Democrazia, Europa, populismo. Riflessioni a partire da “Ciò che resta della democrazia”

Il volume di Geminello Preterossi “Ciò che resta della democrazia” è complesso e problematico, sebbene non aporetico.

E’ un testo equilibrato e dialogico, nonostante  il posizionamento teorico e politico dell’autore, sul quale ci soffermeremo nelle pagine successive, appaia evidentemente sin dalle prime pagine.

E’ il libro di un pensatore che non recide totalmente i legami con la tradizione cui appartiene – i due autori principali di riferimento sembrano essere Carl Schmitt e Antonio Gramsci –, tentando piuttosto di rinnovarla di fronte alle questioni poste dal presente.

 Il problema fondamentale con il quale Preterossi si confronta è quello della crisi della democrazia. Cosa rimane del «progetto democratico» – per dirla con il titolo del volume di Roberto Frega in corso di pubblicazione – nell’epoca della tecnocrazia, dello strapotere finanziario, del ritorno dell’estremismo politico di destra e delle pulsioni autarchiche? La posizione dell’autore in merito è drastica, ma non disperata. Preterossi sostiene che una volta comprese le cause di questa crisi, è possibile intervenire nel contesto contemporaneo al fine di porre argine a una deriva dai potenziali esiti autoritari.

In questo contributo critico non si farà riferimento esclusivo al testo di Preterossi. Pur rappresentando il centro dell’analisi, Ciò che resta della democrazia verrà discusso tenendo in conto del dibattito che ha coinvolto l’autore, Vincenzo Di Nuoscio, Flavia Monceri e Lorenzo Scillitani durante la presentazione del volume presso l’Università del Molise. Una discussione che per ovvi motivi di tempo non ha coperto l’intero arco tematico toccato dal volume, concentrandosi sugli aspetti più cogenti e più rilevanti nel quadro politico attuale. Nella parte finale, verrà sottolineato un punto ulteriore, che assume nei nostri giorni un’importanza sempre più pressante: il problema del rapporto tra populismo e democrazia.

Salvare il politico per salvare la democrazia

Come notato da Scillitani, il concetto di democrazia è attualmente sottoposto a una fortissima tensione. Nei decenni scorsi la critica del sistema democratico rappresentava agli occhi dei cittadini una sorta di esercizio teorico controintuitivo e minoritario, lontano e astratto rispetto a una fiducia di fondo che pareva essere inscalfibile.  Oggi le cose sono radicalmente cambiate. La demotivazione delle speranze che la modernità ha riposto nella democrazia, per dirla ancora con Scillitani, è all’origine di un atteggiamento di rabbia, delusione e a tratti d’indignazione nei confronti di quel sistema che pareva essere l’orizzonte ineludibile dell’umanità. Nell’argomentare le sue tesi nel corso del dibattito, l’autore ha integrato i passaggi chiave del volume con una ricostruzione introduttiva di carattere storico. La crisi della democrazia, afferma Preterossi parafrasando il giurista tedesco Ernst-Wolfgang Böckenförde, consiste nel fatto che lo stato democratico vive di presupposti che apparentemente non è più in grado di garantire. Due di questi presupposti sono lo stato sociale e la redistribuzione delle ricchezze. È fondamentale sottolineare come l’incapacità denunciata da Preterossi non sia di natura logica o strutturale. Non è la democrazia in sé che non riesce a garantire le condizioni della propria esistenza, quanto piuttosto una certa forma di democrazia neoliberale che si è imposta negli ultimi decenni. Negli anni post seconda guerra mondiale, le democrazie sociali dell’occidente costruirono un imponente sistema di welfare state, che rese possibile una vita dignitosa e l’opportunità di ascesa sociale per milioni di persone sino ad allora condannate alla miseria. Questa declinazione sociale della democrazia fu incitata da due spinte: quella dei movimenti e dei conflitti sociali, e quella strategica che mirava ad indebolire il fascino di redenzione rivoluzionaria esercitato dal blocco sovietico. Attraverso il welfare state, le democrazie liberali puntarono a dimostrare che si poteva avere sia libertà che uguaglianza allo stesso tempo, senza dover sacrificare le esigenze libertarie al conformismo autoritario e omologante delle società comuniste.

