“Antropologia e modernità. Le lezioni giapponesi di Lévi-Strauss tra filosofia, diritti dell’uomo e comunicazione” di Giuseppe Di Palo

Antropologia e modernità. Le lezioni giapponesi di Lévi-Strauss tra filosofia, diritti dell’uomo e comunicazione. 

Gli studi antropologici si sono sempre confrontati con i problemi di una modernità in avanzamento costante ed in grado di influenzare il mondo intero. Tra le problematiche principali messe in evidenza da questa disciplina figura senza dubbio alcuno il concetto di etnocentrismo considerato, a partire da Malinowski, una concezione per la quale il proprio gruppo è considerato il centro di tutto. A mettere ulteriormente in rilievo tale argomento è stato Claude Lévi-Strauss soprattutto durante le conferenze pronunciate a Tokyo fra il 15 e il 16 aprile 1986 presso la fondazione Ishizaka e che saranno illustrate di seguito.

Nella prima conferenza, l’antropologo francese si è concentrato sulla questione che da circa due secoli la civiltà occidentale si è autodefinita come la civiltà del progresso, e altre civiltà hanno ritenuto di doverla prendere a modello (cfr. Lévi-Strauss, 2010: 63). Spesso però il progresso non porta solo benefici, basti pensare ai genocidi e alle violenze che il progresso stesso ha facilitato. L’uomo appare come un essere dotato di linguaggio articolato e che vive in società. La riproduzione della specie è sottomessa a regole che escludono un certo numero di unioni biologiche. L’uomo fabbrica e adopera utensili che impiega in svariate tecniche. La sua vita sociale si svolge all’interno di complessi istituzionali il cui contenuto può cambiare da un gruppo all’altro, ma la cui forma generale resta costante (cfr. ivi: 66). Ciò che colpisce l’uomo alla vista degli altri uomini sono i punti in comune, anche se Rousseau affermò: «per scoprire le proprietà bisogna anzitutto osservare le differenze» (cfr. ivi: 69). Alcune di queste differenze servono per classificare le società umane su basi molto più solide. Fra questi criteri troviamo:

  • divisione del lavoro;
  • ­regole di residenza;
  • regole della filiazione e del matrimonio;
  • proibizioni alimentari.

Queste differenze sono suscettibili di comparazione nella misura in cui non esiste popolo presso il quale non le si possa osservare. (cfr. ivi: 69-70) In tal modo si ha un mezzo per poter distinguere le società le une dalle altre e dare loro un giusto posto in una categoria.

Si designano, ad esempio, come primitivi gruppi umani che si differenziano dai nostri principalmente per l’assenza di scrittura e di strumenti meccanici. (cfr. ivi: 71) Queste società consistono in un numero di abitanti molto basso, tanto che le nascite compensano le perdite. Se però si assiste ad una notevole crescita demografica, allora il gruppo si scinderà in due gruppi di pari misura. In tal modo anche le malattie infettive vengono ad eliminarsi in quanto, una volta contagiati i pochi abitanti che poi diventano immuni alla malattia, essa scompare. Malattie non infettive sono invece del tutto assenti grazie a salubri condizioni di vita (cfr. ivi: 72-73). Tali società esotiche sono lontane, non solo geograficamente, ma anche intellettualmente e moralmente dall’antropologo che le studia. Gli uomini parlano una lingua e adottano determinate regole grammaticali senza saperne il perché, non sanno perché possono cibarsi di determinate cose e non di altre, e sono questi fra i molti aspetti che l’antropologo cerca di spiegare, in quanto portatore di una serie di ambizioni.

La prima ambizione dell’antropologia è di attingere l’oggettività. L’oggettività alla quale l’antropologia aspira è di un genere tale che l’antropologia non si limita ad innalzarsi al di sopra dei valori propri alla società o all’ambiente sociale dell’osservatore, ma trascende i suoi stessi metodi di pensiero, fino ad elaborare formulazioni non solo per un osservatore onesto ed obiettivo, ma per qualunque possibile osservatore (cfr. ivi: 76-77).

