepire e assorbire dal soggetto che ne fa esperienza. È qui in gioco una forma singolare di accessibilità che ha per oggetto ciò che resta originalmente inaccessibile.

L’estraneità non va dunque confusa con l’alterità o con la diversità, le quali ultime hanno per dir così un contenuto ontologico. Come osserva Waldenfles, mele e pere, vino e birra, carne e pesce sono senz’altro cose diverse tra loro: ma non avrebbe alcun senso dire che le prime siano estranee alle seconde[10]. D’altro lato, viceversa, l’esistenza umana è intessuta di estraneità: l’estraneità di un ospite, quella di una lingua o di una cultura straniera, così come l’estraneità dell’altro sesso non si basano sulla differenza di contenuto oggettivo tra il sé e l’altro né si riducono in alcun modo al fatto che qualcosa o qualcuno sia o si mostri diverso. Qui l’estraneità consiste solo nel modo sempre indiretto in cui il proprio vi accede.

Quando c’è estraneità, dunque, un ambito di esperienza si sottrae all’accessibilità diretta, perché sfugge alla sfera di appartenenza del proprio, non si lascia ingabbiare in esso. Precisa Waldenfles: «L’opposizione fra proprio ed estraneo non scaturisce da alcuna mera definizione, ma da un processo di inclusione ed esclusione: io sono là dove tu non puoi essere e viceversa»[11]. Prima della occasionale distribuzione di ruoli tra il proprio e l’estraneo, non c’è dunque alcun ordine universale, in riferimento al quale una volta per tutte i due poli potrebbero determinarsi in modo univoco e reciproco. L’estraneità rigorosamente intesa – all’opposto dell’alterità, intrinsecamente caratterizzata da una dimensione contenutistica di esteriorità – si rivela innanzitutto interna al proprio, dal momento che nulla potrebbe dirsi proprio se non in riferimento a un estraneo che gli si sottrae.

 

 

Freud e il carattere perturbante dell’estraneo

 

L’estraneità del proprio, alla quale è pervenuta la descrizione fin qui condotta, costituisce, per dir così, il «nome fenomenologico» dell’inconscio freudiano. Si tratta, cioè, d’una dimensione che fa parte dell’identità soggettiva, che si situa al suo interno, alla quale, però, quest’ultima non ha un accesso trasparente, tanto che non riesce a padroneggiarla, ma non può neanche dire che si tratti d’una dimensione ad essa talmente esterna da non avervi alcun rapporto. Al contrario, proprio perché il rapporto persiste, l’inconscio fa problema, rappresentando una dimensione di estraneità che s’insinua – che prende corpo – all’interno stesso del proprio.

E così, nell’antropologia ricavabile dalle analisi di Freud, le due caratteristiche fenomenologiche fondamentali dell’estraneo – la sua inaccessibilità immediata e la sua non appartenenza – si dimostrano paradossalmente costitutive del proprio. La genealogia di quest’ultimo si rivela attraversata dall’estraneità: non da un’esteriorità ontologica, «spaziale», riconducibile a un contenuto determinato, ma dall’impossibilità di attingere nella trasparenza l’origine di sé, cioè esattamente da quell’incapacità di possedersi che induceva Freud a scrivere: «L’Io non è padrone a casa propria»[12].

Il nucleo del perturbante [un-heimlich] al centro del celebre saggio del 1919[13] è esattamente questa dimensione angosciante che proviene dal familiare. Questa esperienza conferma che l’estraneità – a differenza dell’alterità ontologicamente, cioè contenutisticamente, determinata – non può essere confinata o espulsa al di fuori dei limiti del medesimo ma costituisce una dimensione che dall’interno lo inquieta. C’è dunque una vera e propria estraneità del proprio che viene avvertita nel cuore della psiche prima ancora della contrapposizione dialettica tra il medesimo e l’altro, tra l’interno e l’esterno.

Il parallelo con l’analisi fenomenologica è stupefacente. Nella Metapsicologia del 1915 il postulato dell’inconscio, di cui è escluso che possa aversi esperienza diretta, viene formulato in virtù della perfetta legittimità d’un oltrepassamento dell’esperienza immediata, analogo a quello che già compiamo nella percezione dell’altro essere umano.  Scrive Freud:

 

La coscienza trasmette a tutti noi soltanto la nozione dei nostri personali stati d’animo; che anche altre persone abbiano una coscienza, è una conclusione analogica che, in base alle azioni e manifestazioni osservabili degli altri, ci permette di farci una ragione del loro comportamento […] Nel caso degli “altri” a noi più prossimi, gli uomini, la convinzione che essi abbiano una coscienza si fonda su un’illazione, e non può possedere la certezza immediata della nostra coscienza personale. Ora la psicoanalisi non chiede altro che di applicare questo tipo di inferenza anche alla propria persona – procedimento per cui non esiste, per la verità, una inclinazione naturale[14].