Il compromesso tra capitalismo e democrazie resse per alcuni decenni, ma finì per implodere con la scomparsa della grande minaccia sovietica. Poiché «non c’era più alternativa» – il riferimento a Margaret Thatcher non è casuale – , veniva anche meno il bisogno di offrire argomenti materiali sulla supremazia delle democrazie liberali. La democrazia divenne l’unico orizzonte possibile. Ma venuta meno l’esigenza di combattere il mito comunista ormai crollato, tutte le conquiste sociali faticosamente conquistate nei decenni cominciarono a essere messe in discussione.

Nel corso degli anni, il compromesso tra capitalismo e democrazia finisce così per rompersi: la seconda diventa terra di conquista per poteri economici ormai incontrollabili.  Il conflitto sociale viene edulcorato, se non implicitamente bandito, attraverso i processi di spoliticizzazione anticipati da Carl Schmitt. Il conflitto politico sui fini lascia spazio al«dominio» di un mezzo scopo a se stesso, che si pone come completamente «neutro» (72). Ogni conflitto tra valori, idee e interessi va sottoposto al quadro indiscutibile di riferimento della tecnocrazia neoliberale, che trasforma i fini politici ed economici di una parte in una realtà naturale, oggettiva, insindacabile, non neutrale ma neutralizzata e neutralizzante.

Tornare allo stato per salvare la democrazia?

Senza più stato sociale, la democrazia risulta incapace di mantenere le sue promesse universalistiche ed emancipatrici; senza conflitto, la democrazia perde il suo nucleo politico.   Da qui la domanda: in che modo è possibile ricostruire il fondamento politico-conflittuale e solidale della democrazia? Il che equivale a chiedersi: com’è possibile salvare la democrazia?

La risposta di Preterossi chiama in causa un’ulteriore domanda, forse la più impegnativa dell’intero volume: le condizioni che rendono possibile la democrazia sono possibili al di fuori dello stato? E’ possibile che delle forme di governo e di amministrazione di carattere sovranazionale rendano possibile l’organizzazione dello stato sociale e l’esercizio del «politico»? Secondo l’autore, no, ed è questo il punto di partenza della sua critica all’Europa.

La prima tesi sostenuta da Preterossi è oramai tanto diffusa da essere diventata quasi senso comune, almeno in alcuni stati europei. L’Unione Europea è un sogno che si è rapidamente trasformato in incubo. Invece di rappresentare un’unione di solidarietà capace di superare gli egoismi nazionali e i loro effetti perversi e devastanti, l’Europa è diventata un soggetto amministrativo tecnocratico, totalmente refrattario alle istanze di cambiamento provenienti dal basso. Questa neutralizzazione, tuttavia, è ben lontana dall’essere neutrale. Secondo Preterossi l’attuale assetto della UE favorisce in modo chiaro ed evidente la Germania e i suoi paesi satelliti, determinando i caratteri di un’«Europa tedesca», per dirla con Ulrich Beck (33). Tutto ciò avviene attraverso quello che, da una prospettiva foucaultiana, potremmo definire «uso strategico della legge». Le famose regole europee, infatti, vengono talvolta realizzate con rigore inflessibile, per poi venire in altre occasioni evase con estrema nonchalance – vedi il famoso limite al surplus commerciale, puntualmente sforato dalla Germania. Gli stati vengono continuamente ricondotti alla proprie responsabilità politiche nei confronti del proprio elettorato e allo stesso tempo la realizzabilità dei diversi programmi politici è fortemente vincolata alle regole di Bruxelles.