La seconda ambizione dell’antropologia è la totalità, perché considera la vita sociale come un sistema i cui aspetti sono organicamente connessi, e perché è ben disposta ad ammettere l’indispensabile frazionamento di un insieme. Ma ciò che l’antropologo ricerca è la forma comune, le proprietà invariate che si manifestano al di là dei più differenti modi di vivere in società (cfr. ivi: 77).

Nelle società moderne le relazioni con altri non risultano più essere impostate maggiormente per via orale (un genere di comunicazione che permette una concreta e reciproca comprensione dei soggetti), ma per via scritta. In altre parole, conosciamo il nostro passato e gli altri popoli attraverso ricostruzioni indirette, anziché mediante una tradizione orale. Comunichiamo attraverso ogni sorta di intermediari che da un lato moltiplicano i nostri contatti ma, dall’altro, ne aumentano il rischio di inautenticità (un esempio di ciò è il rapporto tra i cittadini e i poteri, pubblici e non). In queste società moderne l’antropologia si applica a rintracciare e ad isolare livelli di autenticità (cfr. ivi: 81). È intuibile perciò che per un antropologo è molto più semplice studiare un villaggio o un quartiere di città di cinquecento abitanti, poiché tutti conoscono tutti, piuttosto che una grande città che conta intorno ai cinquecentomila abitanti. Il contributo dell’antropologia alle scienze sociali si muove proprio su queste fondamenta teoriche, e consiste nella distinzione tra due modalità di esistenza sociale: un modo di vita percepito come tradizionale e arcaico, tipico delle società autentiche; forme di vita sociali più recenti, dalle quali il primo tipo non è assente, ma è un isolotto in un mare più vasto connotato da inautenticità (cfr. ibidem).

Ciò che interessa l’antropologia, sin dalle sue origini, risalenti all’umanesimo (periodo rinascimentale) sono le differenze che queste forme di vita presentano tra loro. I pensatori del Rinascimento affermavano che la conoscenza e la comprensione della propria cultura sono possibili solo se la si osserva come se si appartenesse ad un’altra (tecnica dello spaesamento). All’inizio del Rinascimento l’universo umano era circoscritto al solo bacino del Mediterraneo, e si sospettava solo dell’esistenza del resto del mondo (cfr. ivi: 84). Ma si capì che nessuna parte dell’umanità può comprendersi se non in relazione ad altre. Successivamente l’umanesimo avanza con l’avanzare delle esplorazioni, così che l’universo umano si espande fino a comprendere anche l’Oriente. Questi due processi rappresentano le prime due tappe dell’umanesimo. La terza tappa, ultima perché all’uomo non è rimasto nient’altro da scoprire se non se stesso, è detta antropologica o democratica. I mezzi cui l’antropologia dispone sono: la filologia e la storia. L’area d’indagine dell’antropologia abbraccia tutta la terra abitata, mentre il suo metodo si avvale di procedimenti che appartengono a tutte le forme del sapere: scienze umane e scienze naturali. L’antropologia proclama che nulla di umano potrebbe essere estraneo all’uomo. Questo è il fondamento dell’umanesimo democratico che si allontana così dai precedenti umanesimi esotici, letterari, aristocratici e borghesi (cfr. ivi: 84-85). Infine l’antropologia fa appello alla riconciliazione dell’uomo in un umanesimo generalizzato (cfr. ivi: 86). Uno dei benefici dell’antropologia è di invitare membri di civiltà ricche e potenti all’umiltà, con l’insegnare una certa saggezza. L’antropologia afferma che il proprio modo di vivere, i propri valori non sono gli unici possibili. Altri modi di pensare e di agire permettono a comunità umane di trovare la felicità. L’antropologia a tal proposito insegna a rispettare gli altri modi di vivere. Ad esempio, i ritmi di vita dei popoli primitivi, fondati su una agricoltura rudimentale di sussistenza, caccia e pesca, permettono che con solo quattro ore di lavoro giornaliere riescano a garantire i viveri per l’intero nucleo familiare, anzi, la bassa consistenza demografica permette di avere delle abbondanze. Sarebbe un errore ritenere questi popoli schiavi della natura in cui sono immersi in quanto godono di maggiori indipendenza e tempo libero di allevatori e lavoratori. Tale tempo libero permette loro di dare sfoggio della loro immaginazione in attività religiose ed artistiche (cfr. ivi: 88).