 

Nella psicoanalisi freudiana, dunque, è in gioco l’applicazione al proprio di quel modello della percezione per analogia – d’una percezione, cioè, il cui oggetto non può darsi in originale – che la fenomenologia di Husserl riteneva adeguato esclusivamente all’estraneità del vissuto altrui. Il vissuto che ciascuno vive e che perciò gli appartiene, a lui solo è accessibile direttamente, in originale, «in carne e ossa», mentre il vissuto altrui resta estraneo, il che vuol dire che non gli appartiene ma gli è accessibile solo indirettamente o per analogia.

 

 

L’interculturalità come contaminazione di proprio ed estraneo

 

La medesima contaminazione di proprio ed estraneo che caratterizza la vita psichica individuale presiede alla formazione delle culture. Ma anche in questo caso, la rimozione dell’estraneità del proprio comporta l’esaltazione di una impossibile e inesistente purezza identitaria. Quanto più si diffonde la contaminazione storica di proprio ed estraneo, tanto più fortemente le culture rimuovono l’estraneità che le attraversa dall’interno e si presentano come proprietà inalienabili, espressione di identità corazzate e autarchiche. Con la sua denuncia del «gergo dell’identità», che da un bel pezzo ha soppiantato il «gergo dell’autenticità», Waldenfels ribadisce il carattere storicamente istituito delle culture, unica premessa del confronto interculturale, basato sulla loro possibile alterazione. Su queste basi, ciò che chiamiamo «proprio» perde la sua pesantezza ontologica, viene destituito del suo privilegio identitario e si limita a contrassegnare la posizione concreta in cui di volta in volta si radicano le entità individuali e collettive.

Il carattere sorprendente e inquietante dell’esperienza dell’estraneo, che permea di sé molteplici figure dei vissuti quotidiani, si ripercuote sulla nostra propria esperienza e «si traduce in un divenire estranea dell’esperienza stessa». Ed è esattamente questa vera e propria estraniazione del proprio, che lo destituisce della sua identità sovrana e autarchica, e che apre originariamente lo spazio sempre nuovo dell’istituzione storico-sociale.

 

 

 

 

 

Estraneità e a-legalità

 

Concluderò citando un libro recente di Hans Lindahl, un libro a tutti gli effetti di taglio giuridico, che ricorre però all’analisi fenomenologica. Il titolo di Lindahl è Fault lines of Globalization[15], potremmo tradurre «linee di faglia» della globalizzazione. L’opera, che ha quale sottotitolo «Ordinamento giuridico e politica della a-legalità», comincia con la descrizione di una scena di vita vissuta, che acquista un valore emblematico. L’autore e la sua compagna sono a cena in un ristorante olandese, dove a un certo punto entra un migrante: ha l’aspetto del barbone, e nella sua lingua incerta dice al cameriere che ha fame e vuol mangiare. È evidente che non avrebbe di che pagare. Il cameriere non sa che fare, si consulta col maître, ed alla fine lo fanno entrare e sedere ad un tavolo ai margini della sala. Quindi lo strano avventore ordina. Quando gli arriva la portata che ha ordinato, tocca la mano del cameriere e gli dice: «Siediti, mangia con me»; in altri termini, spiazzandolo completamente, lo invita a cena. Il gesto scompiglia l’ordine della quotidianità, la coerenza delle regole. Qui l’irruzione dello straniero come estraneo si distingue dal rapporto con l’esteriorità dell’altro; l’estraneo non è colui che sta fuori, che resta esterno rispetto alla nostra quotidianità, ma al contrario s’insinua nel circolo della nostra esperienza vissuta. La sua estraneità, per quanto essa possa sconvolgere l’assetto ordinario e abituale della legalità, tuttavia non è assimilabile alla illegalità. Quest’ultima, infatti nega la legalità, ne è l’opposto o il contrario. Mentre l’estraneo che sconvolge la legalità non la nega, non vi si oppone, non mira a distruggerla, ma vi si sottrae. In questo sottrarvisi, in questo sfuggirvi, in questo svincolarsi, l’a-legalità dimostra di essere non già l’altro dalla legalità ma il suo estraneo.