In queste condizioni, afferma Preterossi, le democrazie nazionali europee vengono svuotate di senso e significato. Sotto i colpi d’accetta dell’austerity, il welfare state diventa un miraggio, soprattutto nei paesi meridionali, mentre invece rimane una solida realtà in terra tedesca. La presunta solidarietà europea viene dunque accantonata, in favore del modello dello «stato sociale in un paese solo» (33). Allo stesso tempo, attraverso la neutralizzazione prodotta dal discorso tecnocratico e dal paradigma dell’austerity, il conflitto politico, e quindi secondo Preterossi il nucleo politico della democrazia, viene disinnescato. O ancora peggio, viene pre-incanalato nelle forme di conflitto violente e reazionarie dei cosiddetti populismi di destra. Sono questi i motivi per i quali secondo Preterossi l’Unione Europea ha tradito le proprie promesse, minando la possibilità stessa della democrazia nei paesi che più soffrono il regime dell’austerity e l’indiscutibilità delle regole tecnocratiche.

A prima vista, questa critica non sembra riguardare l’Europa in se stessa, quanto piuttosto l’attuale conformazione dell’unione europea. Un’altra UE – fondata su sistemi di welfare e solidarietà transnazionali, e in cui il conflitto politico tra i fini trovasse finalmente diritto di cittadinanza – sarebbe compatibile con il progetto democratico, potendone addirittura rappresentare un’estensione e un riadeguamento rispetto alle sfide contemporanee.

Ma questa speranza – e qui viene il secondo punto di Preterossi – è probabilmente irrealistica. Poiché una simile proposta di rinnovamento delle istituzioni europee verrebbe probabilmente respinta dai difensori dell’attuale assetto, diventa necessario ritornare a pensare in termini di stati – in questo senso, il riferimento al volume del sociologo tedesco Wolfgang Streeck Gekaufte Zeit è esplicito. Poiché le condizioni che rendono possibile la democrazia sono a loro volta possibili soltanto all’interno di una forma statale, e poiché è molto improbabile che l’Unione Europea assuma la forma di un enorme stato federale, con tutto ciò che ne consegue a livello di ridistribuzione della ricchezza tra stati forti e stati deboli, diventa necessario cominciare a pensare a un qualche ritorno agli stati nazionali. Potrebbe questa essere l’ultima spiaggia per le democrazie occidentali, strette tra la neutralizzazione non neutrale dell’attuale assetto europeo e le spinte dei movimenti europei di estrema destra, che minacciano paradossalmente i sistemi democratici ergendosi a ultimo baluardo della difesa della sovranità democratica nazionale.

Il ritorno allo stato: l’unica via possibile?

Come noto, l’analisi dello stato attuale dell’Unione Europea avanzata da Preterossi trova d’accordo numerosi punti di vista eterogenei. Tuttavia, la conclusione del ragionamento – che ricordiamo essere problematica: l’autore non rifiuta un possibile cambiamento delle istituzioni europee, tuttavia lo reputa improbabile e perciò chiede che la possibilità di una exit collettiva venga almeno presa in considerazione – suscita diverse obiezioni.

La prima obiezione è quella avanzata da Flavia Monceri nel corso del dibattito. Monceri concorda con l’analisi di Preterossi  in particolare per quanto concerne l’idea di fondo secondo la quale poiché il «politico» è essenzialmente conflitto, di conseguenza ogni disinnesco del conflitto comporta un processo di de-politicizzazione. Le due prospettive divergono nel momento in cui entra in gioco il ruolo della democrazia. Se Preterossi porta alle estreme conseguenze il nesso stato-democrazia, riabilitando il primo ai fini di salvare la seconda, Monceri invita a sfruttare i dilemmi della contemporaneità ai fini di pensare l’aldilà sia dello stato che della democrazia. Di fronte agli spaventosi cambiamenti delle società contemporanee, il compito della filosofia non dovrebbe essere quello di immaginare istituzioni che vadano aldilà dello stato e della democrazia? L’idea di un’uscita emancipatrice dalla crisi attuale non potrebbe forse passare attraverso l’immaginazione di nuove forme di organizzazione e di autogoverno? Il ritorno alla soggettività auspicato da Preterossi non potrebbe essere sostituito finalmente dal primato dell’individualità – un’individualità di segno opposto rispetto a quella narcisistica, autoreferenziale ed egoistica che si ritiene prodotta dal neoliberismo? In breve: invece di rispondere alla crisi dell’UE richiamando in causa le categorie di stato e  democrazia, che appaiono piuttosto obsolete, Monceri propone di pensare forme di governo e auto-organizzazione nuove, prendendo anche sul serio le ipotesi neo-anarchiche.