Le società moderne, invece, si trovano ad aver a che fare con problemi quali alta densità demografica, limitata quantità di spazio libero e di aria pura, ecc. È probabile che gli uomini abbiano elaborato diverse culture a seconda del contesto in cui erano immersi, la distanza geografica e da altri fattori così da dover adattarsi. Il metodo antropologico è così dato dall’attenzione e dal rispetto prestati alle differenze tra le culture così come a quelli interni a ciascuna di esse. L’antropologo invita le società a non credere che le sue istituzioni, i suoi costumi e le sue credenze siano i soli possibili, e cerca di ispirare negli uomini e nei governi un certo grado di saggezza (cfr. ivi: 90-91).

Nella seconda conferenza nipponica, Lévi-Strauss esordisce sottolineando lo stato delle società senza scrittura. Tali società devono essere considerate sulla base di tre prospettive: la loro organizzazione familiare e sociale, la loro vita economica, il loro pensiero religioso.

Per il primo punto si può dire che queste società adoperano relazioni di parentela e di alliance per definire l’appartenenza o meno ad un gruppo. I membri del gruppo sono considerati esseri umani per eccellenza, gli stranieri non vengono nemmeno considerati come esseri umani. La parentela viene a definirsi in base ad unioni biologiche, fondate su regole sociali diverse da cultura a cultura (cfr. ivi: 98-102), e l’esigenza primaria che si impone alle società umane è di riprodursi, ovvero di conservare la specie. Al giorno d’oggi è possibile dare figli a coppie che non possono averne, mediante l’inseminazione artificiale ed altre tecniche simili. In questi casi il nuovo nato si troverà ad avere più persone che possono essere considerate come genitori (cfr. ivi: 95). Ci sono casi in cui una donna chiede di essere inseminata con lo sperma del marito defunto. Ci si potrebbe però chiedere: perché non farsi inseminare con lo sperma del bisnonno defunto? Sotto certi aspetti il nuovo nato sarebbe fratello del bisnonno della madre, zio di suo nonno, e così via. Ciò porta a vedere l’inseminazione artificiale come un problema che si pone in due principali ordini: uno di natura giuridica e l’altro di natura psicologica e morale. Tali problemi sono risolti in maniere diverse (cfr. ivi: 95-97). In certi casi è possibile tripartire la maternità in quanto il concepimento avviene fra chi dona l’ovulo, chi presta l’utero e chi diviene la madre legittima del nascituro. Si avrà così una maternità genetica, una fisiologica (che crea il legame più stretto tra madre e figlio), e una sociale. Due donne omosessuali che vogliono avere un figlio avranno i rispettivi ruoli di padre legittimo e madre biologica. In generale, le nuove tecniche di procreazione assistita hanno disorientato il pensiero contemporaneo. L’antropologia cerca di far capire perché in determinate culture avvengono cose che per altre sono inconcepibili, e cerca di evitare una fretta eccessiva di legiferare circa cosa e proibito e cosa non lo è. Essa dà soprattutto consigli di prudenza e tolleranza (cfr. Scillitani, 2015).