Più precisamente, l’illegalità è ciò che l’ordinamento giuridico (Rechtsordnung in tedesco, che Lindahl rende con legal order) considera come suo altro, perché l’illegalità si contrappone alle regole istituite e perciò risulta esterna alle condotte ad esse conformi che l’ordinamento stesso prevede e ratifica. L’estraneo che sopraggiunge nel proprio e che in tal modo sconvolge l’ordine non è in quanto tale portatore di illegalità, ma di uno scompiglio che mette in discussione la regolarità normativamente prevista, non perché vi si opponga con la trasgressione (nel qual caso si verificherebbe l’illegalità), ma perché, sfidando le convenzioni, sospende le regole prestabilite. A-legale non vuol dire illegale, come estraneo non vuol dire altro. A-legale vuol dire sottratto alla prestabilita linearità normativa. E in questo modo l’a-legalità dell’estraneo ci mette in contatto con la genealogia dell’ordinamento giuridico o sistema legale. Infatti, le regole di diritto sono state istituite – come sottolinea il ragionamento del libro – non a partire dalla pienezza di una origine pura, come se l’ordinamento giuridico avesse presupposto una situazione di regolarità normativa già data, bensì muovendo da un’estraneità all’ordine, da un’assenza di legalità, da un «magma» che non si contrappone alla legalità ma, esattamente perché estraneo alla sua stabilità irrigidita, può generarla. L’a-legalità, cioè, non è soltanto ciò che in un determinato momento viene ad interrompere la regolarità e per dir così spariglia le carte, ma è anche l’emergenza di una situazione magmatica, in fieri, in movimento, dalla quale l’ordinamento giuridico stesso deriva.

L’interesse di questa riflessione è che la categoria «topologica» che corrisponde alla a-legalità nella sua estraneità all’ordine non è quella del confine o del limite; in realtà, tanto il confine, che può essere spostato, quanto il limite, che può essere oltrepassato, sono ciò che caratterizza il punto di passaggio, e che quindi rende possibile la transizione dalla legalità all’illegalità. Viceversa, la reciproca estraneità tra legalità e a-legalità è, secondo Lindahl, espressa e salvaguardata dalla linea di faglia, o linea di frattura, ossia da qualcosa che non si può spostare perché si radica nelle radici o profondità «magmatiche» dell’esperienza. La linea di faglia, come simbolo dell’a-legalità, è al di sotto dello spazio nel quale ci muoviamo; rispetto ad essa ci possiamo solo di volta in volta posizionare, ma è escluso che riusciamo a spostarla perché essa costituisce il fondo a partire da cui istituiamo le regole; e quindi non è mai la conseguenza di quelle che abbiamo istituito o trasgredito. La a-legalità, in quanto «irruzione del magma sociale nell’ordinamento giuridico»[16], fa rivivere all’interno di quest’ultimo l’esigenza dell’alterazione radicale delle pretese normative.

Alla luce della fenomenologia dell’estraneo, espressamente richiamata da Lindahl, la categoria di a-legalità può contribuire in modo fecondo a tematizzare la sfida pre-giuridica dell’immigrazione alle democrazie contemporanee.

 

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

 

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[1] Cfr. G. Preterossi, 2015, il cui senso unitario mi sembra ben delineabile raffrontando i titoli dell’Introduzione (Lo spaesamento del presente, VII-XV) e delle Conclusioni (Ripoliticizzare la democrazia, 174-182).

[2] Cfr. E. Hobsbawm, 1999 e R. Dahrendorf, 2001.

[3] Sull’opposizione tra legittimazione attraverso il diritto e legittimazione attraverso il consenso, cfr. S. Cassese, 2003, 10-17 e 87-90. Si vedano anche, dello stesso Autore, i più recenti 2009 e 2016.

[4] F. Rigotti, 2006, 29.

[5] R. Guolo, 2003, 145-146. C’è anche un terzo modello, adottato da paesi come la Germania o il Belgio, che costituisce una variante del modello pluralista. In questo caso vengono riconosciute le identità di gruppi «nazionali» come le minoranze interne, ma non le minoranze immigrate, che viceversa vengono incoraggiate a coltivare la propria cultura originaria in vista di un loro ritorno in patria. In tal modo, di riflesso, viene tutelata l’integrità della cultura autoctona (cfr. Ivi, 147).

[6] Cfr. per esempio B.Waldenfels, 2012.

[7] R. Barthes, 1970, 217.

[8] Di «società del disagio», a proposito dell’Occidente contemporaneo, ha parlato di recente il sociologo francese Alain Ehrenberg: cfr. A. Ehrenberg, 2010.

[9] E. Husserl, 1989, 134.

[10] Cfr. B. Waldenfels, 2008, 27.

[11] Ivi, 54.

[12] S. Freud, 1979 ss., vol VIII, 663.

[13] Cfr. S. Freud, 1979, vol. IX, su cui rimando a F. Ciaramelli, 1994, 15-77 e a F. Ciaramelli 2000, 117 e ss. in particolare al capitolo intitolato «L’irruzione del perturbante».

[14] S. Freud, 1979, vol. VIII, 52-53, corsivo mio.

[15] H. Lindahl, 2014, su cui mi permetto di rinviare a F. Ciaramelli, 2014, 956-964 e in generale all’intero dossier sul libro di Lindahl pubblicato nel n. 2/2014 di Etica & Politica, Ethics & Politics, introdotto da un illuminante dialogo tra Ferdinando G. Menga e lo stesso Lindahl: cfr. F.G.Menga, 2014, 919-939.

[16] H. Lindahl, 2014, 186.

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