La seconda obiezione possibile riguarda invece la tesi dell’incompatibilità tra democrazia e Unione Europea. Questa tesi rappresenta la spina dorsale del ragionamento più strettamente politico di Preterossi, e del suo invito a riaprire il dibattito sul ritorno agli stati nazionali. Essa presuppone l’esistenza di una leadership tedesca, insensibile di fronte a ogni esigenza redistributiva nei confronti degli stati meno abbienti e incoerente per quanto riguarda il rispetto delle famose regole di bilancio. Lo scetticismo di Preterossi si basa sulla refrattarietà dell’alleanza pro-austerity guidata da Berlino nei confronti di ogni istanza di cambiamento nei confronti dell’ordine neutralizzante che ispira la UE oggi.

Viene però da chiedersi: qualcuno ha mai veramente sfidato questa egemonia tedesca? Il caso della Grecia è spesso chiamato in causa come emblema dell’impossibilità di ogni cambiamento delle regole del gioco europee. Tuttavia, il fallimento totale della negoziazione tra Alexîs Tsipras e il duo Angela Merkel-Wolfgang Schäuble rappresenta un caso emblematico anche in un altro senso. Durante la partita greca è emersa infatti l’inesistenza di una soggettività politica – per dirla nei termini di Preterossi – che si ponga come antagonista rispetto al tanto contestato primato tedesco. La maggior parte dei governi «mediterranei» continua a dichiarare a più riprese un’ostilità di principio nei confronti dell’austerity, senza che questa ostilità si traduca mai in un progetto politico. Nel momento chiave, ossia schmittianamente nel momento della decisione, i paesi del sud dell’Europa si adeguano sempre al piano A avanzato dalla leadership tedesca, senza portare mai sul tavolo un’alternativa credibile e condivisa. Inoltre, gli stessi elettori di questi paesi nel corso delle scorse elezioni europee del 2014 hanno premiato tendenzialmente i partiti la cui alleanza esprime il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker. Tutto questo per dire che il «discorso di verità» di Preterossi sull’esplosività della situazione dell’Europa, sulla crisi delle sue istituzioni e sui suoi potenziali effetti è difficilmente contestabile. Allo stesso tempo, la controprova dell’impossibilità di riformare in modo radicale le istituzioni europee ancora non è disponibile allo stato attuale delle cose, non essendoci stato finora un tentativo serio e sistematico di costruzione di un’alternativa alla cosiddetta «Europa tedesca».

Democrazia e populismo

In conclusione, vorrei affrontare il tema forse più attuale e controverso toccato da Preterossi in Ciò che resta della democrazia, ossia la questione del populismo. Come noto, le discussioni sul populismo sono spesso origine di dibattiti e fraintendimenti di fondo. L’approccio che consiste nel trattare il populismo come un fenomeno totalmente derivativo e residuale, come una sorta di materiale di scarto prodotto dal cattivo funzionamento della democrazia, appare sempre più il frutto di un atteggiamento incapace di concepire la complessità e la portata del fenomeno. L’avanzata del populismo di destra in quasi tutti i paesi dell’Unione Europea, l’emergere e il successo di populismi di sinistra – ad esempio, il caso Podemos in Spagna – e la recente inaspettata vittoria di Donald Trump alle presidenziali americane richiedono uno sforzo teorico e di comprensione di ampia portata. Ed è esattamente questa la direzione in cui si muove l’analisi di Preterossi.