Per quanto riguarda la vita economica, nelle società il lavoro serve sia a realizzare un profitto, sia ad acquistare un prestigio e a contribuire al bene della comunità. Fin dai tempi della preistoria le società hanno saputo dedicarsi ad attività industriali su larga scala, e allo stesso tempo sanno come limitarla con processi inibitori. Pertanto le diverse comunità regolano la loro economia in maniera diversa, così da affermare che non esiste un solo modello di attività economica. Ogni società deve avere più forme di attività economica perché, se una fallisce o porta svantaggi, vi sono altre scelte possibili. Per esempio, un popolo non può fondarsi solo sulla coltivazione di cereali, perché in tal modo il loro nutrimento sarebbe privo di vitamine e proteine. Altrettanto vale per l’allevamento. La scoperta delle materie prime, tra cui il ferro, può essere vista sotto un duplice aspetto: se da un lato ella ha facilitato e semplificato il lavoro e l’attività economica, dall’altro ha rovinato la cultura tradizionale. L’idea di un voto espresso dalla maggioranza è, inoltre, estraneo alla concezione di queste società. Si passa al voto solo quando il gruppo ha realizzato al suo interno le condizioni di un’indispensabile unanimità. Le società senza scrittura ritengono che la coesione sociale e l’armonia all’interno del gruppo siano preferibili a qualunque innovazione. La resistenza allo sviluppo è data anche dall’idea del rapporto natura/cultura. Lo sviluppo presuppone che si faccia passare la cultura dinnanzi alla natura. Ma nessuna società, per quanto modesta, evita di attribuire un valore elevato alle arti della civiltà attraverso le quali la condizione umana si distacca dalla condizione animale. Per i popoli primitivi la natura è pre-cultura e sotto-cultura, ma allo stesso tempo costituisce l’ambito nel quale l’uomo spera di incontrare gli antenati, gli spiriti, gli dei. La natura quindi comprende una componente soprannaturale. La stessa opposizione fra natura e cultura si ritrova spesso a fondamento della divisione sessuale del lavoro.

Molte società considerano come omologhe l’opposizione natura/cultura e l’opposizione uomo/donna (cfr. ivi: 110). Esse riservano alle donne le forme di attività concepite come dipendenti dall’ordine della natura (la natura è donna – madre natura/ lingua madre), mentre l’uomo si assume compiti da adempiere con l’ausilio di strumenti e macchine. Le società primitive hanno una storia, però queste preferiscono sottrarsi ad essa in quanto i loro membri concepiscono la loro società come capace di durare. Le società odierne, invece, sono fatte per cambiare: è il principio della loro struttura e del loro funzionamento. Sotto questo aspetto le società moderne generano più ordine a scapito di una maggior entropia sul piano delle relazioni interpersonali (lotte politiche, conflitti sociali, tensioni psichiche). Viceversa vale per le società primitive. In definitiva, una società genera entropia e l’universo produce ordine (cfr. ivi: 112). Questi due aspetti di ordine e disordine portano la civiltà ad essere considerata dal punto di vista della cultura e della società. La cultura consiste nell’insieme dei rapporti che gli uomini di una determinata civiltà intrattengono con il mondo. La società consiste nei rapporti che gli uomini intrattengono tra di loro. La cultura fabbrica ordine (cfr. ivi: 113). Ciò che l’antropologo ricorda all’economista è che l’uomo non è spinto a produrre sempre di più. Nel lavoro l’uomo tenta pure di soddisfare aspirazioni che sono radicate nella sua natura profonda.

Altro aspetto trattato in questo studio è quello delle religioni, che per l’antropologo costituiscono un vasto repertorio di rappresentazioni che, sotto forma di miti, si combinano in forme diversificate (cfr. ivi: 116). Il pensiero mitico non stabilisce rapporti fra idee, ma oppone il cielo alla terra, la luce all’oscurità, ecc. elaborando una logica delle qualità sensibili – colori, intrecci, sapori, odori, rumori, suoni – (Ibidem). Le nostre società non hanno più miti. Per risolvere i problemi posti dalla condizione umana e dai fenomeni naturali, ci si rivolge ad una disciplina scientifica specializzata. Ciò che i popoli primitivi invocavano dai miti è la spiegazione dell’ordine del mondo che ci circonda e della struttura sociale in cui si è nati (cfr. ivi: 118). Nelle società contemporanee ciò viene fatto indagando la storia. Ogni mito sembra raccontare una storia diversa, ma spesso si scopre che si tratta di uno stesso mito narrato in maniera diversa in diverse culture. Mentre si può credere all’esistenza di più miti, non si riesce a credere all’esistenza di più storie. La storia è una e unica, ma si potrebbe dire che ogni partito politico, ogni ambiente sociale, ogni individuo, parla di una storia diversa. La storia esprime pregiudizi e aspirazioni. In questo ambito, l’antropologia fa capire meglio che il passato della nostra società, come quello di altre, non ha un solo possibile significato. Non si dà un’interpretazione assoluta del passato storico, ma si danno interpretazioni tutte relative (cfr. ivi: 120-121).