Secondo l’autore, parlare di popolo significa sempre parlare di costruzione di un  popolo. Non si dà mai un’entità unica, totalmente omogenea e pre-esistente, che i partiti devono semplicemente rappresentare. Al contrario, la soggettività del popolo deve essere sempre costruita raccogliendo «istanze dal basso ancora disarticolate», che vanno «soggettivizzate sul piano simbolico» (97). Il fatto che il popolo sia sempre l’effetto di una costruzione in qualche misura artificiale non implica alcun atteggiamento sminuente nei confronti della soggettività che risulta prodotta da tale attività costruttiva. Preterossi critica infatti gli approcci «neoelitisti» che mirano alla «delegittimazione generale del demos» di fronte alla minaccia «populista» (218). Ogni tentativo di sminuire la sovranità popolare in nome del principio della delega – chi decide sono gli eletti, non gli elettori; quindi l’espressione «volontà popolare» è una metafora – rappresenta una mossa parziale e lontana dall’essere neutrale. Al contrario, Preterossi propone di mantenere il senso e il valore del riferimento a una sovranità popolare che non miri a esprimere direttamente l’esistenza di un popolo totalmente omogeneo ed etnicamente determinato, quanto piuttosto a riferirsi simbolicamente «a un costrutto collettivo, alla costruzione sociale e culturale di una cittadinanza attiva e aperta alla possibilità che non tutto sia già definito, che maturino nel suo seno, o ai suoi confini, dissensi, conflitti e pretese nuove» (119).

Il confronto con Ernesto Laclau diventa a questo punto inevitabile. Anche la teoria sul populismo di Laclau afferma che il popolo sia l’effetto di una costruzione, e che addirittura la costruzione di un soggetto popolare costituisca l’attività politica per eccellenza. Questa costruzione avviene per mezzo di un significante fluttuante, ossia di un segno abbastanza aperto e vago da poter condensare e sintetizzare diverse domande sociali eterogenee e apparentemente incommensurabili. Il popolo è quindi l’esito temporaneo di un processo di unificazione che avviene a partire dalla spinta di forze agonistiche differenziate. Queste ultime non rappresentano secondo Laclau l’effetto delle contraddizioni oggettive tra diversi interessi di classe, quanto piuttosto «l’avvertimento di una condizione di subalternità che si può legare ad ambiti diversi (dalla casa alla scuola alla precarietà ai beni vitali essenziali allo smaltimento dei rifiuti alla tutela della salute in certi territori, ecc.) che fanno ‘massa critica’ se trovano un punto di unificazione. La frattura è nominabile, ma non afferrabile contenutisticamente» (123).

Il popolo è dunque il risultato di un’operazione egemonica, attraverso la quale domande sociali critiche rispetto all’ordine sociale vigente vengono condensate in un segno che le unifichi tramite un’opera di nominazione. Pensiamo ad esempio al ruolo del significante «casta» nel discorso politico del Movimento 5 stelle. In molti criticano il discorso anti-casta per la sua vaghezza e per la sua relativa indeterminatezza. Secondo Laclau, queste critiche non colgono il fatto che è proprio grazie alla sua vaghezza che questo significante ha avuto il potere di unire istanze e domande di natura eterogenea e provenienti da contesti sociali differenti e apparentemente incompatibili. E’ dunque in virtù di un processo sociolinguistico che la molteplicità delle domande viene sintetizzata nell’unità artificiale e instabile del popolo.

Pur muovendo da una concezione moderatamente costruzionista del popolo, Preterossi contesta Laclau esattamente sul punto del rapporto tra egemonia e populismo. Nella formulazione di Laclau va infatti perso l’aspetto culturale, educativo e conoscitivo che è invece fondamentale nella teoria egemonica gramsciana. Come nota giustamente Preterossi, «la relazione egemonica è una relazione pedagogica. L’egemonia è tanto un fatto di conoscenza, quanto un processo che si radica sul terreno degli interessi materiali (ma le due dimensioni non sono in contraddizione)» (136). Il processo egemonico nella teoria gramsciana non è un semplice fenomeno di unificazione del molteplice delle istanze sociali. L’egemonia prevede anche una dimensione formativa e conoscitiva, un processo condiviso di articolazione e condivisione dell’intelligenza collettiva. In Laclau quest’aspetto manca, e di conseguenza mancano criteri per giudicare e valutare i diversi tentativi populistici. In base a quali criteri è possibile distinguere tra una rivoluzione populista dagli esiti autoritari e regressivi e un movimento populista di natura progressiva? Questa distinzione, che in Gramsci è resa possibile grazie al ruolo svolto dalla cultura e dall’educazione nel processo egemonico, diventa di difficile realizzazione nel quadro teorico laclauiano. Per questo motivo, Preterossi sostiene ragionevolmente che il concetto gramsciano di egemonia non può essere ridotto a quello più vago e generale di populismo.

La critica propositiva di Preterossi a Laclau permette di aprire orizzonti nuovi nello studio del populismo. Prendere sul serio la suddetta questione non comporta in alcun modo un atteggiamento acritico nei confronti dei vari populismi. Una volta realizzato il processo di costruzione del popolo a partire dall’eterogeneità delle domande sociali, che ruolo può svolgere la conoscenza, la discussione pubblica e la critica all’interno di una società populista? E soprattutto, qual è il modo in cui un governo populista presiede a quella che, come notato durante il dibattito da Vincenzo di Nuoscio, è una delle funzioni fondamentali della democrazia, ossia il problem solving? In che modo una democrazia populista gestisce i problemi che emergono dalla società, in particolare quei problemi la cui discussione richiede un determinato grado d’istruzione ed educazione – pensiamo solo all’economia, all’ambiente e alla questione dell’immigrazione?

Sono domande che necessariamente rimangono aperte in questa sede, ma che la critica gramsciana di Preterossi alla teoria gramsciana di Laclau permette di far emergere.  E forse proprio Gramsci –  assieme allo stesso Laclau e alla teoria della democrazia di John Dewey – può aiutarci a pensare criticamente la connessione tra populismo, democrazia, educazione e discussione pubblica. Una volta creato il popolo, in che modo si risolvono i problemi posti dagli individui e dai gruppi sociali? Come ci si comporta nei confronti di eventuali domande che mettano in discussione l’identità fluttuante del popolo? In che modo una democrazia populista può rapportarsi in modo non autoritario all’irriducibile e imprevedibile pluralità dei punti di vista che costituiscono la società? In sintesi: la via d’uscita populista alla crisi della democrazia apre necessariamente la strada a nuove forme di autoritarismo? Oppure c’è spazio per una versione deweyano-gramsciana del populismo, in cui la soggettività temporaneamente unitaria del popolo non legittimi l’autodifesa del sistema politico nei confronti delle voci eccedenti e problematiche? Forse il più grande merito del testo di Preterossi consiste proprio nel rendere articolabili questioni del genere, senza cedere né al conservatorismo teorico, né all’accettazione acritica dei nuovi, o forse in parte vecchi, fenomeni che stanno sconvolgendo la nostra contemporaneità.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Castoriadis Cornelius e Lasch Christopher, 2014, La cultura dell’egoismo. L’anima umana sotto il capitalismo. Milano, Eleuthera.

Laclau Ernesto, 2008, La ragione populista, Roma-Bari, Laterza.

Preterossi Geminello, 2015, Ciò che resta della democrazia. Roma-Bari, Laterza.

Streeck Wolfgang, 2013, Gekaufte Zeit. Die vertagte Krise des demokratischen Kapitalismus. Suhrkamp, Berlin.

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