Nella sua terza e ultima conferenza tenuta in Giappone, Lévi-Strauss mette in evidenza una distanza rilevante tra le società senza scrittura e le società contemporanee. Questo scarto sarebbe insormontabile poiché si ritiene che gruppi umani si differenziano in base al proprio patrimonio genetico – tesi del razzismo – (cfr. ivi: 123). Secondo la teoria evoluzionistica, invece, lo scarto tra le culture è di origine storica (nello stesso tratto temporale alcune società sono andate avanti, mentre altre sono rimaste indietro). Bisogna capire il perché del ritardo di alcune società, così da aiutarle nel recupero (ibidem). Su tale argomento ci si trova dinnanzi a due grandi problemi dell’antropologia: quello delle razze e quello che riguarda il senso da attribuire alla nozione di progresso (cfr. Lévi-Strauss, 1967). Ci si è interrogati così se la razza influenzasse la cultura (cfr. Lévi-Strauss, 2010: 123). Le abitudini di alcuni popoli, diverse da quelle di altri, portano alla soluzione per cui le differenze fisiche sono legate alle differenze culturali. Contro tale tesi l’antropologia ha affermato che le culture attualmente esistenti sono più numerose delle razze che i ricercatori si sonno affannati a catalogare, e che i patrimoni culturali si sviluppano più rapidamente dei patrimoni genetici. Il concetto di razza si basava su aspetti esteriori ben visibili, ma in seguito anche su aspetti non visibili, quali gruppi sanguigni, fattori immunitari, ecc. Queste razze invisibili faranno la loro comparsa in seno alle razze tradizionali. Così i genisti hanno sostituito alla nozione di razza quella di stock genetico, fatto di dosaggi relativi a questo o a quel luogo, e che hanno continuato a variare nel corso delle epoche (cfr. ivi: 125). Tali dosaggi aumentano o diminuiscono attraverso gradazioni impercettibili, e le soglie che qua e là si fissano dipendono dal tipo di fenomeno del quale il ricercatore si occupa. Un individuo di una determinata cultura considera le razze più lontane come le più omogenee (agli occhi di un bianco tutti i gialli si rassomigliano).

Gli stock genetici si differenziano tra di loro molto più che se non fossero l’effetto di raggruppamenti prodottisi casualmente (cfr. ivi: 127). Un’altra concezione afferma invece che sono le culture ad orientare il ritmo biologico degli uomini. La razza è così una delle tante funzioni della cultura. È la cultura a fissare i limiti geografici di un territorio, rapporti di amicizia o di ostilità con altri popoli, e gli scambi genetici. È probabile però che l’evoluzione biologica abbia segnato caratteri preculturali (posizione eretta, abilità manuale). La cultura invece consolida e diffonde questi elementi. Ogni cultura seleziona attitudini genetiche che retroagiscono sulla cultura, consolidandone l’orientamento. Entrambi gli approcci sono analoghi, perché le culture sono paragonabili a dosaggi irregolari di tratti genetici (razza), e complementari, perché ogni cultura possiede caratteri comuni espressi però in modo diverso. Le barriere culturali funzionano come le barriere genetiche, in quanto imprimono ad ogni popolo il proprio marchio: usi, costumi e tradizioni (cfr. ivi: 131). La diversità fra le culture raramente è apparsa agli uomini come fenomeno naturale che risulta dai rapporti diretti o indiretti fra le società, ma piuttosto come qualcosa di mostruoso e scandaloso, in quanto gli uomini tendono a ripudiare usi e costumi lontani dalla propria cultura fino a reputarli barbari. In questo modo si preferisce rigettare fuori della cultura, nella natura tutto ciò che si allontana dalle norme sotto le quali si vive. L’uomo realizza la sua natura non in un’umanità astratta ma in seno a culture tradizionali che si differenziano tra di loro a seconda dei luoghi e dei tempi. L’evoluzionismo costituisce un tentativo diretto di ridurre la diversità delle culture. Infatti la diversità fra le società umane risulta ormai solo apparente. L’umanità diventa unica e identica a se stessa (cfr. ivi: 134). Ogni società può ripartire le altre in due categorie: quelle ad esse contemporanee ma geograficamente lontane; e quelle vicine nello spazio ma lontane nel tempo (cfr. ibidem). Il progresso tuttavia non è necessitato. Sin da quando un individuo viene al mondo, l’influenza familiare e sociale comunica un complesso sistema di riferimenti, composti da giudizi di valore, motivazioni, centri di interesse. Nel corso della vita, l’individuo si sposta portando sempre con sé questo sistema di riferimento, e quelli di altre culture si innestano in lui solo attraverso una deformazione che opera su di esse il sistema di riferimento proprio dell’individuo stesso. Ciò che caratterizza una cultura è il suo modo di risolvere i problemi, che appartengono a grandi linee a tutti gli uomini. Ogni cultura infatti possiede una lingua, tecniche, arte, conoscenze positive, una morale, una forma di religione, organizzazione sociale, giuridica e politica. Ma il loro dosaggio non è mai precisamente lo stesso per ogni cultura. E l’antropologia si applica a comprendere le segrete ragioni di queste scelte anziché redigere inventari di fatti sperati. Il relativismo culturale non nega la realtà del progresso, ma esso incontra tre limiti:

  • il progresso si manifesta in settori particolari;
  • l’antropologo, quando esamina e confronta le società pre-industriali, è incapace di ricavare criteri che permettono di ordinarle tutte su di una scala comune;
  • l’antropologo si dichiara impotente ad emettere un giudizio di natura intellettuale o morale sui valori rispettivi di questo o quel sistema di credenze, o di questa o quella forma di organizzazione sociale. Per l’antropologo i criteri di moralità sono una funzione della società particolare che li ha adottati (cfr. ivi: 143).

Per rispetto verso i popoli studiati, gli antropologi non formulano giudizi sul valore comparato della cultura degli uni e degli altri. Essi dicono che nessuna cultura è essenzialmente capace di emettere un giudizio vero su di una cultura altra, in quanto una cultura non può evadere da se stessa, e resta legata al già accennato atteggiamento etnocentrico, questione tra l’altro ampiamente trattata dallo stesso Lévi-Strauss nel 1952 nel volume Razza e storia. In questo testo l’antropologo francese aveva riconosciuto che ogni società vive nella storia e muta, ma che diversi sono i modi in cui le varie società reagiscono a ciò. Le società primitive hanno subito trasformazioni, ma in seguito resistono a tali modificazioni: in questo senso, esse sono società fredde, ossia con un basso grado di temperatura storica, e la loro storia è fondamentalmente stazionaria. Esse si distinguono dunque dalle società calde, come quella occidentale, perennemente in divenire e caratterizzate da una storia cumulativa, le quali hanno come costo della loro instabilità i conflitti. In prospettiva, Lévi-Strauss auspica una integrazione tra questi due tipi di società e le corrispondenti forme di cultura e di pensiero. Egli rifiuta, dunque, ogni forma di etnocentrismo, in quanto ogni cultura realizza soltanto alcune delle potenzialità umane. Questo significa abbandonare ogni forma di umanesimo e di stoicismo, ossia respingere l’equivalenza, dominante nel mondo occidentale, tra le nozioni di storia e di umanità: la storia è soltanto una delle scelte possibili che gli uomini possono compiere (cfr. Lévi-Strauss, 1967).

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Dei Fabio, 2014, Quel che resta dello strutturalismo: Lévi-Strauss nel ventunesimo secolo. «Nuova informazione bibliografica». 1: 11-41.

Lévi-Strauss Claude, 1967, Razza e storia e altri studi di antropologia. Einaudi, Torino.

Lévi-Strauss Claude, 2010, Lezioni giapponesi. Tre riflessioni su antropologia e modernità.  Rubbettino, Soveria Mannelli.

Marra Realino, 2015, I viaggi di Claude Lévi-Strauss. «Materiali per una storia della cultura giuridica». XLV, 1: 31-44.

Scillitani Lorenzo, 2015, La filosofia del diritto di famiglia nell’antropologia strutturale di Claude Lévi-Strauss. Rubbettino, Soveria Mannelli.

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